Freddo. Non mi ero mai accorto
che un letto potesse essere così freddo.
Mi giro su un fianco. Il cuscino sotto la mia guancia è asciutto, ed è
una sensazione strana ora. Non so che ore sono, non so da quanto tempo sono
qui. La penombra che mi avvolge dovrebbe darmi un indizio, suggerirmi il fatto
che devono essere passate ore da quando mi sono trascinato al letto, in pieno
giorno. Non ho la forza di alzare la testa per lanciare un’occhiata alla
sveglia sul comodino.
Fisso un segno sul muro, una crepa forse. Riesco a
malapena a vederla nell’oscurità della stanza. La forma mi è familiare, mi
sembra di averla vista già migliaia di volte. Una cicatrice. Cos’era stato? Un
mutaforma? Mi aveva attaccato, ma non aveva nemmeno fatto in tempo ad
avvicinarsi troppo. Ti eri buttato fra me e lui, e il coltello che doveva
uccidermi, aveva invece lacerato la giacca di pelle e ferito il tuo braccio. Ti
eri lamentato per giorni per lo strappo nella manica della giacca. Ma quando di
ritorno al motel, ti avevo ricucito il taglio sul braccio, avevi stretto i
denti e non avevi detto una parola. E la vista di quella cicatrice – e delle
centinaia di altre ferite che ti procuravi per proteggermi -, che con gli anni
sbiadiva ma non scompariva mai, non faceva altro che farmi pensare che un
giorno saresti morto nel salvarmi.
La stanza è silenziosa. Mi chiedo da quanto tempo non
abbia sentito un silenzio simile. C’è sempre stato qualche rumore. La radio con
la musica a tutto volume in macchina, la televisione che trasmetteva vecchi film
nelle stanze dei motel. Anche quando papà ci lasciava per andare a caccia, quando
non potevo avere più di 15 anni, e dopo l’ennesima lite furibonda mi buttavo
sul letto sperando di addormentarmi in fretta, anche allora non c’era silenzio.
Nel migliore dei casi, solo i leggeri tintinnii e scatti mentre pulivi le armi.
Altrimenti, le parole con cui cercavi di blandirmi e calmarmi, parole a cui non
rispondevo. Cercavo di respirare regolarmente, farti credere che stessi
dormendo, sperando che i singhiozzi bloccati in gola non mi tradissero. Alla
fine, non dicevi più niente. Spegnevi la luce e ti mettevi sotto le coperte. E
l’ultimo suono che sentivo nella giornata era la tua voce.
“‘notte, Sammy.”
Inalo bruscamente. Il dolore che mi stringe il petto non accenna
a diminuire. Quanto tempo deve passare ancora? Quando riuscirò a pensare al
passato senza sentirmi soffocare, senza sentirmi come se stessi annegando?
Sapevo che sarebbe successo. Era il tuo lavoro, dicevi, proteggermi era il tuo
compito. Ero arrivato a odiarti. A pensare che per te ero solo un peso. Che
stupido. Ma quando vedi il tuo fratellone uscire la sera, sicuro di sé come è
sempre stato, pregustando una serata all’ennesimo bar, con l’ennesima ragazza,
desideroso solo di poter uscire dalle quattro mura dell’ennesima anonima stanza
d’hotel, non puoi che provare una fitta d’invidia.
Ora so perché lo facevi. Dopo anni ho capito che quelle
uscite serali erano per te la cosa più vicina alla normalità a cui potessi
ambire. Potevi essere un ragazzo qualunque, senza un carico di reponsabilità
che la maggior parte della gente non si trova ad affrontare nemmeno in una vita
intera. Non dovevi essere un piccolo soldato per papà, non dovervi preoccuparti
di una fratello minore che si lamentava di ogni cosa, non dovevi pensare che
quel giorno avevi cacciato e ucciso. No, in quei bar eri solo un ragazzo che si
divertiva a biliardo e flirtava con le ragazze. Era la stessa voglia di
normalità che anni dopo mi ha spinto a scappare, ad allontanarmi, ad andare a
Stanford e a non voltarmi indietro. Lo stesso stupido orgoglio che mi spingeva
a far finta di non vedere, in certi giorni, quando uscivo da lezione e
attraversavo il campus per tornare nella mia stanza, una macchina nera,
familiare, di cui conoscevo ogni angolo per averci passato troppi giorni e
troppe notti, risalire lungo il vialetto, svoltare sulla strada principale e andarsene.
Sapevo che venivi a controllarmi, ad assicurarti che stessi bene e il sapere di
averti ancora attorno, in qualche modo, era più confortante di quanto volessi
ammettere. C’eri sempre tu a guardarmi le spalle.
Ed ora sono solo.
Continuo a fissare la crepa sul muro. Sento gli occhi bruciarmi, ma è come se non riuscissi nemmeno a sbattere le palpebre, non riesco a distogliere lo sguardo nemmeno per una frazione di secondo. Ho paura che se dovessi staccare gli occhi dal quel segno sul muro, potrebbe succedere qualcosa di terribile, di irreparabile. Ma è già successo. E io non posso fare altro che aspettare di tornare a respirare.