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Autore: _bucchan    01/01/2013    3 recensioni
Una crocina d'oro e granati color sangue, rosario privo di grani.
E di che narra, questa crocina?..
Adesso racconta tu, Austria.
Come quell'agognata licenza ti fu negata; di quella scheggia, quel dito di piombo, che ti si conficcò nella schiena; come il martirio del tuo corpo si intrecciò inestricabilmente al disastro del tuo Impero e a quello, tuo personale, del tuo matrimonio, producendo una miscela esplosiva. Delle tue mani, insensibili e fredde, premute sulla tastiera del pianoforte da qualcun altro, immote, come gusci vuoti…
Guardate la potenza dell’Impero Asburgico! Lo vedete, laggiù, arrancare al tavolo dei vincitori, spingendosi sulla carrozzella, e quel qualcuno, comodo e sbuffante, spostare la sedia per fargli un po’ di posto?.. Ascoltatelo; l’Austria chiede di morire!..
Da un’idea di Himaruya.
[Generi principali: Angst – Generale - Storico]
[Altri: Romantico – Giallo – Introspettivo - Slice of life – Guerra – Malinconico – Satirico - Drammatico]
[Presenza di OC; presenza di personaggi storici, artistico - letterari, politici]
[ATTENZIONE: trattazione di tematiche molto pesanti, presenza o accenno a eventi storici tragici
FANFICTION SERIA. Le ideologie espresse o incarnate dai personaggi non riflettono in alcun modo quelle dell’autore
Rating e alcune caratteristiche potrebbero mutare.]
[Collegata a ‘La mano tedesca vicino’ e ‘Ostmark'.]
Genere: Angst, Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Nuovo personaggio, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Un po' tutti, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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WIEDER

 

Materialschlacht – Parte Prima (Prologo: Il canto delle sirene)


“Oh, sta attento adesso, è il turno della testa di quel morto calvo dannato su cui si casca sempre.”

“L’ho vista!..”

…Dopo averci inciampato. La cassa si sbilanciò, perdendo parte del suo prezioso carico. Una bottiglia di cognac finì in grembo a un soldato, che attaccò a ridere, declamandone la “pregiata” etichetta ad alta voce, e sghignazzando al desiderio di scolarsela tutta. Ma il primo portatore gliela strappò di mano, tirando uno scappellotto al suo compagno, che si protesse il viso con le braccia.

“E-ehi!”

“Cretino!” sbraitò l’altro; “e se quella era una bomba a mano? Roba da saltare per aria tutti quanti!”

“Pericoloso, vero? Qualcuno dovrebbe provvedere e mettervi un cartello.” Così intervenne il soldato seduto a terra, ancora ridacchiando. “ATTENZIONE: CADAVERE SPORGENTE.”

“Ma la fronte di quel dannato, si sarà bella che demolita, no?, a forza di calci, ogni volta che qualcuno passa da qui! Non possiamo sradicarla una volta per tutte?”

 “Eh no, s’è fatto l’impasto col fango, ormai ci vorrebbe una mina per levarla, come il Col di Lana…”

“Avanti, voi! Poche chiacchiere!” li riprese un caporale stanco, sbuffando sotto i giganteschi baffoni asburgici, e il corteo, borbottando, riprese il suo andare.

Strano, quel corteo, ma comune nella Monarchia in quell’ora d’urgenza. Esso era composto di quattro uomini, a due a due, come per una processione funebre, ma che portavano delle ceste da fruttaioli sul capo o sulle spalle. Essi percorrevano quel medesimo tragitto, ma lenti e gravi, e quello davanti si sporgeva col viso dal bordo della cassa a ogni svolta, guardando dove affondare il piede, barcollando col loro prezioso, desiderato, bestemmiato carico.  A ogni capannello di soldati posavano giù le ceste, e si fermavano; distribuivano bombe a mano o bottiglie di cognac; in entrambi i casi, tuttavia, la messe era assai scarsa.

Accucciato nella fanghiglia rossa, accanto a Roderich che invece stava in piedi, un giovanotto dai baffi flosci e i gradi di tenente non faceva che tossire, bagnando il suo fazzoletto di bava sanguigna. Il suo predecessore era stato troncato da una granata primaverile e lui, due mesi più tardi, già agonizzava. Povero, povero Max Tauber che aveva vent’anni! Si era esposto alle nevi del Carso, lui, avvezzo alle amene vallate di Linz, troppo presto e avventatamente. Roderich abbassava lo sguardo su di lui quand’egli tossiva troppo forte, gli occhi lacrimanti, bramando la pace del suo oppiaceo e della nuda terra che graffiava con le dita. L’inizio dell’offensiva di Cadorna lo colse così, e soffocò in lui i conati di vomito; lo fece balzare in piedi, pulirsi la bocca, e levare gli occhi al cielo, le pupille dilatate e vitree, come quelle di un cieco.

I lampi avevano illuminato la vallata irta di reticolati dinanzi a loro, precedendo di una breve frazione di secondo l’arrivo dei primi proietti. Poi il frastuono assordante degli scoppi saturò la zona. I pochi spuntoni di tronchi sopravvissuti e i disgraziati sterpi che erano riusciti ad attecchire in quei pochi mesi di relativa calma presero fuoco; un violento boato, simile a un lungo tuono, percosse la terra sino alle radici. Il San Gabriele tremò, vacillando. Le terribili bombarde, entrate subito in azione, giunsero saltando gli inutili reticolati come di consueto, riducendo trincee e materia umana alla stessa poltiglia immonda. Il monte grigiastro e arido, percosso dal piombo come la pelle di un tamburo dal mazzuolo, tremava sotto i piedi degli uomini con frequenza paragonabile a quella di un terremoto e un boato familiare a chi si dimori nei pressi del campanone di un ossario. Ogni deflagrazione strappava via un frammento di viva roccia, ricavandone gli stridii che farebbe un vivo al quale i denti vengono frantumati ed estirpati uno a uno. Schegge e polvere di quest’ossatura primordiale infestavano l’aria, mista al piombo, ai resti delle fortificazioni divelte, ai brandelli di carne putrescente dei cadaveri gettati nelle doline, seppelliti nella sabbia, dimenticati, abbandonati nella terra di nessuno, inglobati dal fango, stratificati, sedimentati, fossilizzati, morti vecchi, morti nuovi, morti storici, morti freschi, morti sempre gli stessi, quelli che quel giorno erano in posizione avanzata e, adesso, erano andati a posare il cappello in retrovia, con tutto il cervello sotto. Non erano tutti colpi nemici, comunque. Si poteva udire distintamente, sopra alle loro teste, la risposta vigorosa di molte bocche da fuoco. Lassù Prussia, con il suo fido e fiero pulcino da compagnia appollaiato sull’elmetto a mo’di una gialla lente da puntamento, comandava le batterie, servendosi di un piccolo binocolo nero.

“Al ricovero, al ricovero!” gridava Austria a chi era ancora in grado di sentirlo. Tauber inciampò in un sasso e corse via, bestemmiando. Gli uomini lo seguirono con le ali ai piedi ma, ben presto, dovettero arrestarsi, stupefatti e atterriti. L’intero tracciato dei camminamenti era stato sconvolto e in parte aveva ceduto; gli altri, che erano corsi verso nord, verso il ricovero numero trentacinque, avevano avuto miglior fortuna.
Quattro o cinque ruteni, nati nello stesso paese, resi folli dal frastuono e dalla paura, si lanciarono allo scoperto e, come viandanti che, per salire un’erta troppo ripida, si aggrappano ai fusti dei rovi e dei mughi abbarbicatisi su di essa, e si graffiano sulle spine quando vacillano, essi si aggrappavano ai paletti dei reticolati, tendendo disperatamente alle postazioni d’artiglieria più in alto, alle sicure caverne; le loro povere mani si straziarono sulle spine, i loro passi folli li guidarono dove più fitti cadevano gli shrapnel.

Qualcuno accennava a seguirli.

“Fermi! Torniamo indietro!”

Tutti i vivi eseguirono l’ordine, come un gregge che le granate comandavano a suon di randellate.

Il comportamento degli uomini sotto un bombardamento è analogo a quello dei giocatori al tavolo verde. Alcuni corrono, a testa alta, fieramente e pazzamente, istintivamente avanzando, poiché ritengono che, se il destino ha disposto, la pallottola colga, perché chi tocca, tocca; altri si affacciano solamente all’agone, perché hanno paura, e rimangono acquattati; altri ancora, appellandosi all’esperienza, che gli darebbe ragione, si almanaccano in calcoli astrusi e astronomici, per indovinare il ritmo, il metodo, l’ordine di fuoco delle bocche e la gittata, per lambiccare previsioni dove cadrà la prossima bomba, e regolando la corsa in funzione di queste; e stanno poi i fortunati, i bari, pali, i gonzi e i biscazzieri disonesti.

Gilbird, sul casco chiodato del padrone, sobbalzava da una parte all’altra a ogni colpo, tornando sempre all’obice rovente al momento del rinculo e scattando immediatamente all’indietro quando si scottava piume e zampette.

Il bravo animale d’acciaio compiva il suo dovere; sparava a intervalli regolari di due minuti e mezzo contro le linee nemiche.

Il centinaio di metri (scarso) di fronte percorso all’inverso costò ai bravi uomini di Roderich una crisi di nervi. Le spirali e i pennacchi di fumi densi e acri, tossici e attossicanti, che si erano andati progressivamente addensando sulle alture e nella vallata riarsa avevano rapidamente avvolto la squadra, per non lasciarla più andare; la luce del sole era nascosta e solo i lampi delle granate squarciavano l’oscurità altrimenti fitta. Il caos era assoluto. Cannoni che continuavano a fare fuoco sempre nel medesimo punto; carni ancora vive e affumicate devastate dai colpi di bombarda; effetti personali dei più disparati; baionette annerite; soldati che, vinti da quelle micidiali esalazioni, vomitavano giallo; la terra stessa sgretolavasi sotto i piedi. Roderich si guardava attorno, invano cercando punti di riferimento; si erano smarriti!..

Ma superata una gobba di terreno, cento metri di camminamenti interrati gli permisero di procedere al coperto, fino all’ultimo crinale, non troppo ampio, ma le cui numerose rughe consentivano di immaginare qualche riparo. I capricci della morfologia, che occultavano parzialmente la zona alla vista degli obici, e l’imprecisione dell’artiglieria italiana che sforacchiava solamente qua e là, davano alla zona l’aspetto di una tranquilla isola in mezzo a un mare in tempesta, a cui i colpi giungevano attutiti e la caverna dei rincalzi era il faro luminoso. L’oscurità all’interno delle grotte era quieta e brulicante di forme, analoga a quella di una grotta marina. Mani amiche si agitavano festanti, richiamavano a sé gli uomini, come sirene, a cui gli sguardi degli uomini rispondevano famelici.

Gilbird si agitava, eccitato; Prussia restava invece, freddo e calmo e severo.

“Eeeeeeeh! Eeeeeeeeh!” così si sbracciavano gli uomini di entrambe le parti, saltellando, senza timore di rendersi visibili. Tauber, appena scampato a un attacco di tosse dirompente, non potendo far altro, agitava la mano col fazzoletto stretto in pugno, come una bandiera.

Il binocolo di Gilbert, lassù in alto, ebbe un riscossone.

“Correte, presto, prima che riprendano!” chiamavano le sirene nelle caverne, concitate.

In tre sfuggirono al controllo di Roderich e si lanciarono allo scoperto, tentando disperatamente di raccogliere il groviglio dei loro intestini, che rischiava a ogni momento di sbrogliarsi. Ma tutti e tre arrivarono, esausti, premendosi ai petti dei commilitoni che li accolsero, li soccorsero, li portarono dentro con loro.

L’impresa fu accolta da applausi e da espressioni di puro giubilo da entrambi i lati della spianata. “Hurrah! Hurrah! Presto, venite anche voi! Venite, venite!” continuavano le sirene a cantare.

Altri dieci uomini calarono così nell’agone e giunsero quasi a metà strada, ma poi non conobbero egual fortuna. Una scarica di granate e di granate-shrapnel piovve all’improvviso sul gruppo, falciandole la metà e ferendone gli altri. Un giovanotto dalle guance rosse ebbe un piede tranciato di netto e restò l’unico a ergersi ancora in piedi in tutto il pianoro; si appoggiò alla baionetta e, siccome aveva fatto solo pochi passi, risolse di tornarsene indietro, saltellando come chi tenti di recuperare una scarpa persa lungo il tragitto, in maniera quasi comica.

Le sirene intonarono un canto di dolorosa delusione, quasi si sentissero colpevoli di aver attirato tanti bravi giovani in quella trappola. Rimanevano ancora indietro gli ufficiali, un sergente pure ferito e altri cinque o sei uomini; ma chi avrebbe avuto il coraggio di uscire, adesso?.. i colpi seguitavano a cadere qua e là. Il giovanotto dalle guance rosse che giocava a campana aveva potuto tornare indietro, e, giunto dinanzi a Roderich, si era chinato per recuperare il sasso. Poi il pigmento rosso era scomparso dalle sue gote e di sangue, nelle sue canne vuote, non ve n’era stato più.

Le sirene della grotta continuavano a cantare, incitavano quelli rimasti a muoversi, che la salvezza era possibile, era a pochi passi, nemmeno un tiro di sasso, o di schioppo; che quelli avevano sì aggiustato il tiro ma fra poco avrebbero avuto un attimo di respiro, ché qualche animoso spirito era andato di caverna in caverna fino a mettersi in contatto con le artiglierie soprastanti, e aveva chiesto aiuto. Mani tese si allungavano fuori, si vedevano spuntare i volti dei rincalzi e di quelli, sporchi di fuliggine e spavento, che già erano riusciti.

“Avanti!” ordinò Roderich, spingendo per le spalle i primi due che gli capitarono a tiro; Tauber fece lo stesso con altri due; tutti uscirono, in ordine sparso, le schiene piegate in due, le pesanti baionette strette in mano; prima la truppa e il sergente, che ben presto rimase indietro, Tauber, da solo, per ultimo Roderich.

Una scarica piovve in mezzo a loro; il sergente scomparve; quattro uomini furono sbalzati dall’esplosione fin dentro le caverne, dove furono recuperati e poterono ringraziare Iddio per averli risparmiati.  Una granata cadde alle spalle di Roderich, producendo un’ondata di terriccio e di ghiaia, mista a schegge di granito, che quasi lo sommerse. Lo spostamento d’aria schiaffeggiò le sue lenti, che scricchiolarono, per poi andare in mille pezzi. Una scheggia, un dito di piombo, come un pugnale, gli si conficcò nella schiena, trasversalmente, mutilando la carne come avrebbe fatto una potente sega dentata, la quale rallenta, ma continua a girare, arrestando la sua corsa in corrispondenza della colonna spinale. Roderich sentì le vertebre frantumarsi; la muscolatura dilaniarsi, i tendini tagliarsi; le cartilagini strapparsi, le vene mozzarsi, pendere dalla carne; le guaine dei nervi spinali di trasmissione fendersi, ed essi stessi tranciarsi; il midollo schizzò in giro e il suo materiale spugnoso imbrattò l’interno della divisa, insieme agli zampilli di sangue e ai fluidi. Altre schegge, più piccole, bersagliarono le sue cosce e i suoi glutei; sassi, ghiaia e fango viscoso lo ricoprirono per metà, stritolandolo sotto il loro peso. Era caduto poco lontano dalla sua meta, a faccia in avanti, le mani, contratte, dinanzi al volto, e poté guardare i palmi aperti e formicolanti e il sangue che scorreva nelle venature; e siccome non capiva se questo accadesse per lo schiacciamento del suo corpo sotto il pietrame o per la ferita e di quale entità essa fosse, che egli non riusciva a vederlo da quella posizione, giacché vedeva soltanto le mani innanzi a sé, e queste non si muovevano, se non appunto per quell’incessante, ossessivo tremore,  più che per la paura e la sorpresa, che per il dolore in se stesso, esplose in un grido disperato, straziato e impaurito, che terminava in un lungo gorgoglio, simile a un rantolo. Tutto il suo corpo iniziò a intorpidirsi, il sangue, nelle venuzze, a formicolare. Il suolo tremava ancora sotto di lui, ma non l’avvertiva, giacché i fremiti che tremolavano la sua colonna vertebrale e i suoi muscoli erano avvertiti solo da un certo punto in avanti, e dal suo mento, puntato nel terreno, ancora per poco però, poiché un velo purpureo velava i suoi occhi come una seconda palpebra. Miravano con nostalgia l’utopica meta della grotta, le sirene ancora cantavano, apparivano e scomparivano sopra i flutti viola barbuglianti e s’assopì, perché il peso dell’elmetto si era fatto insostenibile e il capo, gravato dalla calotta metallica, brulicava di forme ronzanti, come fosse diventato un alveare…

Le dita non si mossero più e le sue labbra dovettero baciare la terra. Gilbert si staccò dall’obice rovente, nascondendosi alla luce dietro la sua massa nera e s’accese una sigaretta, in silenzio.

 

Il suolo aveva ricominciato a vibrare più forte, proprio vicino alla sua faccia. Sbattè le palpebre, perché era caduto con gli occhi aperti,e fissò nelle pupille l’immagine di uno dei suoi uomini, non una sirena, un ausiliare croato, giovanissimo, arrivato sul San Gabriele da appena tre giorni e che, per primo, fra quelli mandati ad aiutarlo, era arrivato da lui e che ora ristava, attonito, di fronte allo spettacolo di nulla che si gli si prospettava di fronte. Lo sguardo di Roderich potè vedere alle sue spalle; gli altri, con una barella, erano ancora un po’ lontani, lui era stato il più veloce.

Lo guardò e, con quelle quattro parole di croato che masticava, cominciò a spiegargli come doveva fare; staccarsi la cinghia della baionetta dalla spalla, innanzitutto, poi pescare una cartuccia dalla fondina o dalla scatola dove le teneva, caricare l’arma, prender bene la mira, far fuoco, e tornarsene presto al sicuro, lassù, fra le sirene; che tanto lui era una Nazione, e il suo corpo mortale effimero e passeggero; che mutare quel vestito, ora che esso era lacerato e pressochè distrutto, era conveniente più che rammendarlo ( e lui, avaro com’era, lo sapeva bene quando un vestito conveniva rattopparlo o rivoltarlo e quando invece era inutile ed era il momento di investire quelle stesse forze per comprarne uno nuovo, quando un’appartamento conveniva ristrutturarlo e non demolirlo per rifondarne uno più moderno); un vestito, un edificio fatto di terra, e determinato dai confini che lo racchiudevano e ne fissavano immagine ed essenza, attribuendogli una precisa identità contro il nulla ingenerato e confuso; sì, che esistesse quello!, e lui avrebbe sempre potuto indossare dei panni; che esistesse quello!, e lui, prima o poi, sarebbe tornato, sotto medesime sembianze, coi medesimi pensieri e abitudini – perché quella era l’Austria, quella la sua conformazione morfologica, quelle le genti che l’abitavano, e lui, lui in persona, era l’immagine complessiva e allo stesso tempo tessera particolare di quell’immenso, variegato mosaico…. Ma Roderich non sapeva esprimere concetti sì nebulosi in croato, pur sforzandosi immensamente, continuava così a cianciare in un creolo inesistente e sconosciuto, croato-bosniaco-sloveno-tedesco austriaco, e il ragazzo continuava a fissarlo, istupidito, cercando di cogliere, visto che non capiva quelle parole, il senso che stava dietro ad esse; ne coglieva l’intonazione, il tono, la cadenza; osservava i gesti contratti del volto mentre il ferito le pronunciava, le ripeteva, si sforzava di ricercare altri termini, ogni volta più concitato; vedeva un ufficiale ferito, sepolto dal terriccio, bisognoso d’aiuto insomma, che continuava ad esortarlo a fare qualcosa; credette di capire; abbozzò un sorriso. Avvicinandosi lentamente, per non spaventarlo più di quanto già non fosse, si chinò su di lui, iniziando a scavare con le mani, lo sentiva intanto ripetere quelle stesse parole, segno inequivocabile che doveva star facendo bene, e intanto gli altri stavano per arrivare, Roderich ancora insisteva, cercava di impedirgli, ma quel ragazzo era ostinato, quello sciocco!, e oramai gli altri erano quasi arrivati, tentava ancora di insistere, debolmente, poiché non poteva muoversi, né alzare le braccia per bloccarlo… e niente, ormai la barella era lì, ce l’avevano fatto, era dei loro.

Essi aiutarono la recluta ad estrarlo dai detriti, e lì gli prestarono le prime cure; l’ausiliare medico, premuto per le braccia da Tauber che, fra un accesso e l’altro, gli gridava nelle orecchie, nettò le vertebre scoperte dal siero giallastro inquinato strofinandole con quel tessuto ruvido, come avrebbe fatto con l’argenteria di casa propria.

Nella grotta, le sirene attorniavano la barella nonostante i ripetuti inviti a farsi da parte, molte imprecando rabbiose, le più semplicemente assuefatte, alcune intonando il loro canto di prefiche.

“Poveretto!”

“Stessa sorte per i suoi uomini!.. ne sono morti la metà!..”

“Poveri le nostre carni di soldati!.. Dove andremo a finire, se questa guerra non cessa?”

“Ma chi tirava, chi, io dico, che gli italiani non possono farcela con quell’inclinazione di tiro!..”

Alla massima velocità, era stato buttato al posto di medicazione, doeva avevano tirato via un altro poveretto che, ferito all’addome, aveva meno probabilità di campare del nuovo arrivato, e ci avevano messo lui.

“Eh!, Dio lo sa, chi tirava!” esclamò un omaccione che sbucciava a fatica una patata appena lessata con le dita grosse e ruvide, e si fece il segno della croce mentre passava Roderich. “Io so solo una cosa; quando mi sono visto piovere quei colpi alle spalle, mi sono voltato verso le montagne, qui dietro, e non verso gli italiani.”

“Poveretti!.. pover’uomo!.. e dire che dovevano andare in licenza tutti!..” commentò un altro ancora mentre Roderich stava ormai per sbucare di nuovo alla luce del sole, sull’altra fiancata del monte.

“Ah sì?”

Essi uscirono infine all’aperto, e con ritmo rapido, ma regolare, si ritrovarono a scendere una lunga scalinata un po’ marcia che portava sino alla strada, bianca e polverosa, e ad un piazzale. Lì, insieme ad altri feriti lì in attesa, fu caricato sull’autoambulanza che partì (fortunatamente) poco dopo, verso l’ospedale da campo, distante qualche chilometro.

 

 

FINE

 



Siete davvero qui giù in fondo? *^*

Ma io devo ringraziarvi. Prima di tutto, devo ringraziare tutti voi. <3

Voi lettori, che avete letto questa roba e non avete imprecato in turcomanno antico perché un’introduzione così lunga e tediosa non s’era mai vista.

E loro. Le persone che hanno permesso che questa storia (lunghissima, noiosissima e complicata) nascesse, nonostante fosse tirata in ballo da aprile – aprile!, e riuscissi infine a pubblicare almeno il primo capitolo.

Questa storia è dedicata a Kie (qui su EFP Renard), perché (anche se magari lei non lo ricorda nemmeno XD) fu lei a darmi l’imbeccata, proprio pochi giorni dopo aver scritto ‘La mano tedesca vicino’ – vi ricordate dell’attendente Tauber? E della licenza di cui aveva parlato Roderich? Ecco, non gliel’hanno data, alla fine <3 -, e a far nascere l’idea!

E poi ci sono loro. Friedrike <3, che l’ha letta per prima, e si è sopportata gli spoiler della storia tutta l’estate –la croce a granati rossi, forse se la ricorda <3 – e mi ha sostenuto, sempre, sempre, sempre. Non so esprimere tanta gratitudine con le sole parole! Sammy (Elicchan) perché lei, poverina, si è sorbita una role gigantesca con Roderich al limite della sopportazione umana, e se Ungheria uscirà come uscirà, è solo merito suo, della sua Ungheria e delle role che abbiamo fatto, che mi hanno fatto meditare. Un grazie infinito! <3 Denise, perché se Russia –sì, avete capito benissimo… cosa c’entra Ivan? Beh, lo vedrete!- avrà la parte che avrà e Gilbert la propria, e se la storia avrà quel finale, è grazie a lei <3. Karla, perché è davvero una persona dolce. Gilbert e Hans Innerhofer, a cui rompo sempre le scatole <3 E tutti coloro che leggeranno in futuro e avranno un minimo d’interesse, e anche quelli a cui farò semplicemente schifo!

E poi, siccome proprio ieri notte mi sono riavvicinata alle ragazze di HNE, dopo tanto tempo, mi sembra giusto e doveroso ricordarmi anche di loro! <3 Swan, e Haru, se state leggendo, mi capite benissimo C: <3

 

Voglio farvi del male, quindi continuo a parlare del nulla! :D

 

Questo capitolo è ambientato durante il primo giorno dell’Undicesima battaglia dell’Isonzo, Carso, Prima guerra mondiale (anno 1917). Sono stata indecisa fino all’ultimo fra la Decima e l’Undicesima ._. (e a chi interessa? Tanto sono numeri), fino a ieri, pensate un po’ l’incoscienza! Per fortuna mi sono accorta che era necessario comprimere maggiormente gli eventi in un arco temporale più ristretto…

Materialschlacht, in tedesco, significa “guerra di materiali”; la sostituzione del pensiero, tratto distintivo dell’uomo, con la forza bruta. Questa non è più una guerra per uomini, nevvero, Roderich?.. La Monarchia, citata all’inizio del testo, è uno dei modi “tedeschi” (tradotto) di chiamare l’Impero austro-ungarico. Gli shrapnel sono un particolare tipo di granata. Le bombarde, invece, erano utilizzate per demolire trincee e reticolati.

L’introduzione? Capirete tutto col passare del tempo, abbiate solo pazienza <3 compreso il “mistero” del titolo; in tedesco, wieder significa nuovamente e si trova all’interno di parecchie parole composte, come Risorgimento, rinascita, riabilitazione…

Che ne dite del capitolo? Sapete quanti mesi ho impiegato a scriverlo? L E anche quanto tuttora sia convinta che sia una vera schifezza? ._. forse esagero, ma molte parti avrei potuto scriverle molto meglio. Forse avrei dovuto revisionare ancora, ma semplicemente non ce la facevo più. Dovevo assolutamente liberarmene, pena la perdita delle mie facoltà mentali! Penso lo riprenderò in mano più avanti, anzi, lo devo fare certamente. Non mi convince per niente, purtroppo. E sono mesi che fa così ;AAAA;

E secondo voi chi ha sparato a Roderich e perché? Certo che la situazione non è chiara… Che ci faceva Gilbert in quella postazione d’artiglieria, quando di tedeschi, sul fronte carsico, in quel periodo, non ce ne dovevano essere? Ma fate conto di non aver letto nulla, mi raccomando u.u

 

Questione aggiornamenti…

Sì, lo so, avevo detto: ho scritto tanto, aggiornerò più spesso del solito… e i mesi si sono accumulati. Vi chiedo scusa. E vi chiedo ancora più scusa perché non ho francamente idea di quando aggiornerò questa storia. Ma chissà, adesso, superato lo scoglio del primo capitolo… <3

(E poi ci sarà la revisione…)

 

…Ma siete veramente arrivati fin qui? :O siete dei santi! <3

Devo ancora porvi i miei più sentiti ringraziamenti per aver letto. E, come dico sempre: mi raccomando, se avete domande, o critiche, non esitate a porle!

   
 
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