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Autore: Lady_Bluefairy    14/07/2007    5 recensioni
Dean muore proteggendo Sam. "Era il tuo lavoro, dicevi, proteggermi era il tuo compito. Non facevo altro che pensare che un giorno saresti morto per salvarmi."
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Freddo

Freddo. Non mi ero mai accorto che un letto potesse essere così freddo.  Mi giro su un fianco. Il cuscino sotto la mia guancia è asciutto, ed è una sensazione strana ora. Non so che ore sono, non so da quanto tempo sono qui. La penombra che mi avvolge dovrebbe darmi un indizio, suggerirmi il fatto che devono essere passate ore da quando mi sono trascinato al letto, in pieno giorno. Non ho la forza di alzare la testa per lanciare un’occhiata alla sveglia sul comodino.

 

Fisso un segno sul muro, una crepa forse. Riesco a malapena a vederla nell’oscurità della stanza. La forma mi è familiare, mi sembra di averla vista già migliaia di volte. Una cicatrice. Cos’era stato? Un mutaforma? Mi aveva attaccato, ma non aveva nemmeno fatto in tempo ad avvicinarsi troppo. Ti eri buttato fra me e lui, e il coltello che doveva uccidermi, aveva invece lacerato la giacca di pelle e ferito il tuo braccio. Ti eri lamentato per giorni per lo strappo nella manica della giacca. Ma quando di ritorno al motel, ti avevo ricucito il taglio sul braccio, avevi stretto i denti e non avevi detto una parola. E la vista di quella cicatrice – e delle centinaia di altre ferite che ti procuravi per proteggermi -, che con gli anni sbiadiva ma non scompariva mai, non faceva altro che farmi pensare che un giorno saresti morto nel salvarmi.

 

La stanza è silenziosa. Mi chiedo da quanto tempo non abbia sentito un silenzio simile. C’è sempre stato qualche rumore. La radio con la musica a tutto volume in macchina, la televisione che trasmetteva vecchi film nelle stanze dei motel. Anche quando papà ci lasciava per andare a caccia, quando non potevo avere più di 15 anni, e dopo l’ennesima lite furibonda mi buttavo sul letto sperando di addormentarmi in fretta, anche allora non c’era silenzio. Nel migliore dei casi, solo i leggeri tintinnii e scatti mentre pulivi le armi. Altrimenti, le parole con cui cercavi di blandirmi e calmarmi, parole a cui non rispondevo. Cercavo di respirare regolarmente, farti credere che stessi dormendo, sperando che i singhiozzi bloccati in gola non mi tradissero. Alla fine, non dicevi più niente. Spegnevi la luce e ti mettevi sotto le coperte. E l’ultimo suono che sentivo nella giornata era la tua voce.

 

“‘notte, Sammy.”

 

Inalo bruscamente. Il dolore che mi stringe il petto non accenna a diminuire. Quanto tempo deve passare ancora? Quando riuscirò a pensare al passato senza sentirmi soffocare, senza sentirmi come se stessi annegando? Sapevo che sarebbe successo. Era il tuo lavoro, dicevi, proteggermi era il tuo compito. Ero arrivato a odiarti. A pensare che per te ero solo un peso. Che stupido. Ma quando vedi il tuo fratellone uscire la sera, sicuro di sé come è sempre stato, pregustando una serata all’ennesimo bar, con l’ennesima ragazza, desideroso solo di poter uscire dalle quattro mura dell’ennesima anonima stanza d’hotel, non puoi che provare una fitta d’invidia.

 

Ora so perché lo facevi. Dopo anni ho capito che quelle uscite serali erano per te la cosa più vicina alla normalità a cui potessi ambire. Potevi essere un ragazzo qualunque, senza un carico di reponsabilità che la maggior parte della gente non si trova ad affrontare nemmeno in una vita intera. Non dovevi essere un piccolo soldato per papà, non dovervi preoccuparti di una fratello minore che si lamentava di ogni cosa, non dovevi pensare che quel giorno avevi cacciato e ucciso. No, in quei bar eri solo un ragazzo che si divertiva a biliardo e flirtava con le ragazze. Era la stessa voglia di normalità che anni dopo mi ha spinto a scappare, ad allontanarmi, ad andare a Stanford e a non voltarmi indietro. Lo stesso stupido orgoglio che mi spingeva a far finta di non vedere, in certi giorni, quando uscivo da lezione e attraversavo il campus per tornare nella mia stanza, una macchina nera, familiare, di cui conoscevo ogni angolo per averci passato troppi giorni e troppe notti, risalire lungo il vialetto, svoltare sulla strada principale e andarsene. Sapevo che venivi a controllarmi, ad assicurarti che stessi bene e il sapere di averti ancora attorno, in qualche modo, era più confortante di quanto volessi ammettere. C’eri sempre tu a guardarmi le spalle.

 

Ed ora sono solo.

 

Continuo a fissare la crepa sul muro. Sento gli occhi bruciarmi, ma è come se non riuscissi nemmeno a sbattere le palpebre, non riesco a distogliere lo sguardo nemmeno per una frazione di secondo. Ho paura che se dovessi staccare gli occhi dal quel segno sul muro, potrebbe succedere qualcosa di terribile, di irreparabile. Ma è già successo. E io non posso fare altro che aspettare di tornare a respirare.

  
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