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Autore: Shichan    30/12/2012    1 recensioni
L’idea del fuoco che lo consumava era sempre stata molte cose: spaventosa, agghiacciante, terribile, dolorosa… ma mai allettante com’era stata, per il tempo di un istante, in quel momento.
[Spoiler episodio 13]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kusanagi Izumo, Kushina Anna, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Disclaimer: i personaggi non sono mia proprietà, ma dei rispettivi autori.
Note: per lo più rimanderò alle note finali, per evitarvi spoiler. Sfrutterò queste per ringraziare Itsmylife_ di avermi sbloccata quando mi ero persa nonostante la trama non sia così intricata (merito del suo video che trovate qui, nel pieno dei suoi spoiler di fine serie), Zexion per l’infinita pazienza con me che ho dubbi che mi sfanculano mezza fan fiction alla fine della stessa, e a K Project per averci devastati in massa.
Per chiarezza, alcuni personaggi dell’Homra nominati più avanti sono apparsi sì nell’anime, ma sono più propri del manga; giusto per dire che non sono campati per aria *ride*

 

 

Una notte d’inverno ha fatto un sogno.
Era uno di quelli confusi, di cui al risveglio non ricordi granché: era in città, a piedi per una strada deserta, in piena notte. Nessuna insegna luminosa, nessuna macchina, nessuno a camminare anche solo di passaggio, di ritorno a casa.
Di quel sogno gli erano rimaste addosso l’angoscia che solo la paura può suscitare, l’insopportabile calore del fuoco che nonostante l’assenza delle fiamme sembrava consumarlo dentro, la neve che scendeva dal cielo senza stelle, e una voce di cui non ricordava le parole.
Si era svegliato, il sudore freddo ad appiccicare gli abiti alla pelle, le lacrime a rigargli il viso.


Non aveva più fatto lo stesso sogno, liberandosene come si fa di tutto ciò che appartiene al mondo onirico, e che si incontra solo di notte.
Com’era naturale, se ne era dimenticato; lasciate indietro le immagini sconnesse che avevano animato il suo sonno, non se ne era più preoccupato. La neve si era sciolta, la notte era divenuta giorno. Nessun grido o voce simile a quella udita lo avevano mai colto di sorpresa.
Ma il calore del fuoco era rimasto.
Non sempre, però. A volte era un tepore leggero, altre volte gli sembrava di bruciare tanto da essere certamente vicino al limite che il corpo umano poteva sopportare, prima di iniziare a provare dolore; era sopportabile. Sempre un istante prima del limite, si spegneva così com’era arrivato.
Ma c’erano state volte in cui si era fatto insostenibile, tanto che aveva temuto di vedersi circondato dalle fiamme – quelle vere, non solo quelle che sentiva sulla pelle, che gli avrebbero bruciato persino le ossa, ne era certo – e aveva urlato, persino, anche se solo due volte.
La prima era stata nella speranza che qualcuno, chiunque fosse, lo aiutasse: che spegnesse fiamme che non si vedevano, e mettesse fine a quel qualcosa che non aveva logica e che lo avrebbe fatto impazzire prima o poi.
La seconda e ultima volta, era stata quando aveva capito che nessuno sarebbe mai arrivato.
C’era solo da aspettare che di lui non rimanesse altro che cenere.

Aveva imparato a lasciare che tutto gli scivolasse addosso, nel momento in cui gli era sembrato – una semplice ipotesi, la sua – che quando non si arrabbiava, quel calore rimanesse quasi sopito dentro di lui.
Sebbene non ne avesse la certezza, lentamente il suo stato d’animo aveva iniziato a combaciare con quanto quelle fiamme invisibili fossero sopportabili.
Cercava di scaricare la rabbia prima che questa arrivasse ad un punto tale da alimentare quel calore; ad esso si sostituivano il dolore dei pugni e dei calci, il sapore del sangue in bocca ad un colpo ben assestato, la spossatezza di quando si lasciava scivolare contro il muro dopo una rissa.
La sensazione alla quale però si aggrappava più che a qualsiasi altra, era il vuoto che lo investiva totalmente quando non c’era più nessuno con cui menare le mani, né un vero motivo per farlo.
Quando arrivava inspirava a pieni polmoni, quasi questa si trovasse nell’aria che respirava; rimaneva immobile, ad aspettare che – come una droga – il suo effetto abbandonasse totalmente il suo corpo. Solo allora, si alzava e tornava nella folla dei quartieri con i negozi, mani nelle tasche, e camminava.
Se era troppo presto, avanzava senza meta, senza curarsi delle voci che gli passavano affianco, delle risate dei coetanei senza pensieri, o dei passi frettolosi degli adulti che non volevano perdere il treno.
Se era un orario accettabile, passava per i vicoli seguendo scorciatoie imparate a memoria, fino a ritrovarsi di nuovo a casa: cercava di riempirsi la testa di silenzio, e calma, e davanti alla porta sospirava piano nella speranza di lasciar uscire tutto e tornare vuoto.
Poi, entrava.
C’erano volte in cui aveva la fortuna di trovare sua madre addormentata, e sola in casa.
Se aveva fame preparava qualcosa con quel che c’era in frigo, oppure con la scusa di dover mangiare tornava per strada alla ricerca di un supermercato aperto ventiquattro ore su ventiquattro, o di un fast food.
Se invece si ritrovava con lo stomaco chiuso, sedeva vicino alla finestra, e guardava fuori finché sua madre non si svegliava, spesso lamentandosi nel sonno, finché lei non lo metteva lentamente a fuoco; finché non gli sorrideva in quel modo stanco e poco lucido, ma che era dolce.
Che era pur sempre lo sguardo di chi lo aveva messo al mondo.
«Sei tornato.» pronunciava piano, sempre, perché sempre si aspettava forse che un giorno in quell’appartamento non lo avrebbe trovato più.
«Sono tornato.» le diceva, e si lasciava abbracciare, mentre pensava “devo andarmene da qui”.

Aveva aperto gli occhi, stupito di riuscire ancora a farlo.
Come quella notte di quasi un anno prima, in cui aveva sognato di quella città silenziosa e delle fiamme che lo avvolgevano, era stato certo che sarebbe morto.
Aveva ripetuto quella routine – andare in giro, fare a botte, riempirsi di quanto più silenzio possibile – per poi tornare a casa, ancora una volta da sua madre, ancora una volta per sentirsi dire “sei tornato”, e rispondere, e mettersi a guardare fuori dalla finestra la prima neve che cadeva.
Ma la rabbia era risalita prima che potesse capirlo, che potesse fermarsi e come tante altre volte prima aveva sentito il bisogno di lasciar andare il calore, le fiamme che nessuno vedeva e che si sentiva dentro, e distruggere in qualche modo. Di lasciar uscire tutto, e poter finalmente respirare a pieni polmoni – aveva avuto bisogno di liberare la mente senza la paura che quel fuoco lo bruciasse vivo.
E poi, all’improvviso, non c’erano state la paura e l’angoscia, o la rabbia, o il dispiacere, o la tristezza – c’era stato quel vuoto che aveva anelato ogni istante per allontanarsi da qualcosa che lo rendeva diverso e che non sapeva gestire, che non sapeva cosa fosse, da cui aveva provato a scappare ma che era, dopotutto, l’unica cosa rimasta al suo fianco.
Potrei bruciare – l’aveva colto alla sprovvista quel pensiero – potrei bruciare, e rimarrebbe solo cenere, e il resto sparirebbe.
L’idea del fuoco che lo consumava era sempre stata molte cose: spaventosa, agghiacciante, terribile, dolorosa… ma mai allettante com’era stata, per il tempo di un istante, in quel momento.
Quel singolo attimo che aveva annullato un anno di strenua resistenza contro se stesso.
Lasciare che quel fuoco, a cui non aveva mai saputo dare né nome né spiegazione, si scatenasse inghiottendo tutto – le urla di sua madre, le urla di quell’uomo, la sua casa, il proprio campo visivo e lui stesso – era stata una liberazione.
Finalmente.
Sarebbe sparito tutto: l’angoscia, il dolore, la rabbia e anche il vuoto, quello che aveva provato come ultima sensazione prima di perdere i sensi, quello che aveva ricercato sempre, quello che non valeva la pena e che feriva più di tutto il resto.
Finalmente.
Allargando le braccia, come ad accogliere qualcosa di invisibile, aveva socchiuso gli occhi, e sorriso.
Risvegliandosi in un vicolo senza nemmeno sapere come poteva esserci arrivato, aveva preso un respiro profondo senza quasi osare lasciar fuoriuscire l’aria; stupendosi del petto che ancora di alzava e abbassava, degli abiti intatti, del corpo dolorante ma indiscutibilmente vivo, aveva spostato lo sguardo di lato, intravedendo le persone passare nella strada principale.
Era vivo. Solo, ma vivo.

«C’è qualcuno che vuole ancora vedere quelle fiamme.»

Dopo un fuoco che ti brucia dentro, una voce nella testa non gli era sembrata nemmeno così anormale.
«Chi mai… vorrebbe vedere una cosa così?» aveva sussurrato al nulla, prima di addormentarsi di nuovo.
Sopra di lui, la Spada di Damocle era lentamente scomparsa.


Izumo chiude la chiamata, un sospiro che lascia sfuggire dalle sue labbra una boccata di fumo.
Lo sguardo abbraccia il bar. È passato appena un anno da quando Tatara prima, e Mikoto poi, sono morti.
Il pensiero ancora lo fa rabbrividire: non importa quante volte abbia provato a dirlo in un altro modo – “si sono spenti”, “sono venuti a mancare” –, alla fine quel che c’è di vero è la mancanza di loro che sente, e il vuoto che la loro assenza ha lasciato.
Dei tre, dopotutto, non contava quanto lui avesse sempre pensato agli altri membri dell’Homra come a degli eterni “bambini” da proteggere, rispetto a quanto quel pensiero fosse forte in Totsuka e Mikoto: che bambini lo fossero davvero o meno, la morte del loro Re aveva segnato il momento in cui erano dovuti crescere. In un modo brusco e crudele, forse, come solo la morte di una persona importante ti cambia.
Il bar è vuoto in quel momento, ma non sempre: sono stati legati da troppe cose per smettere, improvvisamente, di sentirsi gli uni parte degli altri.  
Sposta lo sguardo sullo schermo del cellulare, e digita un paio di volte prima di trovare il numero che gli interessa davvero, per poi portare il telefono all’orecchio. Lascia squillare.
Un anno fa, la stessa persona che sta chiamando ha finito con l’urlargli in faccia di non volerne sapere di quella storia, che non lo riguardava; il suo Re era stato Mikoto e sempre lo sarebbe stato e niente, niente avrebbe cambiato tutto quello. Mai.
Nulla gli assicura che le cose siano cambiate, sebbene l’altro sia cresciuto, e abbia avuto tempo, e sia comunque passato più volte a trovarlo – ma non hanno mai parlato di Re o di ciò che l’Homra è stato.
Sa solo che c’è qualcosa, là fuori, qualcuno che devono incontrare.
«Kusanagi-san?»
«Yata-chan, ti sto inviando una mappa. Vediamoci al punto che c’è indicato.»
Non aspetta la risposta, e chiude la chiamata.
Ci sono troppe cose che deve ancora prendere – il coraggio, la forza, il dolore e la speranza forse –, per poterle portare con sé, e ci vorrà tempo.

Quando arriva al punto di incontro, ci sono le persone che l’Homra l’hanno visto nascere: Kamamoto, Shohei, Chitose, Saburota, Masaomi, Kosuke, Eric e Yata.
Izumo tiene per mano Anna, che sorride in maniera discreta e dolce, così diversa dall’aria seccata che anima il viso di Yata; evidentemente sente puzza di qualcosa che non gli piacerà.
«Kusanagi-san, perché ci hai fatti venire tutti qui?» domanda a bruciapelo, e Izumo sospira piano, e sposta lo sguardo su Anna che annuisce appena in sua direzione. Fa scivolare la mano dalla sua, e si scosta di qualche passo mentre Izumo indica sopra di loro.
Diverse paia di occhi si alzano, e scrutano il cielo; non c’è nulla di davvero evidente da guardare, eppure tutti sembrano notare ciò che solo i loro occhi sono stati abituati a cercare e osservare per tanto tempo.
Di niente più che le dimensioni di quella che potrebbe sembrare una lucciola, un frammento di aura rossa sta cadendo insieme alla neve, e probabilmente sparirà nel toccare il suolo.
Prima che lo faccia, Anna allunga una mano, e lo accoglie insieme ad un fiocco bianco che si scioglie al contatto con il palmo tiepido di lei; la piccola luce resiste un poco di più, quanto le basta per essere osservata, e perché Anna sorrida, e sussurri piano solo un nome.
«Mikoto.»
Quel nome che ha il potere di farli trasalire, sperare, star male. Infuriare.
«Kusanagi-san, ti ho già detto—!»
«Ma c’è.» lo interrompe duramente Izumo, spostando lo sguardo fermo su di lui – su Yata che lo accetta meno di tutti perché la figura di Mikoto è stata il suo riferimento, sempre, costantemente – «Che tu lo accetti o meno, è un anno intero che abbiamo traccia di lui. E non è colpa sua, se Mikoto è morto.» lo dice in modo crudele, lo sa, e qualcosa gli si spezza dentro mentre lo pronuncia.
Ma né Yata, né lui, né nessun altro può rimanere per tutta la vita all’ombra del ricordo di qualcuno, per quanto rassicurante e famigliare sia la sensazione che quel ricordo gli dà.
«Anche se rimani fedele al tuo Re, questo non renderà meno legittima l’apparizione della Spada di Damocle.» conclude.
Quelle parole raggiungono tutti, scuotono l’anima in un modo o nell’altro, ma non c’è tempo di dire nulla; Anna si sposta, volta un angolo, e Izumo la segue, e con lui gli altri.
Quello che il vicolo rivela loro è la piccola dell’Homra che si avvicina a qualcuno disteso a terra: a guardarlo avrà sì e no quindici, sedici anni, uno sbarbatello. Se ne sta privo di sensi, ma sorride, un incurvarsi di labbra leggerissimo ma visibile.
Non somiglia affatto a Mikoto, in niente – i capelli sono scuri, gli occhi non possono indovinarlo ma una volta aperti non riveleranno quel colore dorato tanto particolare – se non in quell’aura che ora sembra riposare insieme a lui, lì in mezzo alla neve.
«Anna?» chiama piano Izumo, osservando ora lei, ora lui; la piccola si volta, lo guarda, annuisce. Sorride.
«È bello.» dice soltanto, e potrebbe significare tante cose, ma Kusanagi lo riconosce quel tono, quel modo di dire quell’unica parola che la ragazzina ha rivolto sempre ad una cosa sola – il colore che Mikoto le mostrava, sapendo quanto le piacesse.
Quello, per Izumo, vale più di qualsiasi prova.
Un lamento attira la loro attenzione, e il corpo a terra si muove appena, socchiude gli occhi, mugugna come se fosse indolenzito; la prima cosa che rientra nel suo campo visivo è Anna, e tanto basta ad agitarlo tanto da alzarsi a sedere repentinamente – cosa che, a giudicare dall’espressione che fa, il suo corpo non ha apprezzato – e allontanarsi da lei.
«Che vuoi, chi sei?!» sbotta, e dal modo in cui guarda prima lei, poi le proprie mani e poi di nuovo lei, Izumo in qualche modo sente di capire.
Non si sta allontanando da lei. La sta allontanando da sé.
Sorride in un modo difficile da descrivere, quando vede Anna prendergli una mano fra le sue.
«Bentornato.» gli dice.
Non sa perché, ma gli sembra di vedere l’aura rossa di quel ragazzino tremare appena, scosso da quell’unica parola.
«Sono…» indugia.

«Non proprio, ragazzino.»

Non dice nulla.
Né “sono tornato”, né “piacere di conoscervi”.
Sa solo che le mani di quella ragazzina non bruceranno a causa sua.
Ed è tutto quello di cui ha bisogno, mentre l’uomo con lei gli tende la mano.

 

 

 

Note finali
Ossia tutte quelle cose che sarebbe bello, se io fossi riuscita a farle capire nella oneshot, ma *ammicc (?)*
L’idea generale è nata dal fatto che, alla morte del Colorless King che Kuro serviva, è automaticamente uscito fuori un successore (lo psicotico, per intenderci).
Conseguentemente ho pensato che fosse plausibile che questo accadesse alla morte di ogni Re, sebbene Shiro/Weissman non me la racconti giusta, ma essendoci ancora il Re Blu e quello d’Oro, suppongo sarebbe poco equilibrato il potere se rimanessero pochi Re. Diciamo che per le info che ho ad oggi, era plausibile.
Quanto narrato al passato, sono una sommaria storia del “nuovo” Re Rosso: il risveglio del suo potere (alla morte di Mikoto che lui vede come “sogno”), il suo cercare di trattenerli, la manifestazione del pieno potere con la Spada di Damocle. Ho scelto di non renderlo un personaggio “completo” dandogli nome, cognome, o parlando della sua storia nel particolare: volevo che non si capisse fino all’ultimo di chi si parlava.
Il presente è logicamente l’Homra dopo la morte di Mikoto, quindi post-serie. È stato difficile giostrare il fatto che non penso personaggi come Yata accetteranno mai qualcuno come Re all’infuori di Mikoto, ma spero di non essere sprofondata nell’OOC completo.
Gli unici due corsivi in chiave di discorso, sono parole di Mikoto, tecnicamente al nuovo Re: voglio pensare che l’essenza dei Re precedenti non sparisca del tutto, come una sorta di testamento ai loro successori.
Il “riconoscimento” da parte di Anna, si basa anche su una frase (che, ho letto in varie fonti del web, è stata tagliata dopo l’ending) in cui dice che “il rosso di Mikoto è ancora caldo”. Mi ha fatto immediatamente pensare ad un successore, quindi eccoci qui.

Se siete arrivati non solo a fine fanfic, ma anche a fine papiello, siete belle persone.
Se ci avete anche capito qualcosa, potrei piangere ;_; *evapora*

   
 
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