Imaginaria
Act.1
_Wake Up
La
prima cosa che voglio sentire svegliandomi sono le tue labbra.
Il
tocco delicato della tua bocca che si apre a sfiorare il mio collo, perché solo
lì puoi baciarmi, dato che dormo sempre girata dall’altra parte, con la schiena
premuta contro il tuo petto, stringendomi a te la sera e aspettando la tua dolce
sveglia la mattina. Il brivido del solletico che si riflette nella mia risata
lieve, e la tua che risponde come un eco lontano, ed io ancora mi stupisco
perché tutto avrei pensato fuorché la gioia di sentirti ridere di mattina,
quando le serrande alle finestre sono ancora abbassate, e creano l’illusione di
una notte filtrata tra i raggi che sbirciano nei buchi. Posso vedere solo la tua
ombra, piegando la testa perché non ho voglia di girarmi completamente, ancora
incatenata nell’incastro formato dalle lenzuola e dal tuo corpo, non mi va di
distruggere questo attimo dedicato assolutamente a noi due, anzi, vorrei tornare
indietro con le ore fino a sera e passare di nuovo con te tutta la serata, come
sempre ormai, e non mi basta sapere che fra non molto più di dodici ore si
ripeterà tutto di nuovo, la notte è sempre troppo corta e il giorno troppo
lungo.
E
pensare che mi svegliavo per prima, e dire che ero io quella che ti buttava giù
dal letto. Ora sei tu, invece, quello che tra un bacio, un buongiorno, un
mugolio e qualche spintarella, mi tira fuori da sotto le coperte ancora persa di
sonno, e sono io quella che protesta diventando languida e spregiudicata pur di
averti accanto un altro minuto, per conquistare anche solo un carezza che ti
costringa a farti rimanere sdraiato accanto a me per poi tentare di nuovo di
svegliarmi del tutto. Mi prendi per le braccia e mi tiri su, convincendomi che è
tardi e che il bar deve
essere aperto, ma è freddo, fuori è coperto di neve, sotto il piumone invece fa
caldo, e di quel caldo tiepido e semplice che circonda come un mare d’ovatta. Lo
farebbe ancora più se ti infilassi sotto anche tu invece di continuare a
strattonarmi come se fossi un bambolotto, e so che devo riuscire a fartelo
capire, è così importante cominciare la giornata quando la mia, anzi, la nostra
intera vita può racchiudersi nel semplice svegliarsi?
Mi
struscio un po’ addosso a te, perché tanto fino a che io non mi alzo nemmeno tu
lo fai, ti bacio e mi gusto la vittoria quando sento tra le tue labbra il sapore
della resa, e ti lasci cadere su di me, lentamente per non pesarmi
addosso,
intanto
io cerco di tirarci le coperte sopra, tentando allo stesso tempo di non
lasciarti distrarre dal fatto che è tardi, terribilmente tardi; ma tanto anche
tu sembri più attratto dal fatto che qui c’è un letto caldo e la tua donna
innamorata che pretende attenzioni piuttosto che dalla strada scivolosamente
gelata che tenterà in tutti i modi di fare lo sgambetto alla tua moto.
Rimani,
dai. Rimaniamo tutti e due qui sotto alle coperte, a giocare, a fare l’amore, a
coccolarci, a scoprire ancora quel poco che ci rimane nascosto, perché
nonostante ormai quasi tutto ciò che ti riguarda è quasi abitudine, riesco
ancora a stupirmi del suono della tua voce, rimango di stucco alla palese nota
di felicità in cui essa sfuma quando ti sto accanto, mi imbarazzo ancora se mi
baci in pubblico e sobbalzo di sorpresa ogni volta che vedo i tuoi occhi
brillare come fiamme nel riflesso dei miei.
Non
è stupendo?
Fuori
il cielo è niveo di batuffoli bianchi, ormai è quasi Natale, la nostra casa e la
nostra camera sono riscaldate dal soffio di un vulcano invisibile, fra poco so
che il telefono comincerà a squillare perché i miei clienti si chiedono dove
diavolo sono finita e pretenderanno che vada ad accontentarli, allora alla fine
ci alzeremo e tu mi accompagnerai al bar con la moto, e io ti chiederò di andare
piano perché l’aria è tagliente come lame, e ti lamenterai delle mie labbra
secche e spaccate, ma intanto rimaniamo qui a giocare con il nostro amore,
nemmeno fosse il primo, ma per me lo è veramente.
E
tu, mia nuvola, resta, rimani qui a coprirmi.
Act.2_Starry
Flowers
Le
luci sulle vetrine fanno uno strano effetto nel momento in cui colpiscono la
neve. Da bianca immacolata, diventa cangiante di colori vivaci e caldi che non
si addicono alla temperatura, luminescente di piccole stelle di vetro che
irradiano della loro luce pungente gli occhi delle persone che camminano
lasciando scie in questo manto bianco. Cerco con lo sguardo un punto in cui i
non si tinga di troppe sfumature, ricercando il candore caratteristico e
naturale.
Bianco.
L’ho
promesso a Cloud, metterò un vestito bianco, anche se questo colore non mi piace
un granché.
Non
accelero il passo nonostante con la sera cominci ad arrivare il freddo pungente,
vado piano apposta, respirandomi l’aria invernale in tutto il suo incanto, dalle
luci colorate nelle vetrine alle strade piene di persone che prima non avevo mai
notato. E insieme all’odore della città mi sembra anche di sentire già quello di
casa mia, l’aroma pungente del legno che scoppietta nel camino e la cena che si
cuoce lentamente in cucina; nelle orecchie la fremente attesa del rombo della
moto che si avvicina come un fulmine frenando poi di botto e facendomi correre
brividi d’angoscia su per tutta la schiena.
Adoro
tutto questo.
Gli
odori, i sapori, i tocchi che ho sempre desiderato che ora fanno parte della mia
quotidianità, con una semplicità così assoluta e naturale che mi da alla testa
come troppo vino. Mi piace passeggiare la sera dopo il lavoro anche se avrei
migliaia di cose da fare, arrivare in una casa che non è più solo mia e godermi
questa vita in due. Rallento di fronte ad una vetrina che conosco ormai alla
perfezione, davanti alla quale passo ogni giorno e mi fermo ad osservare. Il
negozio non è grande, ma molto vivace e pieno fino all’impossibile, vedo oltre
il vetro filanti d’oro e d’argento decorarne il soffitto, che cadono come
piccole stelle comete brillando nel riflesso delle luci artificiali. Guardo la
vetrina, stringendomi nella giacca fino a coprirmi la bocca con la stoffa, forse
anche solo per nascondere il vago sorriso che mi spunta sulle labbra.
Stelle
di Natale.
E’
pieno, in questi giorni, di questi grandi fiori rossi e accoglienti; la maggior
parte di essi reca sempre un fiocco decorativo intorno al vaso o attaccato a
qualche foglia più grande, o anche un bigliettino appeso ad un lato, così se si
vuol farne un regalo, si può lasciare una dedica. La proprietaria del negozio ne
afferra una e se la porta via, afferrando qua e là fogli di ruvida carta
ornamentale in cui avvolgerla, mentre una cliente rotondetta e ben coperta dal
suo capace giaccone, le da indicazioni. Qualche mese fa in vetrina erano esposti
mazzi di rose sbocciate e fresche, e prima ancora di crisantemi, di azalee e di
gerani.
E
io ci penso.
Qualche
volta che ormai è diventata sempre, forse anche troppo, guardo la vetrina e
parlo da sola, con la gente che mi passa intorno e mi lancia sguardi curiosi,
allora chiudo gli occhi, continuando a vedere quelle stelle di Natale davanti a
me, oltre il buio delle mie palpebre. E potrebbe sembrare anche che il mio
dialogo si rivolga alla neve o al cielo, agli alberi spogli ogni tanto, o con le
gocce d’acqua che cadono dal lavandino. Ma non parlo da sola, magari penso e
basta, faccio domande più rivolte a me stessa che ad altri, a cui qualche volta
vorrei sentire risposta, o forse è solo per sentirmi in pace.
Sai,
Aeris, a primavera mi sposo.
Non
arrabbiarti, ma con quello che avrebbe dovuto essere il tuo ragazzo. Ti da
fastidio? No, no che non te lo da, sono sicura. Metterò un vestito bianco come
la neve, quando non è sporca e quando non è piena di colori, s’intende. Gliel’ho
promesso, e visto che lui mantiene la parola data lo faccio anch’io. Comincerà
un nuovo anno, e comincerà
anche
un nuovo stile di vita, forse non tanto diverso, più nella nostra mente che
nella realtà. Se sta bene? Oh, sì, sta benissimo, credimi. Ride, lo sai? E
scherza, addirittura. Sì, ti pensa ancora, anch’io come puoi ben vedere, ma l’ha
capita, che il mondo gira e il tempo scorre. Tutti ti pensiamo Aeris, io ti
penso. Che fai, ridi? Non ti vedo, ma lo so che stai ridendo, tu ridi sempre.
Ridi di me, eh? Fai, fai, ride bene chi ride ultimo. Lo so, per te dobbiamo
essere tutti molto divertenti, con il nostro affannarci, con il nostro correre
dalla mattina alla sera, con le preoccupazioni e tutto il resto. E, sì, so anche
che molto probabilmente non t’importa nulla di quello che ti dico, che peso deve
avere per te adesso se mi sposo e con chi? Ma davvero, va bene anche se fai
finta di starmi a sentire, perché lo sai che ho bisogno di essere ascoltata da
qualcun altro che non sia il mio ragazzo, ogni tanto. Discorsi fra donne, o cose
di questo genere. Ecco, solo mi va di parlare con la mia migliore amica. Non ti
dispiace, vero? Non pretendo risposte come ne hai date a Cloud, non voglio
vederti e sentirti, basta il solo convincermi che mi senti. Come sto io? Bene,
Ae, come devo stare? Anzi, sto con Cloud, punto. Penso che non serva altro per
spiegare come mi sento, no?
E
allora perché parlo con te, dici?
Lo
so, parlo da sola. A volte mi chiedo veramente se, a forza di occuparmi di lui,
tutto quello che c’era in Cloud non sia passato a me.
Act.3_Don’t
Look
Mattina
di Natale.
Odore
di biscotti e canditi, placido languore della prima colazione da consumare quasi
all’ora di pranzo, con lo sfrigolio del fuoco acceso che guizza nel camino e la
neve che cade ininterrottamente ormai da ore. Guardo fuori, non scende affatto
con calma come nelle favole, è una bufera in piena regola, ma il contrasto tra
l’esterno, dove si svolge, e l’interno, dove io mi trovo, è delizioso. Mi
appoggio alla finestra, fissando il turbinio bianco che imperversa oltre il
vetro, e mi sembra quasi di vedere gli alberi fuori guardarmi con ostili
occhiate cariche d’invidia per il mio aspetto soddisfatto e il mio pigiama
caldo.
Oggi
è veramente un giorno speciale. Sarà perché è Natale, o sarà l’aroma del caffè
che sale proveniente dalla cucina, ma credo che oggi ci sia qualcosa di
differente, e a farmelo pensare è soprattutto il fatto che mi sono svegliata per
prima. E ora, dopo aver preparato la colazione come non facevo da un bel pò,
sarò io a svegliarlo, come ai vecchi tempi, ma fino ad un certo punto, senza
urli e strattoni. Aspetto che il caffè sia pronto per metterlo nelle tazzine,
con la velocità dovuta all’abitudine della professione, poi lascio tutto pronto
in tavola e mi dirigo con passo felpato in camera da letto. E nel buio quasi
completo, mimetizzandomi con le ombre, arrivo a tentoni fino al letto, dove
riesco a sentire la presenza di lui, raggomitolato come un gatto e avvolto nelle
coperte. Facendo più piano possibile sollevo di poco il piumone, trattenendo il
respiro, con i muscoli tesi di concentrazione, e mi infilo sotto, chiudendo gli
occhi per il piacere della sensazione calda del letto e dell’accogliente
morbidezza del cuscino, e rimango un po’ ferma, a godermi il tepore sprigionato
dal suo corpo vicino al mio e il lieve suono del suo respiro calmo e
regolare.
Devo
proprio svegliarlo?
Qui
si sta veramente bene, potrei riaddormentarmi io stessa, poi ci desteremmo
insieme… ma questo è il mio giorno speciale, in cucina la colazione si sta
freddando, e dopo non mi sveglierei di nuovo per prima e perderei il lusso che
mi sono conquistata stamattina. Mi volto su un fianco e striscio piano fino a
lui, avvicinandomi abbastanza per poterlo vedere nell’ombra senza disturbarlo.
Devo strizzare gli occhi per scorgere i lineamenti e accorciare un po’ la
distanza, poi il mio sguardo si abitua lentamente al buio e finalmente riesco a
vederlo quasi del tutto. I tratti delicati e il naso diritto, l’espressione
rilassata e beata nonostante la sua bocca non accenni affatto ad un sorriso;
devo reprimere un brivido di desiderio lungo la schiena, trattenermi
dall’abbracciarlo violentemente all’improvviso, stringerlo talmente forte da non
permettere a nessuno dei due di respirare. Ed ecco, guardo lui come incantata e
non posso fare a meno di pensarci di nuovo, è una voce dentro di me che non
riesco a sopprimere.
Mi
hai portato via tanto tempo, Aeris.
Anni
e anni che avrei potuto vivere in questo modo, con lui al mio fianco. Prima solo
due, ventiquattro mesi di tragedia, di vita spenta dal lutto e della sua
presenza a balzi di mesi. Due, Ae, ma sono stati lunghissimi. Non c’era mai, non
rispondeva alle chiamate e non parlava, spariva per così tanto tempo che andavo
a pensare terrorizzata che avesse fatto una finaccia con la moto. E la rabbia,
ogni volta che sapevo di poterlo trovare in quella chiesa abbandonata invece che
a casa a badare alla sua presunta famiglia, l’orrore che avevo di me stessa
perché non riuscivo a fare nulla se non aspettare che tornasse ogni tanto. Alla
fine, è tornato veramente. Distrutto, fatto a pezzi e logorato, tutto da
ricostruire. Sono diventata un’esperta, per forza di cose. L’ho rimesso in
piedi, traballante e insicuro, reggendolo passo per passo, e ci sono voluti
altri tre anni, nei quali, lento come un vascello in un mare senza vento, il
nostro rapporto si è consolidato e arricchito di tanti particolari e momenti che
ci hanno portati dove siamo ora. Lui non si è accorto di me, né io mi sono fatta
avanti, semplicemente, da amici, da fratelli che eravamo ci siamo stretti sempre
di più come una morsa fino a che la necessità l’uno dell’altra era diventata
innegabile. In tutto fanno cinque, Ae. Cosa sono, nemmeno un ventesimo della
presunta durata della vita? Alla fine sono così pochi che non ti accorgi nemmeno
quando sono passati. Ma ora che il mio canone di vita si è abituato a questo, e
un po’ li rimpiango, devo ammetterlo, non sarebbe stato affatto male aver già
passato cinque anni così; altri cinque Natali accoccolata nel letto accanto a
lui con l’odore del caffè che arriva come un venticello e l’emozione che mi
scuote da capo a piedi quando penso che tra poco sarà primavera, e potrò
indossare il mio vestito bianco.
Mi
avvicino ancora di più a lui, sento il suo braccio disteso sul letto sfiorare la
mia spalla, il respiro caldo mi tocca le guance e io mi allungo appena a
sfiorargli le labbra. Lo senti Cloud? L’ho pronunciato appena, io stessa non
l’ho udito; ti amo, te l’ho sussurrato vicino alla bocca, perché appena ti
sveglierai sono sicura che queste parole mi torneranno indietro immediatamente,
e mi viene da sorridere. Non basta questo a scuoterlo dal sonno, naturalmente,
allora gli traccio un sentiero di baci calmi dal mento alla guancia, fino alle
labbra, poi giù, su un lato del collo. E sento la regolarità del suo respiro
interrompersi e un lieve fruscio di lenzuola, qualche movimento e le sue braccia
mi sono intorno, un buongiorno mormorato e il mio ti amo che torna come un
boomerang. Mi sento sollevare dal materasso e mi ritrovo distesa su di lui, a
baciarlo, ad accarezzarlo, a ridere mentre stavolta è lui a fare resistenza
mentre gli dico che è ora di alzarsi. E mi rendo conto troppo tardi che sono
debole, che la mia forza non è lontanamente al pari della sua e non riesco a
resistere come ci riesce lui ogni mattina; le sue mani ormai sono già sotto il
pigiama e non ho intenzione di toglierle.
Solo
quando piego un po’ la testa da un lato per lasciargli baciare il collo, me ne
accorgo. Sbatto un po’ le palpebre con forza, incredula, rimanendo a bocca
aperta quando vedo che questa allucinazione non se ne va.
Ciao,
Aeris.
Sta
in piedi, immobile al lato del letto, le dita intrecciate in grembo. Ehilà,
vorrei dire, quanto tempo. Oppure, ti trovo bene, non sei cambiata, ma sarebbe
una cosa stupida, perché mai dovrebbe essere cambiata, è morta. Già, morta. Cosa
fai qui, Aeris? Non è questo il tuo posto, temo. Sono felice di vederti, ma
proprio adesso? Stai lì a fissare me e Cloud in atteggiamenti affettuosi? No,
non guardi me. Tu guardi Cloud. Che strano cerchio, io vedo te e tu non vedi me,
Cloud vede me e non vede te. Lo chiamo, e gli dico di guardarti, ma è proprio
vero, lui non vede nulla, mi chiede cosa ci sia di strano. E a me non va di
dirgli che ci sei tu, spesso non mi va nemmeno di pronunciare il tuo nome in sua
presenza.
Mi
accorgo che mi da fastidio, il modo in cui lo guardi, il modo in cui ignori me e
fissi lui come se fosse completamente solo ad abbracciare l’aria. Perché lo
guardi così? Così tristemente, così dolorosamente. Non è da te. Non te ne vai,
eh? Ma questa situazione per me è imbarazzante, nonostante so che tu non esista,
che probabilmente sei solo il frutto della mia fantasia, non voglio fare l’amore
con lui sotto i tuoi occhi che non mi vedono.
“Dai,
Cloud, vieni, facciamo
colazione”
E
stavolta ci alziamo veramente, io sorda alle sue proteste, evitando di guardarmi
indietro per vedere se ci sei ancora.
Il
caffè si sarà freddato, ormai.
Act.4_Walking
In Mirrors
La
neve se ne è andata.
La
vedo dappertutto sciogliersi in rivoli freschi come ruscelli, i pupazzi prendono
forme irriconoscibili e le loro sobrie decorazioni cadono a terra, bagnate. Il
sole è tiepido, ma abbastanza caldo per cancellare il gelo dalle strade che
rimangono sorprese e umide, private inaspettatamente della coperta bianca che le
avvolgeva; passando per strada sotto una grondaia sporgente mi sono ritrovata
fradicia di neve ormai liquida che mi è finita in testa. Ancora troppo presto
per i fiori, per l’erbetta fresca, troppo tardi per l’inverno. Ma eccola, la
sento, la primavera si avvicina, passo dopo passo, lentamente nel momento in cui
la penso e veloce come un treno in corsa quando mi volto a ragionare su altro. I
vestiti sono ancora quelli pesanti, il cappotto e la sciarpa sempre gli stessi,
ma non danno più l’impressione fastidiosa di non essere buoni a nulla perché il
freddo e il vento ti stanno entrando nelle ossa, ora il vento è calmo, l’aria è
umida e carica di ghiaccio in partenza, e qualche volta mi ritrovo ad aver caldo
con tutta quella roba addosso.
D’ora
in poi, per questi prossimi mesi, il bar aprirà tardi e chiuderà presto. Posso
permettermelo? No, forse no, ma devo. Ci sono migliaia di cose da organizzare,
da preparare, la lista di quello che devo fare sembra lievitare mentre quella
delle cose finite pare inesistente; mi ritrovo con fogli, inviti, biglietti,
appunti, fiori e assaggini in mano e mi passano attimi di scoraggiamento, ma non
arrivo a pensare che vorrei cambiare idea, questo mai.
Tifa,
stai attenta lì, ti sono caduti tutti gli inviti, no aspetta, questo non va
bene, ma cosa, non si intona affatto, no, qui ci andrebbe il rosa, ma che
combini con quel velo? Oddio, scusa, ti ho punta con la spilla? Stai ferma però…
qui devo stringere, ti cade, e qui sopra invece ti va piccolo. Guarda, ha
telefonato quella tua amica, voleva sapere se… ha chiamato anche il gioielliere,
rispondi; hai parlato con Yuffie? Ricordati di dire a Cloud di venire domani,
sì, quello te lo aggiusto io, no, devi passare lì per l’ordinazione, sicura che
ce la fai a fare tutto?
Probabilmente
no, ma non sono preoccupata. E’ tutto un tran tran confuso, un rompicapo dalle
mille facce, ma alla fine, il risultato sarà ottimo, anche se pieno di sbagli,
andrà bene lo stesso. Poi, come in ogni periodo impegnato e pieno che si
rispetti, ci sono quei piccoli momenti che rimettono al mondo, come un bicchiere
d’acqua fresca dopo una lunga corsa. Non dovremmo stare qui a camminare
svogliatamente, ci sarebbero così tante cose per impiegare questo momento, ma lo
sento già riempito al massimo, so che non potrei fare altro che andare in giro
pigramente con Cloud appena pranzato, non esisterebbe nulla di meglio.
Lui
dice che stiamo “vagabondeggiando”, e io rido, convinta della stessa cosa; non
abbiamo una meta precisa, né vogliamo sceglierla, ci basta implicitamente
camminare fianco a fianco con i piedi bagnati dalle pozzanghere di neve sciolta.
E vedo di tanto in tanto il nostro riflesso nelle vetrine, lui che cammina
diritto e con lo sguardo basso perso nel vuoto, io, attaccata al suo braccio con
la scusa che poco prima sono inciampata, intenta a parlare. Parlo, parlo, parlo
e lui ascolta, un po’ in silenzio, un po’ rispondendo, un po’ ridendo. Mi
ritrovo a pensare che dobbiamo sembrare una normale coppietta a passeggio, e mi
dico che sono un stupida, perché in effetti lo siamo veramente, ma mi chiedo,
cosa abbiamo di normale noi? Siamo due semplici fidanzati? Probabilmente anche
noi pensiamo lo stesso di tutti gli altri, ma ci sentiamo speciali, forse perché
non siamo solo amanti, ma amici, fratelli, punti di riferimento l’uno per
l’altra; e le altre coppie penseranno di essere speciali a loro volta perché
avranno qualcosa loro soltanto che noi non vediamo.
E
noi? Cos’è che abbiamo noi due esclusivamente?
I
nostri ricordi, probabilmente, belli e brutti. Un lupo d’argento con un
cerchietto tra le fauci, un anello per me e una spilla per lui. E’ veramente
solo questo, l’essere speciale? Cosa c’è, oltre gli oggetti, i pensieri, la
fiducia e l’amore?
Non
lo vedi Cloud, cosa abbiamo che gli altri non hanno?
Guarda,
è lì, davanti a te. No, non dentro
la vetrina che stiamo osservando, proprio lì, sul vetro. Vedi? Nel riflesso. Tu
guardi me e te a braccetto che chiacchieriamo, io vedo te e me fare lo stesso,
ma c’è qualcosa che io ho notato e tu no. Eccola, è dietro di te, all’altro tuo
fianco. Con quel suo vestitino rosa –ma non avrà freddo?- e il suo fiocco rosso
in testa. Ti sta così vicina, eppure tu non la senti. Osservo nelle nostre
immagini specchiate il mio sguardo che fissa il suo, e il suo rivolto verso di
te. Non li scorgi proprio, quegli occhioni verdi che ti fissano, Cloud? Forse è
anche meglio così. Per noi due, per te. Ma allora perché la
vedo
io e non tu? Ecco, ora ti ha sfiorato il braccio libero con una mano. Cos’è, ti
chiama, o vuole solo toccarti?
No,
Aeris, lascia stare, non ti sente. Lascia stare
gli
faresti male, ci
faresti male. Ormai è passato, sì, ma io sono pessimista, penso che possa sempre
tornare. E io non sono come te, sono gelosa.
Dai,
Ae, lasciamelo.
Torna
al tuo posto, nei fiori, nell’aria, nell’acqua, nel pianeta. Abbandonaci al
nostro vivere, al nostro amarci, al nostro ricordarti finalmente in pace, senza
voltare le spalle a nascondere la lacrime, senza scappare. Magari un giorno
riusciremo a parlare di te normalmente, sempre con una nota di tristezza e
nostalgia, certo, ma prima o poi ti racconteremo ai nostri figli, sarai la loro
eroina delle favole, quella che ha salvato il mondo e ha permesso loro di
nascere.
Altrimenti
non saremmo qui, giusto?
Su,
distogli quello sguardo.
Cloud
mi tira un po’ il braccio e lo assecondo nel voler continuare la passeggiata,
lancio un ultimo sguardo alla vetrina, e vedo la tua immagine che riprende a
camminare accanto a noi.
Act.5_
Real Spring
Com’è
bello il mio vestito bianco.
Per
tutta la giornata, incredibilmente, è stato questo il mio pensiero ricorrente.
Mentre ero seduta, ne osservavo le pieghe, simili a onde sulla superficie della
stoffa, poi la sensazione delicata del fruscio intorno alle gambe quando
camminavo, i lievissimi brividi di freddo sulle spalle scoperte ed esposte alle
leggere correnti. Ho seguito con le dita il ricamo delle perline sulla gonna
fino a farlo diventare un gesto istintivo e quasi nervoso, imparandone a memoria
ogni curva e ogni abbellimento, dai complicati intrecci alle spirali decorative,
ho notato
che
ogni tre perline bianche se ne alterna una leggermente più rosa, di una
sfumatura molto pallida. E le curve formate dai ripieghi che sfiorano quasi
terra, io passo e ripasso con le mani sulla stoffa come a lisciarle, ma
solamente per il piacere di vederle tornare posto, il tessuto che scivola su
se stesso in eleganti curvature.
Solo
in un momento ho alzato gli occhi verso la realtà che mi circondava, staccandoli
a fatica dai sentieri di ricami. Nell’unico attimo in cui mi si chiedeva di
confermare la mia scelta, di prenderla e accettarla come sinonimo di futuro,
pronunciare il consenso alla promessa che d’ora in poi condividerò con l’uomo
che solo per un istante sono riuscita a fissare, un solo unico sguardo in cui ho
visto il suo finalmente accendersi, così differente da come era in passato, e ho
sentito il fiato che mi si bloccava nel petto, l’aria non entrava più nei
polmoni e per un momento ho creduto che non sarei stata capace di affermare la
mia risposta. L’ho detto in un soffio, il mio sì, guardandolo negli occhi con le
gambe che tremavano e rischiavano di cedere, per poi abbassare nuovamente
l’attenzione sulle perline, nella sicurezza di quella piccola ossessione che mi
ha restituito la calma necessaria per reggermi in piedi, fino a che alle mie
orecchie non è arrivato il suo sì, pieno di sicurezza e determinazione, e la
vista dei miei ricami si offuscava di lacrime finché non riuscivo ad osservare
altro che l’immagine sfocata delle mie dita tremolanti.
La
giornata ormai è finita, comincia a fare buio e questa aria sta diventando tenue
di freddo, timida primavera che si nasconde al calar del sole. Potrei alzare gli
occhi, ora. Mi bruciano, a forza di tenere l’attenzione concentrata su questi
piccoli particolari, ma faccio comunque fatica a distoglierli. Ho paura. Paura
che se guardo avanti vedrò cose troppo nuove e troppo sconosciute, o anche paura
che sia tutto un bel sogno, ho timore di non essere una persona abbastanza forte
da reggere tutto questo. Il peso è così schiacciante, e allo stesso tempo così
piacevole. Liscio nuovamente la gonna con le mani, saggiandone la morbidezza e
la fluidità, e un nuovo particolare porta via la mia attenzione dai ricami.
L’anello che circonda il mio dito, così freddo e così bruciante alla stesso
momento. Il mio guinzaglio, la mia gabbia, d’ora in poi. Anello, freno della mia
libertà e delle mie azioni, promemoria della parola data da rispettare da qui
per sempre, passando sopra ad ogni altra cosa, persino a me stessa.
Dio,
questo modo di perdere la libertà è terribilmente bello.
Sento
la sua presenza vicino alla mia, il suo braccio intorno alle spalle che mi
stringe, e finalmente riesco ad alzare gli occhi per guardarlo. Pensavo di
vederlo cambiato, credevo che d’ora in poi, il fatto di poterlo chiamare
“marito”, avrebbe rivoltato qualcosa, che avrei visto nei suoi occhi un uomo
nuovo ancora tutto da conoscere, e ho preferito guardarmi il vestito tutto il
giorno piuttosto che dargli una sbirciata per vedere se la mia supposizione era
esatta. Ero troppo spaventata, e non potevo accertarmene. Quanto mi
sbagliavo.
Cloud
è sempre Cloud.
Ora,
semplicemente con un aggettivo in più davanti al nome. Mio. Il mio Cloud. D’ora
in avanti, solo e soltanto mio, niente e nessuno potrà togliermelo dalle braccia
e se dovessero provarci difenderò il mio possesso con le unghie e con i denti.
Ed io sono sua solamente, forse il mio nome è cambiato un po’ di più rispetto a
quello di lui, ormai Lockheart dovrà essere solo un ricordo, sarò una Strife,
con tutto quello che l’appellativo comporta. E pensandolo, sento che comunque,
qualcosa dentro di me, continua a ridermi addosso. Voce, voce sconosciuta di
un’altra Tifa, che poi sono sempre io, la mia paura, la mia pazzia.
E’
tuo. Ne sei proprio sicura?
Certo
che ne sono sicura, mi basta abbracciarlo, mi basta lasciarmi abbracciare. Non
sta cingendo me? Non gliel’ho infilato io, l’anello che ora porta al dito? Non
sono rivolti a me, tutti questi mormorii, questi baci che ora mi sta regalando?
Sì, lo sono. E lui è mio. Però, non avrò mai l’esclusiva della sua vista, non ci
sarò solo e sempre io a guardarlo.
E’
così semplice, così irritante. Abbraccia me, e io, con la testa appoggiata sulla
sua spalla, posso vedere quello che lui non vede, la ferma consapevolezza solo a
me conosciuta che non sarò mai la sola al suo fianco.
Perché,
perché un vestito nero? Questa giornata non è di lutto, non è di tristezza.
Perché indossi un abito così scuro, così sobrio? Non vedi il mio, come è
candido, come riluce sotto i raggi della luna che sta sorgendo? Dovresti essere
abbigliata in modo molto più allegro, oggi per noi è un giorno felice, dovresti
esserlo anche tu con noi. Sei stata la nostra silenziosa e invisibile testimone,
è davanti ai tuoi occhi e al tuo permesso che siamo sposati. Non sai che i
vestiti dei testimoni dovrebbero circondare quello della sposa come petali
intorno al bocciolo di un fiore? Invece i nostri sono così divergenti e opposti,
ora. Una volta tanto
io
in completo chiaro e tu in scuro.
Sei
vestita come una vedova, Aeris.
E’
normale, hai perso il tuo uomo. Vorrei dirti che non è mica morto, ma so che se
lo fosse tu saresti quella in bianco ed io quella in nero. I vivi stanno con i
vivi, Ae. Lui ha scelto la vita, non l’attesa della fine. Mi piacerebbe anche
dire che ha scelto me, ma sarebbe una stupidaggine, c’era poco da scegliere, ero
l’unica presente, ero l’unica in carne ed ossa. Non ci si sposa con un fantasma,
non si possono avere figli da un fantasma. In questo, io sono sicuramente più
adatta di te.
Sei
bellissima, sai?
Il
nero ti dona, ti fa sembrare ancora più snella di quanto tu non lo sia, e i tuoi
occhi verdi spiccano come smeraldi. Però, davvero, non è il tuo colore. Dovrebbe
essere il mio, come ora mio è Cloud. Smettila, Aeris, smettila di tentare di
portarmi via ciò che mi appartiene di diritto, smettila di fissarlo e di
seguirlo, lui si è perdonato, perdonati di averlo lasciato tu stessa, e falla
finita una buona volta.
Chiudo
gli occhi. I miei ricami sono stupendi, Cloud mi abbraccia e mi bacia dopo
essere diventato mio marito. Ecco, questa è la realtà.
Qui,
Aeris, non puoi arrivare.
Act.6_Hot
Embrace
Sto
impazzendo.
Cloud
ancora non se ne accorge, io me ne sono resa conto da poco. Sento la follia
avvolgere i suoi robusti tentacoli attorno alla mia lucidità, i miei sogni e la
mia vita si mischiano e non riesco più a distinguere il reale dall’immaginario,
vedo ciò che nessun altro vede e non capisco se quella matta sono io o lo sono
tutti gli altri che mi circondano.
“Cloud,
lì nell’angolo non c’è nulla?”
Mi
stringo contro di lui, strizzando gli occhi, per vedere meglio nell’ombra di
quell’angolo, arrampicandomi sul divano per avvicinarmi, e poggio la testa sulla
sua spalla.
“No,
amore. Perché?”
Alza
gli occhi dal giornale che sta leggendo, fissa il punto di cui gli ho parlato e
guarda me, preoccupato. Leggo facilmente nei suoi occhi lo stupore e la
curiosità, perché lui, quell’angolo lo vede vuoto.
“Niente,
niente. Sarà stata un’ombra”
E
scorgo anche tra le sue iridi una nota di ilarità, da quando in qua ho paura
delle ombre? Ed io non ci faccio caso, mi attacco ancora più forte al suo
braccio, quando lui torna al suo giornale il mio sguardo lo scavalca e scivola
di nuovo verso quel punto. Un’ombra, già. Lì, stagliata sul muro, l’ombra di una
donna. La vedo solo io Cloud, sono pazza. La vedo muoversi lentamente sui muri,
scura e densa, la treccia che ondeggia sulla schiena e il vestito che fruscia
tra le gambe. Non ho paura delle ombre, non ho paura di lei. Ma aspetto, ormai è
un’infinità di tempo che lo faccio, sto ferma accanto a mio marito attendendo il
momento in cui la vedrò uscire dalla parete e tentare di afferrarlo. E sarò
pronta, sarò la silenziosa guardia del corpo che lo protegge dal quella mano
invisibile. Farò la guardia, giorno e notte, ormai ho imparato ad avere il sonno
leggero per controllare; le braccia intorno al corpo di Cloud, per sentire i
suoi movimenti. E continuo a sussurrare pianissimo quanto lui sia mio, e che
deve rimanere tale, sobbalzo ad ogni rumore e starnutisco per il costante odore
di fiori che sembra riempire la casa anche se non ce ne è nemmeno uno.
Così
passano i miei giorni, avvolti nella continua, impalpabile angoscia, il tempo al
bar lontano da lui che mi sembra interminabile, la rabbia al pensiero di quella
mano che si tende oltre la parete della realtà e il terrore che lui decida di
afferrarla; sarebbe per me un tradimento impronunciabile. Ora è buio, il
giornale giace in salotto, abbandonato nel momento in cui io ho cominciato ad
essere troppo vicina per passare indifferente, così, mezzi nudi per il caldo
afoso dell’estate ormai esplosa, rimaniamo immobili. Lui già dorme, calmo come
un bimbo, con la testa appoggiata sulla mia, ed io, con gli occhi semiaperti,
poggio un braccio sul suo petto e con l’altro gli circondo il collo. Sento nel
silenzio il ticchettio regolare dell’orologio, e il respiro ritmico e sereno di
Cloud che mi sfiora l’orecchio.
Fa
un caldo terribile. Troppo per stare così abbracciati. Ma non mi smuoverò, per
la semplice idea suggeritami dalla mia pazzia ormai dilagante. Non potrebbe
essere lei, ad indurre il Pianeta a scaldarsi così tanto, per farmi muovere, per
distrarre la mia costante vigilanza? Che pensiero idiota, ma così infimo, così
viscido che si insinua dentro di me come un batterio, fino a farmici credere
veramente. E quel dannato orologio che mi da il nervoso, sembra una fastidiosa
ninna nanna per farmi assopire, ed io ho così tanto sonno da avere la
nausea.
Tic-tac.
Tic-tac.
Il
mio respiro, contrariamente a quello di Cloud, è corto e affannato, non riesco a
prendere aria per l’atmosfera grondante di caldissima umidità, sento la pelle
sciogliersi in sudore, le lenzuola mi si attaccano addosso. Il desiderio di
voltarmi e cercare un punto del letto più fresco, di scollarmi di dosso anche il
calore del corpo di Cloud è fortissimo, in questo momento odio a morte i miei
capelli lunghissimi che mi coprono la schiena come una coperta pesante. Vorrei
spostarli, ma dovrei sollevare una mano da Cloud, e non se ne parla. Lo so, lo
so, basterebbe un attimo di distrazione, voltare lo sguardo per un momento per
poi tornare a guardare e non trovarlo più. Sposto solo di poco il mento, e apro
gli occhi completamente, tentando di non far abbassare le palpebre, fisso la
parete davanti a me.
Vieni,
vieni pure avanti.
Io
sono qui, sono sveglia e sono pronta. E tu sei una vigliacca, te ne stai ferma
nelle ombre, ti vedo camminare
avanti
e indietro, i tuoi passi hanno lo stesso suono delle lancette dell’orologio,
sento il profumo di fiori crescere fino quasi a diventare insopportabile. Sto
altrettanto immobile, come un predatore notturno nella foresta, a fissarti
nell’oscurità, pazientemente.
Tic-tac.
Tic-tac.
Silenzio.
Lancette. Il respiro mio, corto ed affrettato, e quello di Cloud, calmo e
profondo. E tu? Tu non respiri. Devo reprimere un sorrisetto di superiorità, per
questo; superiorità a cosa, poi, non lo so, ma il fatto che non si sente alcun
suono provenire da te è un punto a mio favore, almeno credo. E’ lapalissiano,
eppure. Io respiro, Cloud respira. Tu no. Dovrei convincermi di questo, tu non
esisti, ma la tua ombra sul muro è precisa nei tuoi tratti inconfondibili, i
tuoi movimenti sono così realistici. Sono io, quella pazza che ti vede, è Cloud
quello pazzo che non lo fa, o sei tu, quella pazza che non accetta di non
respirare?
Chiunque
di noi sia il visionario, però, il fatto rimane uno.
Lui
è mio.
E’
mio, Aeris.
Tic-tac.
Tic-tac.
Anche
se il caldo sta diventando insopportabile, e sento il suo corpo umido e
incandescente, anche lui rimane immobile, a bruciare nel mio abbraccio.
Act.7_Cure
Tutto
questo è insopportabile.
La
sento, giuro che la sento. Ma quando mi volto non la vedo più. E’ assurdo,
impossibile. Potrei giurare di aver appena sentito la sua voce, eppure…Siamo
soli, io e Cloud. Questa casa all’improvviso mi sembra troppo grande e troppo
vuota, è così piena di echi senza voci reali, e così silenziosa al tempo stesso.
L’ho sentita, lo assicuro. E istintivamente mi avvicino in modo impercettibile a
Cloud, mentre affetto una zucchina, sento quasi di avere un sesto senso che mi
permette di vedere oltre la schiena.
“Vuoi
che ti aiuti?”
“No…”
rispondo in modo assente.
Dio,
lui mi ama così tanto e io… io sono terrorizzata che possa ricordare di come era
prima l’amore per lui, e che possa trovarlo migliore di questo, che possa
sentire questa voce melodiosa che si espande come un eco e seguirla incantato.
Trattengo un sospiro che lo farebbe sicuramente preoccupare, e continuo a
tagliare la verdura, lentamente. Potrebbe sembrare tutto così calmo, tutto così
perfetto. No, Cloud? Hai una brava mogliettina che ti prepara la cena, tenendo
sempre conto di quello che ti piace mangiare, che non ti da troppo fastidio e sa
come consolarti quando sei giù. Hai una mogliettina che ti adora da morire, che
per te farebbe qualsiasi cosa. E ti ama talmente tanto che non riesce a
staccarti gli occhi di dosso, che impazzisce al pensiero che qualcun'altra possa
guardarti o sfiorarti.
Sono
gelosa, Cloud.
E
non capisco se sia questo che mi da alla testa, o se quel che vedo non è solo
frutto della mia fantasia furiosa e maniacale. Ma penso solo che, oltre alla mia
ossessività, ci sia anche la paura di vederti di nuovo distrutto e ferito, di
crollare insieme a te in quell’abisso di silenzi e lacrime nascoste da cui siamo
usciti da poco tenendoci per mano. Se la lasci ora, Cloud, ti perderai, io mi
perderò. Siamo la bussola l’una per l’altro, non valiamo nulla divisi. Forse
però per te la tentazione di affogare di nuovo sarebbe troppo grande, troppo
irresistibile, e io non sarei che una inutile catena a sbarrare la strada, che
tu non faresti fatica a togliere. Non voglio essere sola, non voglio essere
accantonata per una visione, per un senso di colpa, per il ricordo di un amore
che non troverai in nessun altra.
Mi
volto e gli lancio uno sguardo, rimango pietrificata.
Presa.
Sento
il calore della vita e l’energia scivolare via dal mio corpo, come liquido
impalpabile, il sudore provocato dal caldo diventa ghiacciato e la mia pelle si
ricopre di brividi. Quella voce, quella dannatissima voce che cresce fino a
perforarmi i timpani e l’odore dei fiori così forte e dolciastro da essere
nauseabondo. Ora sì che la vedo, e i colori dei suoi vestiti, dei suoi capelli,
della pelle delle sue mani così candide, sono accecanti e incandescenti, emanano
una luce strana, per nulla chiara, ma forte e decisa, che mi da fastidio agli
occhi. Vorrei avanzare, correrle addosso, urlare, ma riesco solo a rimanere
immobile, folgorata, a riparami gli occhi con una mano da quel bagliore.
Non
lo toccare.
Devo
farcela, devo urlarlo, lei non mi sente, gli è già addosso, gli ha posato le
mani sulle spalle, e gli parla nell’orecchio, canta una nenia come fosse un
incantesimo per addormentarlo e rapirlo nei suoi sogni, e sono sicura che fra
poco lo vedrò alzarsi e seguirla stupito, dimenticando me e tutto ciò che mi
riguarda. Sono bloccata da freni invisibili e inamovibili, ma è troppo forte il
dolore, troppo forte l’amore che ho per lui, troppa la gelosia, per lasciarlo
andare. Con le braccia e le gambe che mi sembrano infilzate da mille pugnali,
riesco a scattare in avanti, urlando come assatanata, per quei pochi passi che
mi distanziano da lei. Vorrei spingerla, così forte da farla volare via fino
all’altro mondo dove dovrebbe essere, ma lei non esiste –Dio, come ho fatto ad
essere così stupida a pensare di poterla toccare?- e le mie mani non afferrano
che il vuoto assoluto, poi il pavimento freddo. Tento di rialzarmi, non ci
riesco, continuo ad essere bloccata, le mani di qualcuno che non vedo mi tengono
le braccia, e io urlo, urlo, urlo, me lo sta portando via, lui è mio, non può
farlo, non potete farmi questo, lascialo andare, lascialo vivere, non prenderlo,
è mio, mio, mio, solo mio…
Grido
il suo nome, Aeris, veleno tra le mie labbra, le dico di non farlo, ma lei non
ascolta, è sorda alla mia voce, ceca alla mia patetica vista. Più forte, urlo,
più forte; deve sentirmi, non posso perdere così, non voglio perderlo, e lei,
finalmente si volta verso di me. Non vedo più nulla, solo lei.
Dio,
come è bella.
Dio
come sono piccola, inutile e brutta davanti al suo cospetto.
Chi
sono io per combattere qualcosa del genere?
Riderei
di me stessa, se potessi. E invece riesco solo a rimanere sconvolta e accecata,
lei che mi fissa, finalmente si accorge anche di me, senza sfumature nello
sguardo, fredda e perfetta; ha un unico difetto, e quando lo noto mi gira la
testa per la nausea e rischio di svenire. Nella sua pancia, a rompere il
perfetto equilibrio, vedo il taglio della spada ancora fitto di sangue, talmente
preciso che riesco a vedere uno scorcio di quello che c’è oltre di lei, la
sfocata parete bianca attraverso quel foro che diventa rossa del suo sangue. Si
china, mi sfiora con una mano e si rialza lentamente, voltandosi con calma.
Torna a prenderlo. E io continuo ad urlare, ma ormai non mi ascolta più, porto
una mano sulla spalla, nel punto in cui mi ha toccata, e la sento umida, così la
guardo e la vedo piena di sangue, del suo
sangue che mi ha lasciato addosso. Le mie grida si spengono, non ho più voce,
non ho più forza, non ho più nulla, ho perso.
L’ho
perso.
Me
l’ha portato via, non vedo più niente, è scomparso tutto.
“TIFA!”
Come
un’improvvisa boccata d’aria, torno di nuovo in vita, vedo la cucina sfocata
diventare sempre più chiara e poco a poco i tratti del viso di Cloud si
precisano davanti ai miei occhi. Mi stinge, fortissimo, io sono a terra, sento
ancora la mano bagnata di sangue, e mi fa un male cane, sto piangendo e non so
nemmeno quando ho iniziato a farlo.
“Che
ti prende?” mormora lui, con voce roca “Che cos’hai,
Tifa?”
Come
che cos’ho? C’è da chiederlo? Eccola, è ancora lì, ci guarda da lontano, è
tornata nella parete, i suoi colori sfavillanti si scuriscono tornando ad essere
ombra, i suoi lineamenti si confondono con la parete, ma riesco ancora a sentire
i suoi movimenti e a vedere il suo viso. E Cloud è ancora qui, allenta un po’ la
presa e mi guarda, scostandomi i capelli dal volto, io non ce la faccio ad
alzarmi.
“Che
cos’hai?” ripete nuovamente.
“Aeris…”
confesso tra i singhiozzi, nascondendo il volto contro il suo petto, dopo aver
accennato al muro.
“Cosa…?”
Si
volta verso il muro, poi si gira di nuovo e mi fissa. Lo ha preso ormai, anche
se non può vederla. Io non l’ ho protetto, non sono stata capace di difenderlo,
ora la sua mente e il suo cuore andranno lentamente all’indietro, tornando a
lei, lo so. Non riesco a smettere di piangere, mi fa tutto male, sono a pezzi, e
mi stringo contro di lui, tenta di allontanarmi ma non glielo permetto. Rimarrai
fino all’ultimo Cloud, ti tratterrò fin che posso. E ci riesce dopo un pò, non
ce la faccio ad oppormi ancora, mi stacca da lui e mi guarda negli occhi.
“Tifa…
non è possibile. Aeris è morta” dice con calma.
E
io sussulto, spalanco gli occhi, smetto di respirare.
Allora
è vero, sei guarito, Cloud.
Tutto
quanto all’improvviso cessa di essere sfocato, lentamente, sposto lo sguardo
verso la parete. L’odore di fiori è scomparso, e sento il silenzio assoluto
regnare in casa. Non c’è più. Mi guardo la mano, è piena di sangue, al centro
del palmo c’è un lungo taglio orizzontale che mi brucia come fuoco, e a terra,
vicino a me, il coltello con cui stavo preparando da mangiare.
Respiro.
………
Morta.
E
noi, noi siamo guariti.
So
che è un’idea assurda, ma è nata con la premessa di essere una Cloti dedicata ad
Aeris. Forse perché poi alla fine non la odio così tanto, e perché comunque
credo che rimarrà sempre nella nostra immaginazione. Forse Tifa ha fatto la
figura della pazza scatenata… mi scuso se i personaggi sono un po’ OOC e spiego
che l’AU serve sostanzialmente a spiegare la scomparsa di Denzel e Marlene.
Grazie
infinite a tutti quelli che hanno letto, a chi verrà voglia di commentare e a
Lennie, la mia fidata beta.