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Autore: _Ella_    31/12/2012    3 recensioni
Roxas dormiva ancora profondamente, fermo nella posizione in cui lo aveva visto addormentarsi, e posando sul guanciale un biglietto con su qualche saluto ed un paio di scuse, Axel si chinò a baciargli leggermente le labbra – era questo il regalo che desideravi tanto, Axel?
Quando Roxas si svegliò, la finestra aperta che lasciava entrare l’aria fresca che carezzava i lembi delle tende, afferrò il biglietto sul quale si trovò premere la faccia, con un mezzo sorriso. Axel si era preso le sue sigarette, e buona parte dei soldi racimolati coi regali di Natale. Non aveva idea che si fosse rubato anche un bacio.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Axel, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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Le stelle brillano di luce propria,
ma la pioggia le rende più limpide.



 

Aspirò con intensità dal filtro, osservando il fumo scivolare scomposto verso l’alto, annegando nella nube grigia che riempiva la stanza.
Ad Axel bruciavano gli occhi, e non aveva idea se fosse per tutte quelle polveri sottili in giro per quelle quattro mura sudice, per tutto l’alcol o la droga che si era sparato nell’arco di due ore e mezza.
Passò la sigaretta a Roxas, la spalla sinistra contro la sua destra, che si lamentò leggermente del fatto che avevano detto un tiro a testa, e lui ne aveva fatti due.
Axel non pretendeva molto dalla vita. Non aveva mai preteso di avere una casa che non fosse un macello, coi pacchetti di patatine e di sigarette e di preservativi vuoti sul pavimento, assieme alle bottiglie di birra rovesciate, i contenitori con le pillole antidepressive. Non aveva mai preteso niente, se non Roxas.
«Credo di amarti» disse, la nuca contro il sedile del divano, il sedere intorpidito per la durezza e la freddezza del pavimento – si riprese la cicca, sfiorandogli le dita ed indugiando nel contatto, prima di ingoiare nicotina e catrame ed altro veleno.
Ma Roxas rise. Prese la sigaretta strappandogliela dalle labbra e rise, forte, aspirando d’un fiato quel che rimaneva, prima di spegnere il mozzicone sul pavimento, tra i loro corpi. Rideva ancora, e con gli occhi rossi e pigri Axel l’osservò alzarsi, afferrare il cappotto e la sciarpa ed indossarli, dirigendosi verso la porta dopo aver schivato una pila di dischi in vinile che avevano distrutto una settimana prima, giocandoci a frisbee. Aveva dovuto digiunare un mese e stare al buio ed al freddo e non fumare e non bere e non vivere per poterseli permettere, ma al momento non gli fregava neppure.
«Come amavi la tua auto, Axel? Quella a cui hai dato fuoco?» Roxas aprì la porta, lo fissò – non aveva mai capito se fosse triste o felice o serio o derisorio o malizioso o ingenuo. Axel non aveva mai capito niente e basta. «Preferisco di no».
La porta si chiuse con un leggero tonfo. Riportò gli occhi al fumo grigio che ballava contro il soffitto ingiallito, fissò il lampadario impolverato e la lampadina fulminata che avrebbe dovuto cambiare, perché lanciava raggi di luce a scatti, ed afferrò una bottiglia mezza piena di qualcosa di alcolico e dolciastro, bevendo a canna, prima di ingoiare e buttare il mozzicone spento dentro la canna della bottiglia.
«Vaffanculo, Roxas. Fottiti».
Avrebbe dato volentieri fuoco anche a lui adesso, se solo avesse accettato di essere completamente suo. 
 
-
 
Il giorno in cui aveva conosciuto Roxas, era davvero una giornata di merda. L’incontro con lui l’aveva resa più accettabile, probabilmente – ma forse aveva peggiorato tutta la sua vita.
Faceva parecchio freddo, e stringendosi nel suo giubbino in pelle ormai consumato Axel stava seriamente gelando, tanto da non sentire più il naso e le dita dei piedi negli anfibi scuri. Guardò dal basso del marciapiede su cui era seduto le finestre illuminate delle case, gli appartamenti dei palazzi alti non più di un paio di piani – aspiri annoiato dalla sigaretta, e ti chiedi se è mai successo di passare un Natale peggiore. Il freddo ormai gli era entrato nelle ossa, e scrollando le spalle come a voler strapparsi di dosso il gelo come un cane umido e sporco fa col fango e l’acqua, spense il mozzicone sul bordo d’asfalto ghiacciato, mandando uno sguardo al cielo. Non c’erano stelle quella notte, in compenso le mille luci del quartiere riuscivano a rendere in qualche modo più allegra quella nottata passata al gelo, accompagnato dai canti e dalle risate di cui sentiva solo un vago mormorio, qualcosa di indistinto – non ne fai parte, Axel, non ne farai mai parte.
«Bella merda» sbottò, grattandosi il naso – perché solo un cretino come lui può decidere di comprare fumo ed andare a puttane coi pochi soldi che guadagna invece che pagare l’affitto, già arretrato di qualche mese. Il fatto è che non pensava lo sfrattassero il giorno di Natale ma, insomma, che lo passi su un marciapiedi al freddo o sul divano a bucarsi con le siringhe non fa granché differenza.
Però quella era l’ultima sigaretta.
Sbadigliò, alzandosi per non addormentarsi lì e rischiare di morire assiderato sotto la neve, visto che sicuramente sarebbe cominciato a fioccare – la schiena fece qualche scrocchio di troppo, coperto dal cigolare degli stivali, ma l’unica cosa cui ora pensava era che aveva sete e fame, e una voglia matta di fumare ancora, non più alla temperatura schifosamente bassa, né tantomeno al mal di schiena. Sua madre avrebbe dovuto dirgli che non studiando e non rispettando le regole e a seguire solo l’istinto sarebbe finito col camminare per quartieri sconosciuti la notte del ventiquattro dicembre, ma conoscendosi Axel poteva benissimo riconoscere che se l’avesse fatto le avrebbe semplicemente chiuso in faccia la porta della propria camera e rintanarsi a disegnare e ad ascoltare la musica dal suo mangianastri mezzo distrutto.
Ad un certo punto si bloccò, quando le risate e le canzoni e la musica superarono il rumore assordante dei suoi pensieri, ed alzando lo sguardo dalla strada umida mandò uno sguardo al cielo buio, con un mezzo sorriso – buon Natale, Axel.
Non aveva mai creduto di poter passare un giorno così in quel modo, e sinceramente non capiva perché se la stesse prendendo tanto – lui in Dio non credeva, quella maledetta notte sarebbe dovuta essere come tutte le altre che aveva passato a rimpiangere il nulla che aveva sempre avuto.
Ma soprattutto – e questo perché nonostante tutto non augurava mai il male agli altri – non aveva mai creduto che qualcuno avesse potuto passare quella notte peggio di quanto non stava facendo lui.
«Vaffanculo!».
Quando Roxas spalancò la porta di casa ed urlò a pieni polmoni prima di sbattersela dietro le spalle, Axel si sentì male. Perché era Natale, e lui era attualmente un quasi-barbone con lo stomaco vuoto, la gola secca e i polmoni liberi dal fumo, ma almeno non piangeva. Non stava piangendo in piedi al centro del vialetto tra la porta di casa e il marciapiedi, illuminato da tutte le decorazioni luminose d’oro e d’argento e rosso e blu e mille altri colori, come se lo stessero prendendo in giro – guardaci, ragazzino, noi brilliamo e tu sei buio dentro – e come a metà tra un baratro ed un punto di non ritorno.
Quando Axel lo vide, senza sapere neanche chi fosse, quando notò che tremava per i singhiozzi e che probabilmente anche se era mezzo nudo il freddo non lo sentiva neppure, sbuffò: perché lui aveva fame e freddo e sete e voglia di fumare, ma non era distrutto. Perché probabilmente quel ragazzino aveva la pancia piena e la bocca ancora bagnata di champagne, ma stava male lo stesso.
Guardò l’aria condensarsi fuori dalla propria bocca, salire verso l’alto, e strinse i pugni nelle tasche, sospirando piano. «Serata del cazzo, mh?» accennò, tenendo gli occhi puntati su di lui – non voleva essere invadente, non lo era mai stato senza motivo, e quel ragazzino aveva distrutto la sua bolla di rassegnazione, lanciandogli addosso un’angoscia che non riusciva a comprendere.
«’Fanculo anche a te» singhiozzò, togliendo le mani via dal viso, e puntandogli gli occhi inondati di lacrime addosso – non erano gli occhi di chi piangeva e voleva consolazione, erano gli occhi di chi piangeva perché altrimenti sarebbe esploso di rabbia e frustrazione. «Si può sapere perché cazzo cammini in giro la notte di Natale?» gli domandò, premendo i polsini della felpa rovinata contro gli occhi – era vestito come uno che si è preparato per passare una serata tranquilla in casa, coi vestiti comodi e anonimi, convinto che nessuno riuscirà a distruggere la sua privacy, ed invece era comparso lui, di fronte la porta di casa sua.
«Mi hanno sfrattato stamattina, occhi belli, non ho pagato l’affitto».
Il ragazzo rise, alzando gli occhi al cielo – le luci si riflettevano sulla scia umida delle lacrime, e gli occhi brillavano di tutte quelle piccole luci, come se avessero catturato ogni raggio luminoso. “Occhi belli” era davvero un ottimo soprannome, pensò.
«Gente di merda, oh».
«Che vuoi farci, non ho pagato… la gente di merda sembra la conosca anche tu, comunque».
Tirò su col naso, e finalmente lo guardò, per niente imbarazzato o anche solo intimidito dal fatto che un perfetto sconosciuto lo avesse visto piangere. «È un po’ ovunque, no?» accennò con un filo di voce, poi sospirò, socchiudendo gli occhi. «Roxas» disse. «Mi chiamo Roxas».
«Sono Axel» gli sorrise appena, rimanendo fermo a qualche metro da lui, ricambiando il suo sguardo – “Occhi belli” ha anche un bel nome. «E com’è che piangevi? Il regalo di Babbo Natale non era quello che avevi scritto nella letterina?» rise appena, per sdrammatizzare, e quando lo vide ricambiare la risata si sentì un po’ più leggero – adesso brillano anche loro due, anche loro con le luci della città.
«I miei la stanno passando a litigare, come tutti i cazzo di giorni dell’anno…» si strinse nelle spalle, mordendosi le labbra un po’ screpolate. «Dicono che stanno assieme per me, preferirei stessero ognuno per i fatti propri e non mi rendessero la vita un inferno, la verità è che non hanno il coraggio di cambiare» disse, ed ancora una volta non c’era una tacita richiesta di consolazione nel suo sguardo – pensò che fosse meglio così, perché altrimenti non avrebbe saputo cosa dirgli, visto che suo padre aveva accoltellato sua madre, quando aveva dieci anni.
«E adesso? Passerai la nottata qui fuori? Guarda che si mette a nevicare, occhi belli».
«Se puoi farlo tu non vedo perché non dovrei io» sorrise, e mosse alcuni passi nella sua direzione, avvicinandosi fino ad un braccio di distanza – era piccolino, aveva le guance rosse e gli occhi gonfi e un po’ scavati per il pianto, ma era bello, più delle luci di quella notte che sarebbe dovuta essere magica.
Axel rise piano, avvicinandosi di un altro passo. «Solo che io non ho questo faccino, ed ho anche la pellaccia dura, non mi basta una nevicata per atterrarmi, sai?».
«Ehi, se avessi dovuto giudicarti dalle apparenze avrei dovuto darti del teppista maniaco, non l’ho fatto».
«Male» accennò, continuando a sorridergli. «Avresti dovuto, begli occhi».
«Sbagli» ribatté, avvicinandosi («Ah, sì?» chiese, ironico). «Era “occhi belli”, Axel» e rise, forte, e anche se stava piangendo un attimo prima la risata era ancora più bella di quelle che aveva ascoltato per tutta la serata.
«Ogni tanto si sbagliano anche i teppisti maniaci come me» gli sorrise, allargando appena le braccia, le mani ancora ferme al caldo nelle tasche. «Ti deciderai a salire sopra?».
«E lasciarti qui fuori sotto la neve la notte di Natale?» domandò di rimando, tirando su col naso rosso per il freddo. «Sei anche solo».
Axel lo fissò, guardandolo negli occhi – sembravano blu scuro, in realtà non riusciva a vederli neppure, perché umidi com’erano continuavano a riflettere tutte le luci (riusciva a vedere anche il proprio viso, il proprio viso gelido e smunto nello sguardo variopinto). «Se mi fai compagnia oggi, dovrai farlo anche domani».
«Magari ti decidi finalmente a fare le cose per bene» accennò, incrociando le braccia al petto per scaldarsi – ad ogni parola una nuvoletta bianca usciva dalle sue labbra screpolate per il freddo, erano sottili, ma sembravano morbide. «E poi non ho intenzione di stare qui fuori tutta la notte».
«Ehi, adesso sei incoerente» ghignò, rivolgendo per un momento il viso al cielo prima di ritornare a guardarlo. «Non posso mica lasciartelo passare».
«Ed è qui che sbagli, teppista maniaco. La mia camera è al secondo piano, la finestra è quella sul retro, appena giri l’angolo, a destra, quella sopra il cespuglio e la rampicante – non penso ti ci voglia tanto ad arrampicarti, no?».
Lo fissò per un momento, sbigottito, poi scoppiò a ridere. «Dovevi pregare che tua madre ti facesse con un cervello, bimbo, non con un faccino così adorabile».
Roxas lo guardò inespressivo, prima di alzare appena un sopracciglio biondo. «Lascio perdere il complimento da gay represso» accennò. «E comunque se non fossi arrivato tu stasera probabilmente sarei andato in camera a spararmi le pillole antidepressive di mio padre sperando di rimanerci stecchito, quindi te lo devo. Ti aspetto sopra» e detto questo non aggiunse altro, rivolgendogli le spalle ed aprendo la porta d’ingresso, che prima di richiudersi lasciò uscire la scia di urla troppo alte e dolorosamente fuori posto in una notte come quella.
Axel non sapeva davvero se fosse giusto o meno accettare di quell’ospitalità. Aveva già passato notti a dormire all’aperto e rifiutando ogni tipo di elemosina – ma Roxas non l’aveva guardato con quel solito sguardo da “poverino, ha bisogno di aiuto”. Fin da subito lo aveva guardato empatico, perché forse c’era davvero qualcosa di comune che li aveva attirati, che li aveva spinti a parlare e che aveva fatto in modo che si capissero, quella notte. Magari Roxas era solo più pazzo di quanto lui avesse potuto immaginare.
Quando oltrepassò il davanzale della finestra aperta e saltò nella camera, un piacevole caldo lo invase di botto, facendolo rabbrividire. La camera non era chissà quanto grande, neppure chissà quanto bella – era ordinaria, con la sua scrivania ed il suo lettino contro il muro ed il tappetino al centro, che sfiorava la libreria – però c’era un buon odore, ed Axel l’avrebbe trovato il posto migliore del mondo anche se fosse stata larga un metroquadro a stento, solo perché non era il marciapiedi umido lungo la strada.
«Fai il timido?» rise Roxas, poggiato con la schiena contro la porta, le braccia incrociate. «Chiudi quella finestra che fa un cazzo di freddo».
Annuì, e facendo quanto detto si pulì le mani leggermente sporche di sangue, per i graffi che si era fatto a scalare la rampicante ed il muro, lungo i pantaloni ghiacciati. Ghignò, e ripresosi dal leggero torpore iniziale avanzò di più nella stanza, cominciando a curiosare in giro – c’erano parecchi libri in giro, lui nel suo ex-appartamento aveva a stento due riviste, e gli erano servite per livellare il tavolo. «Oh, non dirmelo, occhi belli è un secchione».
Roxas rise, chiudendo la porta a chiave e scivolando sul letto alle sue spalle. «Mi sono ritirato da scuola l’anno scorso – seconda deduzione sbagliata, Sherlock».
«Ma che stronzetto» rise appena, scuotendo la testa. «Quindi hai… diciassette anni?».
«Errore. Diciotto» sospirò. «Mi hanno espulso in prima ed ho perso l’anno – spacciavo canne nei cessi, e qualcuno ha fatto la spia».
Axel non poteva davvero fare a meno di pensare che fosse… esilarante. Perché uno che sembrava avere quindici anni – beh, pensandoci il faccino ed il fisico tanto immaturo non ce l’aveva poi tanto, anche se lo facevano sembrare più giovane – che aveva due occhi grandi come fanali, che piangeva perché i suoi litigavano e che aveva… Dio, era mica Shakespeare quel coso?, a tredici anni spacciava canne nei cessi. «Se i tuoi stanno così fuori è per forza colpa tua, fidati».
Però Roxas rise, ancora più forte, e lo fece sobbalzare – che ne era di quel cosino che parlava piano e piangeva incazzato col mondo? «Le canne le rubavo dalla borsetta di mamma, Axel» («Beh»). «Vuoi farti una doccia? Tanto i miei ne avranno ancora per un po’».
Una doccia. Infilarsi sotto un getto di acqua bollente per anche due minuti sarebbe stato davvero il massimo. Era inutile rifiutarlo, no? Già si era impiantato lì per tutta la notte, dopotutto. «D’accordo» accennò, annuendo.
Incontrare Roxas quella notte era stata quasi una manna dal cielo. Forse qualcuno aveva corrotto Babbo Natale dicendogli quanto fosse buono per fargli avere il suo regalo in tempo per quella sera – devi essergli grato, Axel, nessuno ha mai mentito per te.
Quando si infilò sotto il getto d’acqua bollente, si lasciò sfuggire un sospiro di totale rilassamento. Ok, il fatto che Roxas fosse lì nel cesso con lui non era proprio il massimo dell’intimità, ma dopotutto se i suoi si fossero accorti che c’era qualcuno ad usare il bagno che non fosse stato lui, sarebbe successo un casino, ed era meglio evitare. Ghignò. «Ehi, occhi belli, guarda che se vuoi che ti ripaghi in natura non hai bisogno di inventarti tutte queste scuse» rise.
«Ah, quindi sei una prostituta?» domandò atono, e fissando la parete della doccia Axel se lo immaginò come prima che s’infilasse nella cabina, a sfogliare annoiato il giornale seduto sulla tazza del cesso.
«No, però una volta avevo bisogno di soldi ed ho dato via il culo» sbottò, insaponandosi le spalle che si stavano lentamente rilassando a contatto col calore, le ciocche dei capelli che si incollavano al viso. «Ne è valsa la pena, dai».
«Vale come prostituzione».
«Ma non sono una prostituta».
«Però lo sei stato» continuò a ribattere l’altro, e Axel si limitò a sbuffare una risata, scuotendo il viso – ok, meglio rinunciarci. Iniziò ad insaponare i capelli, massaggiando piano la cute, sorridendo leggermente, ormai tutto il freddo era scivolato via dalle ossa, finendo dritto nello scarico con l’acqua insaponata. «Bel tatuaggio» aggiunse ad un tratto, ed Axel sorrise di più, sinceramente divertito.
Allora glielo stava davvero fissando, il culo.
Se lavarsi con la sua presenza alle spalle non era stato poi così imbarazzante, ritrovarsi nel suo stesso letto, con addosso una tuta che doveva essere di suo padre, lo era eccome. Roxas stava leggendo in silenzio, e lui si limitava a fissare il soffitto, le braccia dietro la nuca, abbastanza rilassato – una sigaretta, ci sarebbe voluta soltanto una sigaretta e sarebbe stato in pace coi sensi, Dio.
«Cos’avresti voluto questo Natale?» chiese sussurrando il biondo alla sua destra, tra il suo corpo e la parete del muro – si girò lentamente su un fianco per fissarlo, ed Axel scivolò a pancia in giù, il viso rivolto verso di lui.
Axel ci pensò, ci pensò seriamente, e chiuse appena gli occhi stanchi. «Penso… solo non trovarmi in mezzo la strada, visto che stamattina mi hanno sfrattato» accennò, riaprendo gli occhi e puntandoli nei suoi – sono azzurri, Axel, li hai fissati tutto il tempo mentre ignoravi volutamente che l’avesse notato, tutto il tempo come facevi col cielo quando per l’ennesima volta non c’era un tetto a bloccarne la visuale (ma il cielo non è mai arrossito, fingendo che non lo stessi guardando). «Tu?».
«Un po’ di pace una volta tanto» si grattò la guancia, prima di coprirsi di più con le coperte, gli occhi chiusi. «Non mi è andata così male, dopotutto» disse pianissimo, quasi le parole rotolarono via dalla sua lingua intorpidita, prima che il respiro pesante si facesse più marcato.
Sorrise appena, rilassandosi di più contro il cuscino. «Buonanotte» sussurrò, e chiudendo gli occhi s’addormentò in un sonno senza sogni.
Non voleva creare problemi, e senza neppure pensarci quella mattina si svegliò che le luci dell’alba filtravano dalla finestra, visto che avevano lasciato stupidamente la tenda aperta. Si era alzato, aveva afferrato il pacchetto di sigarette mezzo pieno trovato sulla scrivania e se l’era infilato nella tasca dei propri pantaloni dopo essersi cambiato. Roxas dormiva ancora profondamente, fermo nella posizione in cui lo aveva visto addormentarsi, e posando sul guanciale un biglietto con su qualche saluto ed un paio di scuse, Axel si chinò a baciargli leggermente le labbra – era questo il regalo che desideravi tanto, Axel?
Quando Roxas si svegliò, la finestra aperta che lasciava entrare l’aria fresca che carezzava i lembi delle tende, afferrò il biglietto sul quale si trovò premere la faccia, con un mezzo sorriso. Axel si era preso le sue sigarette, e buona parte dei soldi racimolati coi regali di Natale. Non aveva idea che si fosse rubato anche un bacio.
 
Aveva rincontrato Roxas per la seconda volta due mesi dopo, a febbraio inoltrato, ed era stato quello il reale momento in cui la sua vita era cambiata – le loro.
Coi soldi che aveva preso dal suo portafogli aveva dato una sorta di anticipo al tipo che gli fittava casa, e continuando a lavorare era riuscito anche a dargli gli arretrati. Adesso probabilmente sarebbe stato tranquillo qualche altro mese, se la polizia non avesse trovato la roba che spacciava e se il direttore di quella merda di pseudo caffetteria non l’avesse licenziato. Ma per il momento, andava tutto bene.
Era stato durante uno dei suoi turni al bar, che l’aveva visto. Era entrato, un’aria abbastanza scazzata ed apatica, seguendo un tipo con un capello ad uno dei tavoli; per un primo momento non aveva idea se ce l’avesse con lui per avergli fregato i soldi dopo che l’aveva accolto in casa e tutta quella storia, ma del resto se non fosse andato lì a prendere gli ordini il suo capo l’avrebbe preso a calci in culo, quindi in ogni caso le avrebbe prese.
Afferrò il taccuino e si diresse verso il tavolo – Roxas si era appena sfilato la sciarpa e l’aveva poggiata sul tavolo, l’altro tipo si era tolto il cappello, rivelando una crocchia bianca spettinata, fatta quasi a caso. «Ehi, occhi belli». Ghignò piacevolmente nel vederlo sobbalzare a quel nomignolo, e quando si girò verso di lui, ignorando il tipo che adesso lo stava fissando, gli sorrise. «Che vi porto?».
«Che faccia di merda» rise il biondo, scuotendo appena il viso. «È la prima volta che mi vedi dopo avermi fregato i soldi e mi chiedi che cosa prendo» accennò, ma non c’era né rabbia né rimorso né niente di negativo nei suoi occhi chiari.
«Ah, questo è il tipo che ti sei portato in casa a Natale?» sbottò l’altro, alzando un sopracciglio. «Molto interessante, vi racconterete la bellezza dei vecchi tempi dopo, Roxas, dobbiamo muoverci».
«Mhm, dovrei muovermi anche i-» ma Roxas lo zittì con un cenno, facendolo avvicinare di più.
«Stai fermo così» disse, e infilando distrattamente la mano in tasca ne tirò fuori con una calma invidiabile una semiautomatica, rivolgendo al tipo dall’altra parte del tavolo quella, ed il palmo della mano sinistra aperto. «I soldi, Riku».
«Dannazione, punta quella cosa da un’altra parte» ringhiò, porgendogli un fascio di banconote e prendendosi la pistola.
Axel rise. Certo. Uno scambio di merci probabilmente – ok, niente “probabilmente” – di contrabbando in pieno giorno, in un bar, con lui davanti a parare la visuale. Roxas era completamente fuori di testa. Nemmeno lui al posto di quel tipo avrebbe voluto che gliela puntasse contro.
Roxas intascò i soldi, mimandogli che no, non avrebbe ritrattato il prezzo, e sbuffando l’altro ragazzo si alzò, rinfilando il cappello scuro prima di uscire dal negozio con un semplice “È la prima ed ultima volta che faccio affari con te”.
«Certo che in due mesi sei anche peggiorato, wow».
«Io almeno non rubo» si limitò a rispondergli, stringendosi nelle spalle. «Portami un cappuccino – posso fumare qui dentro, vero? Quel tipo lo sta facendo» accennò, e come prima infilò la mano in tasca, tirando fuori una canna già rollata. «Vuoi una? – oh, ce l’hai un appartamento?» chiese, portandosi il bastoncino un po’ ammaccato alle labbra, accendendolo dopo un paio colpi netti del pollice contro la rotella dell’accendino.
«Sì, niente chiappe al freddo – che c’è, i tuoi ti hanno cacciato?».
«Me ne sono andato io la settimana scorsa, e non so ancora dove andare – paghiamo a metà, come vedi guadagno» disse, porgendogli la canna.
Axel aspirò, e rimase un attimo in silenzio a pensare. Ma sì, in fondo quella roba era anche buona.
 
Quando Roxas aveva messo piede in casa sua, aveva commentato il tutto con una smorfia di disappunto, poi però aveva lanciato il suo borsone in un angolo e si era sistemato sul divano, dicendo che almeno si stava più caldi lì che in mezzo alla strada, e si era acceso una sigaretta.
«Sei sempre così gentile?» commentò ridendo, rubandosi una cicca dalla sua scatola quasi vuota, sedendosi sul lato opposto del divano e lasciando che gli posasse i piedi nudi sulle cosce. Aveva dei piedi piuttosto grandi, per essere così basso.
«Hai un fetish per i piedi?».
«Mi attizza di più la tua lingua pungente» disse, e Roxas rise, scuotendo piano la testa mentre si portava il filtro alle labbra sottili («Bella risposta» accennò, poi continuò a guardarsi in giro).
Axel non abitava in una vera e propria casa – era un monolocale piuttosto spoglio, il frigo pieno di alcol e i cassetti pieni di polvere. C’era un letto singolo addossato alla parete opposta alla porta d’entrata, dietro la tv in bianco e nero poggiata al centro della sala, a pochi metri dal divano; c’era un bagno, con una cabina doccia piuttosto piccola, c’era un armadio dentro cui aveva tre paia di jeans vecchi e qualche felpa, niente di che, ma aveva passato abbastanza tempo a dormire sotto i ponti per dire che era molto meglio così.
«Non vuoi sapere perché gli stavo vendendo una pistola?» sbottò Roxas ad un tratto, una volta finita la sigaretta – si guardò in giro in cerca di un posacenere, ed allungando una mano per terra Axel gli passò il bicchiere di plastica pieno zeppo di mozziconi che usava come alternativa.
«Al tuo amico bellimbusto?» si strinse nelle spalle, rivolgendo lo sguardo al suo viso smunto, ancora più di quando lo aveva visto la prima volta. «Nah, tu non mi hai mica chiesto perché il coso che tiene su la tv è in realtà un blocco di cassette porno» sbottò, buttando il mozzicone nel bicchiere che Roxas teneva tra le mani – che rideva, ancora, come se non potesse proprio farne a meno.
«Non è difficile da immaginare» accennò, e tirandosi su si sfilò finalmente il giubbino, lanciandolo sul letto, dove si fermò in bilico sul bordo – si avvicinò al cucinino, guardò un po’ in giro, poi si chinò, ed aprì il frigorifero. «Di cosa vivi? Fumo, alcol, e seghe?».
«Anche le canne, da oggi in poi, mi sa» rise, guardando con interesse piuttosto scientifico il suo culetto a novanta gradi.
«Allora bisogna festeggiare» afferrò un paio di bottiglie, e chiudendo la porta del frigo con un colpo di fianchi gli si avvicinò, lanciandogli una birra. «La vodka me la tengo io, sono appena arrivato e devi trattarmi bene per fare bella figura, ti pare?» e così dicendo si sistemò sul divano come prima, la testa sul bracciolo e i piedi sulle sue gambe.
«Perché, non ho fatto già bella figura quando mi fissavi impudicamente il culo mentre mi facevo la doccia?».
Roxas scoppiò a ridere, stappò la bottiglia e prese un grande sorso a canna, e qualche goccia trasparente scivolò via dalle sue labbra, correndo giù dal mento – si affrettò ad asciugarsi con la manica, fissandolo tranquillo. «Ho fatto parecchi sogni erotici su di te, eri anche bravo» e ridendo ancora mandò giù dell’altro alcol, prima di passargli la bottiglia.
Lui rise, scuotendo la testa, solleticandogli i piedi con una mano. «E me lo dici con questa faccia?».
«Con quale dovrei? Non ammicco mica come una puttana» sbottò, sorridendo tranquillo, poi girò il viso verso le pile di cassette, piuttosto attento. «Ce lo vediamo un film porno? È da quando sono via di casa che non mi masturbo».
Aveva mandato giù due dita di vodka, non era neanche un po’ brillo. Axel si chiese se fosse normale chiedere con una calma così glaciale di farti una sega assieme a qualcuno cui hai appena detto di averci fatto su dei sogni erotici – ed essere lucidi. Era questo quello che lo stupiva. Rise, si nuovo – c’è qualcosa in Roxas che non ti ha stupito, Axel?
«E se io non volessi farmela?».
«Una sega con me?».
«Una sega con te» confermò, mandando giù il liquido, che gli bruciò la gola – è solo l’aspettativa, è solo l’aspettativa che ti sta accarezzando. «Chi ti dice che sia disposto a farmela con uno sconosciuto».
Il biondo storse il naso, rubandogli dalle mani la bottiglia trasparente. «Non sono uno sconosciuto» ribatté, solleticandogli lo stomaco con la punta delle dita dei piedi, continuando a sorridergli con quell’aria divertita. Aveva la faccia di uno che sa che non gli dirai di no, e la prima volta che l’aveva incontrato Axel non se n’era proprio reso conto. «E fino a due minuti fa mi guardavi il culo, quindi immagino che non potrebbe che essere eccitante masturbarci l’uno di fianco all’altro» espose la sua tesi con tutta la calma del mondo, tenendo le labbra a solleticare il collo della bottiglia – vorresti esserci tu al posto suo, non è vero, Axel? «E sinceramente ho voglia di vedere quanto hai grande il cazzo» ghignò, scoppiando poi a ridere.
Semplicemente scosse la testa, divertito – sei arreso, Axel, perché sai di non potergli dire no. Tirò fuori dalla pila uno dei porno migliori che aveva, e la dodici pollici si inclinò leggermente sulla destra, sbilanciata. Aveva un nodo allo stomaco, che gli suggeriva che Roxas e la sua faccia di merda avrebbero vinto molto più che una semplice sega in compagnia. Ma non aveva idea che, invece, sarebbe stato proprio lui a beccarsi una pompa gratis con tanto di ingoio – occhi belli era bravo anche in quello, merda.
 
Erano passate due settimane di convivenza, sbronze e canne e porno e risate e ancora sbronze e ancora porno, quando lo fecero la prima volta.
Il suo letto ad una piazza aveva cigolato tutto il tempo sotto il loro peso e le loro spinte e la loro foga – perché Roxas ne aveva avuta moltissima, mentre graffiandogli con le unghie il petto nudo gli saltava sul cazzo, facendo in modo che restasse giù con la schiena, ridendo tra i gemiti ansimanti ogni volta che Axel si era lasciato scappare un’imprecazione contro il suo culo. E ne erano state molte, troppe.
Gli baciò il collo, steso di fianco sul letto, lasciando che Roxas si incastrasse contro il suo petto, steso com’era a pancia sotto, il viso rivolto verso il centro della stanza – vorresti che il suo azzurro fosse solo tuo, nient’altro.
Sospirò, un po’ deluso un po’ demoralizzato, scivolando con le labbra dall’attaccatura dei capelli biondi – e profumati, Dio, profumavano da morire – alla spalla, sfiorandolo con la punta del naso. Stava seguendo ormai da minuti la linea della sua schiena con i polpastrelli dell’indice e del medio, scendendo fino al sedere e ritornando su, osservando con calma il lento abbassarsi e rialzarsi delle spalle, mentre respirava. Gli baciò i capelli, socchiudendo gli occhi.
Aveva trattenuto troppe volte l’impulso di rubargli un bacio o un abbraccio, per paura che lo negasse. Se non si fosse soddisfatto adesso per tutte le volte che si era negato, avrebbe sentito un male fisico – come quando non hai più nicotina per distruggerti, forse?
«Roxas» sussurrò contro la sua pelle chiara, prima di afferrarlo per le braccia per portarselo contro il petto, coprendo poi entrambi con le coperte – occhi contro occhi, per far scontrare le anime.
«Cosa?» chiese lui, posando il visetto ancora un po’ rosso contro il suo petto, fissandolo da lì, con le palpebre ben aperte – hai lasciato che ti ingoiasse senza ribellarti, Axel.
Gli passò una mano tra i capelli, tirando appena le ciocche, mentre l’altro braccio era fermo attorno la sua vita. «Pensavo… che non mi hai mai dato un bacio, neppure uno».
C’erano stati morsi famelici, a volte di rabbia, c’erano stati tocchi fugaci di labbra, leccate vogliose. Ma un vero bacio, Axel non era ancora riuscito ad averlo.
«Sono in dovere di farlo?».
«No» rispose, scuotendo piano il viso, fissandolo un po’ stranito per la freddezza immediata della domanda.
«Quindi perché lo pretendi?».
«Lo desidero».
«Lo desideri?».
«Da morire» accennò, continuando a lasciarsi inghiottire da quel blublublu immenso. «Voglio baciarti».
«Volevi anche scoparmi, non mi hai chiesto il permesso».
«Dio, Roxas» rise, scuotendo il viso – si mise a sedere, la schiena contro il ferro battuto della testata del lettino, e il biondo scivolò lungo il suo corpo, restando con la guancia morbida contro la sua gamba, a respirargli sul… che troia, merda. «Mi hai dato il culo ma non vuoi baciarmi – perché?».
«Chi ti ha detto che non voglio?».
«Se avessi voluto già lo avresti fatto. Ti prendi sempre quello che vuoi, sempre».
«Quindi ho preso anche te?».
Axel rise, amaro, sconfitto. «Da quando abbiamo dormito in camera tua».
«Wow» Roxas scosse il viso, ed alzandosi dal letto gli diede le spalle, allibito. «Io volevo solo scopare».
«Anche io, non sono una cazzo di principessina – ma di solito vuoi anche baciarla, la persona con cui scopi» precisò. «Poi non so se vai al contrario, tu».
«Di solito si vuole baciare la persona che si ama, Axel» – lo senti il freddo della lama nel petto? O riesci solo a percepire quanto brucia?  «Io non ho mai baciato nessuno».
Poggiò la nuca contro il muro bianco scrostato, chiudendo le palpebre contro gli occhi verdi, per non guardarlo – solo un momento, per un solo momento voleva far finta che non esistesse. «Io non ti amo» precisò. «Sei davvero troppo ambiguo perché possa farlo».
Perché Axel non lo conosceva. Sapeva che si chiamava Roxas, sapeva che sua madre era una drogata del cazzo e che suo padre era un pezzo di merda, sapeva che aveva le tasche sempre piene di erba o cocaina, sapeva che ogni tanto portava armi da contrabbando in giro. Sapeva che aveva pianto, la notte di Natale, perché forse qualcosa di umano in lui c’era, oltre la rabbia, oltre la patina di apatia. Roxas doveva avere altro, perché quegli occhi non potevano essere così belli, senza avere un’anima – gli occhi delle bambole ti hanno sempre spaventato, vero Axel? Ma anche quelle dell’Inferno sono anime.
«Quindi… se fossi più chiaro con te, mi ameresti?» sbottò, avvicinandosi al piccolo tavolo di fronte al cucinino, per prendere le sigarette – lo avevano preso per mangiarci, ma alla fine era diventato una scrivania, un guardaroba, un qualsiasi cosa fosse non adibita al mangiare.
Lui sospirò, fissandogli la schiena nuda, il sedere con su i segni dei suoi morsi, i graffi che poi aveva leccato, e le gambe magre con l’accenno di peluria bionda. Si strinse nelle spalle, scostando le coperte che gli coprivano l’inguine, afferrando un paio di boxer puliti dal cassetto lì di fianco al letto. «Non lo so, occhi belli, non credo tu sia una persona di cui potrei innamorarmi» rispose, alzandosi e tirando su le mutande, infilando una mano dentro per sistemarsi meglio il pacco. «Ma di certo non mi spiace scoparti» aggiunse, avvicinandosi fino a dargli un pizzicotto sulla natica, rubando una sigaretta dal suo pacchetto e facendo scontrare l’estremità della propria con quella di Roxas per accenderla, aspirando. «E voglio baciarti, tutto qui» concluse, scostando la catasta di cianfrusaglie per sedersi sulla tavola e poter scrutare il suo sguardo dall’alto.
Roxas si limitò a puntargli gli occhi contro, continuando a fumare con calma surreale. Lo fissò ancora, e dopo un attimo sorrise ilare, spegnando il mozzicone contro il tavolo, aprendogli le gambe per sistemarsi tra esse. «Allora perché non mi baci, Axel?» rise, sibilando il nome sulle sue labbra. «Di cosa hai paura? Non ne hai avuta a sbattermi contro il letto e dirmi che volevi fottermi il culo, mi sembra» - ci sono Demoni che possono succhiare via la vita con un solo bacio.
Semplicemente ricambiò lo sguardo, soffiando la nuvola di fumo sulle sue labbra – la maschera di calma che aveva sul viso si trasformò in un ghigno, ed afferrandogli il mento nella mano con cui manteneva anche il filtro della sigaretta lo tenne fermo, avvicinandosi alla sua bocca con la propria, ma senza toccarla – vorresti morirci, non è forse vero, Axel? Come affoghi nel cielo dei suoi occhi.
Ma Roxas non ricambiò il ghigno, nulla se non il suo sguardo – respirava piano contro le sue labbra, mandandoci di tanto in tanto occhiate languide, che poi rivolgeva a lui; Axel rilassò automaticamente la presa sul suo mento e lasciando cadere la sigaretta contro il pavimento gli posò i palmi sulle guance ancora rosse, sfiorandogli il naso da bambolina col proprio. Lo guardò negli occhi socchiusi ancora una volta, poi abbassò le palpebre quando – alzandosi sulle punte ed abbracciandogli le braccia al collo – Roxas finalmente lo baciò, posando morbidamente la bocca sulla sua, appena impacciato.
Quando realizzò che quello era seriamente il suo primo bacio, Axel sorrise contro la sua bocca, incastrandola con la propria mentre continuava ancora a sfiorargli le guance, adesso ancora più rosse di quanto non fossero mai state in quelle due settimane assieme.
Roxas aveva preso ogni cosa da lui, tutto: in quel momento avrebbe potuto succhiargli davvero via la vita e lui non si sarebbe neppure opposto, ma almeno Axel il suo primo vero bacio era riuscito a rubarglielo, e allora non gli interessava neanche, perché come si era preso questo si sarebbe preso anche tutti quelli a seguire.
 
Era una bella giornata quando decisero di uscire assieme, un po’ come un primo appuntamento, un po’ per trascinare fuori da quelle quattro mura i loro segreti –non sei mai stato bravo a mantenerli Axel, mai.
Avevano camminato a lungo, perché probabilmente due anime senza un posto d’appartenenza possono fare soltanto questo, sperando magari di trovare qualcosa che le trattenga, che faccia capire loro di essere finalmente arrivate nel luogo giusto: era una vita che Axel camminava, ma non aveva ancora trovato niente di tutto questo, e allora semplicemente aumentava il passo.
Non avevano parlato molto, Roxas era stato assorbito dai rumori dei clacson e dal vociare delle persone, oppure annullato dal silenzio dei vicoli più isolati. Axel si era trattenuto dal baciare la sua bocca schiusa appena per lo stupore, come se non avesse mai visto una strada sporca o un gatto morto contro l’asfalto, solo perché non voleva distruggere la sua calma apparente – hai solo paura che non ti lasci spazio nel suo mondo, Axel.
Dopo ore ed ore erano arrivati ai confini della città, e lo scenario non era nient’altro che vie di cemento grigio per lasciar passare i camion che andavano verso le discariche, e distese di erba stopposa e terreno secco completamente distrutte.
Iniziò a rallentare il passo, le mani nella solita giacca consumata, tanto che ormai i gomiti erano diventati opachi e grigi ed avevano perso la lucentezza della pelle nera: fissava la schiena di Roxas con un piccolo sorriso, guardandolo scorrazzare tra i metri quadrati d’erba gialla, rilassato e libero ed infantile come l’aveva visto solo poche volte, fino ad arrivare ad un mucchio di pneumatici alto fino al cielo, sedendosi su uno di quelli che stavano più in basso. Lo raggiunse, mentre s’accendeva una sigaretta e stava attento a non farsi cadere la cenere addosso – i bambini preferiscono l’erba bagnata ed i fiori, come sei arrivato a questo punto?
«Mamma non mi portava mai al parco giochi» cominciò il biondo, le gambe accavallate ed una mano tra esse per stare più caldo, l’altra a tenergli su il viso. «Allora andavo in una casa abbandonata nei dintorni, e mi divertivo da morire perché c’era il pericolo di farmi male» sorrise appena, socchiudendo gli occhi – lo vedi Axel? Lo vedi il suo ricordo incastonato tra le ciglia?
Si accomodò al suo fianco, un po’ più in alto, ed incastrando la suola degli anfibi contro il copertone consumato si rilassò, prendendo un’altra boccata di veleno dalla sigaretta. «Io sono stato affidato a degli assistenti sociali che mi hanno sbattuto in un orfanotrofio decrepito: il direttore ci violentava e le giostre facevano pure schifo, che merda, almeno quelle» sbuffò, scrollando le spalle con noncuranza; girò il viso solo quando si sentì fissare, ed incastrando il proprio sguardo a quello preoccupato di Roxas rimase col filtro tra le labbra, bloccato.
«Sei stato stuprato?».
Axel rise, roco, e lanciando lontano la sigaretta dopo averne schiacciato la punta contro la plastica doppia saltò giù, ponendosi di fronte a Roxas, fissando il cielo bianco e nuvoloso dal riflesso nei suoi occhi. «Che c’è? Ti stai preoccupando? È stato… un casino di tempo fa, non me lo ricordo neanche».
«Non mi sto preoccupando» accennò in un sussurro sovrappensiero, infilando le mani nella tasca del giubbino lucido che portava costantemente sbottonato – Axel sapeva che infondo gli piaceva far vedere i lembi della sciarpa dondolare e sobbalzare, come per distogliere l’attenzione da tutta la sua figura. «È che… mi stupisce che tu lo dica con tutta questa leggerezza, ecco».
«Anche tu usi la mia stessa faccia di merda quando mi dici che vai a vendere polvere da sparo per fare bombe, mi sembra» rise ancora, posando il piede sul copertone su cui era seduto, per chinarsi ed arrivare alla sua altezza, sovrastandolo – è lui che inghiottisce te, lo sai vero? «Ho passato cose peggiori che succhiarlo ad un vecchio, occhi belli».
Roxas fece una smorfia: «Dio, che schifo» disse, senza arretrare, tenendo il mento alto per fronteggiarlo, anche se inconsciamente. «Ho messo la lingua in bocca ad uno che l’ha succhiato ad un vecchio».
«Ed io nel culo ad uno che chissà quanti cazzi ha preso, pensa un po’» ribatté, e Roxas scoppiò a ridere, spingendolo all’indietro e lanciandoglisi addosso, facendo cadere entrambi contro il terreno. Lo guardò dal basso, ridendo ancora quando gli posò le mani sui fianchi, sistemandosi meglio sulla superficie fredda e scomoda. «Te la cavi sempre meglio tu» sospirò, afferrandolo per i lati del cappuccio per poterselo tirare più vicino, viso contro viso.
Roxas posò i palmi contro il suo petto, e sorrise mentre sfiorava il suo naso col proprio. Ancora una volta, Axel non poté far a meno di annullarsi mentre incrociava i suoi occhi, e le mani scivolarono dal tessuto imbottito al suo volto, alle le guance molto più morbide di qualsiasi altra cosa, prima che si avvicinasse ancora, un soffio di più, lasciando coincidere le labbra. Roxas era sempre un po’ restio nel baciarlo, quindi che fosse stato lui a prendere l’iniziativa questa volta, gli fece sentire una strana morsa allo stomaco: gli leccò languidamente le labbra tenendo le palpebre basse e schiusa la bocca, finché Axel non gli solleticò la lingua con la propria, un attimo prima di suggerla, lasciandolo sospirare piano.
Non aveva ancora capito se quelle reazioni fossero così intense perché quelli che riceveva non erano altro che i suoi primi baci, ma lo eccitava da morire che si lasciasse trasportare totalmente dal bacio, affidandosi – per una volta, per una dannata volta – a lui, facendo fatica a tenere il ritmo, aggrappandoglisi alle spalle quando la foga era troppa e non riusciva a far altro che gemere e mugolare annaspando, come se stesse affogando ed avesse bisogno di qualcosa che lo tenesse a galla, che lo tenesse ancorato alla realtà – tu a cosa ti affidi, Axel, quando anneghi nel suo oceano?
Quando si sentì premere contro lo stomaco la sua erezione, Axel ghignò soddisfatto.
«Ho voglia» ansimò improvvisamente Roxas, con un filo di voce, guardandolo ad un soffio dal suo naso col visino tutto rosso e sconvolto, le ciocche incollate alla fronte, gli occhi già lucidi – lo ammazzava, lo ammazzava ogni volta che glielo chiedeva in quel modo dissacrante ma col viso da bambino che ha corso e si è divertito troppo per tutta la giornata.
Sei una porca, Roxas, una dannata troia porca, che cazzo.
«Siamo all’aperto, occhi belli, dovrai contenere le tue voglie per le prossime tre ore e mezza di cammino» accennò, carezzandogli i fianchi nudi da sotto tutti quegli strati di tessuto – era bollente, ogni singola cellula gli stava bruciando i palmi.
Fece una smorfia di dissenso, quasi disperato, aggrottando la fronte e incurvando verso il basso le labbra «Axel!» lo chiamò, prima di mordersi la bocca. «Ce l’ho duro, merda, non ce la faccio per tutto questo tempo – ma chi cazzo vuoi che ci veda in questo posto sperduto?» domandò, retorico. «E poi è anche eccitante, porca puttana, non l’ho mai fatto all’aperto!» esclamò questa volta, come a voler confermare la sua tesi.
Axel rise, rise fortissimo, e con un colpo di reni ribaltò le posizioni, spingendolo con la schiena contro il terreno che ormai aveva preso la forma della sua schiena. «Sei così eccitato per cinque minuti a limonare? Cazzo, Roxas, pensavo di meglio sinceramente».
«Sta zitto!» cominciò a tirargli alcuni pugni contro il petto, e quando iniziò a far male non ci mise nulla a bloccargli i polsi contro il terreno, ghignando.
«Che vuoi, ho ragione».
«L’altro giorno ti è venuto il cazzo duro solo perché mi ero abbassato per alzare i cocci di quei cazzo di dischi di merda che avevi, avrei dovuto prenderti in fronte e sfregiarti la faccia, bastardo» sibilò, continuando a dimenarsi.
Continuò a ridere, consapevole che non avrebbe fatto altro che farlo incazzare di più, chinandosi per leccargli la bocca. «Lo vuoi un altro bacino, piccolo? Così magari vieni anche nei pantaloni, piccola zoccoletta in calore».
«Ma quello lo sarai tu, succhiacazzi di vecchi arrapati» ringhiò, e alzando il busto gli tirò una testata in bocca, che lo fece mugolare dal dolore e lasciare la presa su di lui, accasciandosi di lato – porca puttana, che male infame! «Così impari, stronzo» Roxas gli tirò un calcio nel fianco, ed Axel guaì anche per quello, sputando il sangue per il labbro spaccato contro i denti. L’afferrò per la gamba, lasciandoselo cadere di peso addosso prima di spingerlo via e tirargli un pugno nello stomaco, rabbioso.
«Figlio di puttana, prova a rifarlo!» urlò, prendendogli con forza il viso nel palmo, guardandolo con astio – non fa più male di quando ti ferisce con le parole, è questo che ti fa rabbia, non è così?
«Quello lo sarai tu, schifoso – è per questo che tuo padre l’ha uccisa, quella troia, ce l’aveva più sfondata del tuo culo, frocio di merda» - Axel gli sputò il sangue in faccia. Roxas gli tirò uno schiaffo in pieno viso, graffiandolo con forza dall’orecchio fino al mento, tanto da farlo bruciare da morire. «Levami queste cazzo di mani di dosso!».
Lo scostò via, bruscamente, passandosi il polso sul labbro gonfio e graffiato e grondante si sangue, e sputò per terra, ringhiando contro il biondo, che si alzò pulendosi il viso. «Puttana».
«Merda».
«Frocetto effeminato».
«Succhiacazzi».
«A me sembra che il mio ti piaccia abbastanza da ficcartelo in gola, troia».
«Che faccia di merda» rise, ma non era una di quelle risate divertite o schernitrici o sincere che gli piacevano tanto e lo rendevano meraviglioso, era una di quelle senza gioia e con la freddezza che ti spacca il cuore, lasciandoti senza parole – hai solo quelle sbagliate, adesso.
Si leccò il taglio alla bocca, che sentiva pizzicare, sopportando il sapore metallico contro la lingua – sospirò, quando Roxas gli diede le spalle mostrandogli un dito medio, cominciando ad incamminarsi via. «Dove cazzo vai!» gli urlò dietro. «Non sai manco quale è la strada, Cristo».
«Cosa cazzo te ne frega!» non si girò neppure per parlargli, anzi aumentò il passo, e non gli rimase che corrergli dietro, sbuffando – vale davvero la pena correre verso qualcuno che sta scappando da te?
«Dio, fermati!» lo riacciuffò per il braccio, guadagnandosi un’occhiata incazzata ed un calcio negli stinchi – ringhiò, e tenendogli fermi entrambi i polsi tra i palmi lo scosse, tirandogli uno schiaffo. «Sta’ fermo Roxas, cazzo! Mi stai facendo imbestialire, non fare il ragazzino! Che cazzo ti piglia stamattina, Cristo!» finalmente si calmò, liberandosi dalla sua presa con un metto movimento delle braccia, ma non scappò da nessuna parte – aveva lo stesso sguardo di quella notte, quello di chi ha troppa rabbia dentro.
«Voglio andarmene» disse, ed Axel annuì, sospirando.
«Adesso torniamo a casa e-».
«Non intendevo da qui, Axel» precisò. «Me ne vado lontano da te».
«E perché? Perché ho reagito alla testata ed al calcio che mi hai dato, occhi belli?» gli portò una mano tra i capelli, sorridendo paziente anche quando il biondo la scostò, facendo tuttavia un passo verso di lui. «Dai, andiamo a casa» gli portò un braccio attorno alle spalle minute, baciandogli la tempia. «Che cazzo hai al posto delle unghie, artigli? Mi brucia da morire la faccia».
«Scusa, facevo così per difendermi dai bulli alle elementari» accennò con un piccolo sorriso, allungando la mano per carezzargli la guancia sinistra. «La disinfetto io quando arriviamo, sì?».
«Perfetto» lo baciò tra i capelli, ricambiando il sorriso, stringendolo di più. «E dopo facciamo anche sesso?».
«Dopo facciamo anche sesso» gli fece eco, ridendo piano. «Tutta la notte».
«All night long» canticchiò sorridendo e dandogli un altro bacio. «Così facciamo anche pace» aggiunse, restando poi in silenzio, cercando semplicemente la sua mano per stringerla nella propria – ed è così infinitamente diversa dal fumo che hai afferrato fin ora.
Quando ritornarono a casa, Axel pensò che farlo quella notte sarebbe stato in qualche modo diverso dalle volte dalle precedenti – nonostante le parolacce e la foga e il piacere ed i baci ed i gemiti, nonostante tutto.
Fu quel giorno – quella notte – che si rese conto che probabilmente non erano stati solo gli occhi belli ad incantarlo, ma Roxas a farlo innamorare.
 
-
 
Axel si alzò di malavoglia, andando ad aprire la finestra per far uscire fuori tutta la nube di fumo. Fissò apatico il letto sfatto e sporco, pieno di vestiti da lavare mischiati a quelli puliti – si passò una mano tra i capelli rossi, tirando indietro le ciocche, e sospirò.
Non aveva mai preteso nulla, nulla.
Si morse la bocca, e girandosi di scatto attraversò la stanza in soli tre lunghi salti, spalancando la porta che sbatté contro il muro, rimbalzando sui propri cardini – se la lasciò aperta alle spalle, correndo per le scale del palazzo a piedi scalzi, facendo di volata i cinque piani che lo separavano dalla strada – e chissà quanti metri mancavano a Roxas.
Sentì i polmoni bruciare e maledisse le sigarette, maledisse l’alcol e le canne e tutto quello che gli aveva fatto del male in quegli anni e quei mesi e quei giorni – maledisse Roxas, soprattutto, maledisse lui ed i suoi dannati occhi che l’avevano fatto innamorare.
Ansimò, chino nella schiena, fissando il marciapiede lurido mentre cercava di riprendere fiato, e soprattutto di pensare – dove cazzo poteva essere andato, dove? Alzò il viso per guardarsi in giro, ed imboccò la strada di destra, perché la sinistra gli aveva sempre portato sfortuna, in un modo o in un altro.
Doveva solo trovarlo, solo trovarlo, non poteva essersi dissolto nel nulla.
Aveva i piedi nudi e ghiacciati sulla strada bagnata, camminando a vuoto. Tirò su col naso, maledicendo la sua pessima idea di uscire senza scarpe e senza qualcosa per coprirsi, visto che dieci minuti dopo essere uscito aveva cominciato a piovere fortissimo, e lui era stato un’ora e mezza a correre come un pazzo per le strade di quella merda di città, sperando inutilmente di incontrarlo – ci sperava ancora, lo stava facendo.
«’Fanculo» sospirò affranto, sedendosi su una panchina arrugginita.
Fissò le goccioline che gli colavano dal naso infrangersi contro il cemento della strada e mischiarsi con quelle della pioggia, tenendo lo sguardo basso: era distrutto e bagnato, non gli importava di sembrare meno patetico di quanto non fosse già adesso, non gli interessava neanche un po’.
«Axel, cazzo!» non fece neppure in tempo a spalancare la bocca ed alzare lo sguardo, che si ritrovò schiacciato contro lo schienale di ferro battuto con Roxas addosso, che lo stringeva. «Che cazzo hai fatto, sei fuori, guarda come sei uscito, e senza chiudere un cazzo di niente – Dio, mi hai fatto preoccupare!».
Axel lo fissò incredulo, prendendogli il viso zuppo quanto il suo tra le mani fredde, schiudendo piano la bocca. «Ero… ero venuto a cercarti».
«Sono stato via cinque minuti, Axel, cinque! Sono tornato e… ed era tutto aperto ed anche la finestra e… cazzo, le scarpe erano lì ed anche la tua giacca, io pensavo… pensavo…» si morse la bocca, stringendolo di nuovo. «Sono così contento di averti trovato» sussurrò con la voce rotta, e finalmente Axel ricambiò l’abbraccio, stringendoselo addosso.
«Anche io» sorrise, baciandolo tra i capelli bagnati. «Credevo non saresti tornato».
Il respiro caldo di Roxas gli carezzò l’orecchio, facendolo rabbrividire. «Se non hai preso la febbre giuro che mi faccio prete» sbottò, ed Axel ride, prendendogli il viso tra le mani per lasciargli un bacio che sapeva di pioggia – gli guardò gli occhi, e trovandoli rossi e lucidi lo baciò di nuovo, con più intensità.
«Andiamo a casa, occhi belli?» sussurrò, scostandogli dalla fronte le ciocche che s’erano incollate con l’acqua, mentre Roxas gli passava i pollici sotto gli occhi, probabilmente per salvare il salvabile del suo trucco colato – che schifo che doveva sembrargli in quel momento, lui invece lo trovava solo più bello di quanto non fosse mai stato.
«Torniamo a casa» disse, baciandolo. «Ti fai una doccia bollente, ti bevi un caffelatte ustionante e poi ti misuri la febbre, Axel».
Rise appena, premendo le labbra sulle sue – ancora, ancora, ancora una volta. «Però… facciamo che se non ho la febbre, non ti fai prete, mh? Al massimo facciamo l’amore, occhi belli».
«L’amore?» domandò, arricciando il naso, assorto mentre continuava a carezzargli le gote. «Credo di non averlo mai fatto».
«C’è sempre una prima volta, non credi?».
Roxas gli sorrise, premendo la fronte contro la sua. «Dopo averti cercato per un’ora in giro sotto la pioggia… sì, credo ci sia per tutto».
Axel lo baciò dolcemente, mentre la pioggia continuava a scendere più forte, portandosi dietro anche qualche tuono, pulendoli di tutte le colpe e gli sbagli di cui si sarebbero continuati a macchiare, nonostante tutto.
 
Ma sono felici, e non possono fare a meno di pensare che è stata la primavera a portare cambiamenti, non quella stramba notte d’inverno.
 
 
 
 



   




Oh.
Finalmente, e dico finalmente, dopo un mese e passa sono riuscita a pubblicare una storia, e sono contentissima che sia una dannata AkuRoku a lietofine, perché non ne scrivevo da troppo, troppo tempo.
Questa storia è  stata un parto, ho scritto brevi sprazzi nell'arco di un mese, solo questanotte sono riuscita a buttare giù tutta la parte finale, e non a singhiozzi (proprio per questo domattina la rileggerò e sistemerò i possibili errori ma davvero, ero in estrema ansia per pubblicarla, ne sentivo un bisogno terribile).
Ne approfitto per fare gli auguri in ritardo di natale e, naturalmente, quelli dell'anno nuovo. Spero che prima o poi la primavera con la sua pioggia arrivi anche per voi, insomma :333
Non ho molto da dire, solo boh, mi siete mancati da morire, e mi è mancato da morire sopratutto scrivere, sinceramente.
Un bacione, ancora auguri amori <3

See ya!

   
 
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