Storie originali > Nonsense
Ricorda la storia  |      
Autore: Julia Veiss    02/01/2013    0 recensioni
Clélie collezionava racconti, o “frammenti di fantasia”, come amava chiamarli lei.
Non l’aveva mai rivelato a nessuno, ma che c’era di male? Aveva conosciuto molta gente che collezionava francobolli, foulard, orsacchiotti di pezza. Perchè non racconti?
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Tap, tap, tap. Tap. Tap tap tap.
 
Il picchiettio della macchina da scrivere si confondeva con il rumore della pioggia che cadeva leggera sulla piccola finestra tonda sul soffitto della stanza.
Clélie si fermò solo per un istante e si scostò i riccioli castani dal viso con un gesto. Si mordicchiò l'unghia del pollice sinistro, come era solita fare quando rifletteva su qualcosa. Un lampo le passò negli occhi e riprese a scrivere, picchiettando le dita sui tasti della macchina da scrivere.
Quando arrivava al punto di andare a capo, con un gesto delicato della mano spingeva il meccanismo della macchina da scrivere, e ogni volta che questa faceva ding! Clélie non poteva fare a meno di sobbalzare sulla sedia.
Era arrivata a quindici pagine, ormai. Fronte e retro.
Erano quasi cinque pagine in più del suo precedente racconto, e ciò la rendeva estremamente felice. 
Si fermò nuovamente, questa volta per ascoltare i rumori che venivano dall'esterno e che si confondevano con il suono della pioggia. Chiuse gli occhi nocciola e ascoltò, immaginando di avere due orecchie ipersensibili da gatto.
Un motorino rombante era appena passato a tutta velocità sulla strada lastricata che passava proprio a fianco del suo condominio. Un po' più avanti, sul balcone della casa di fronte, l'anziana signora Babette ritirava i panni stesi ad asciugare appena un'ora prima, che rischiavano di inzupparsi di nuovo, imprecando come un marinaio.
Nella stanza a fianco, invece, poteva sentire il ticchettio del vecchio orologio a pendolo che scandiva i secondi che passavano, come se dessero il ritmo alla pioggia che cadeva incessante.
Clélie chiuse gli occhi e si immaginò nei panni di un direttore d’orchestra, che con un gambo di sedano al posto della bacchetta bianca scandiva il tempo di questi musicisti davvero inconsueti.
Un, due, tre, forza, signora Pioggia, deve essere più vivace se vuole star dietro al signor Orologio!
E lei, signora Babette, imprechi con più forza o non si sentirà un bel niente! Riproviamo: e un, due, tre…
Si, messer Motorino, proprio così, bravo!
 
Si scrocchiò le dita, cosa che amava moltissimo fare, e tornò a concentrarsi sul suo racconto.  
Quando cominciava a scrivere, Clélie non aveva mai una trama già definita in testa: iniziava tutto da una frase, a volte anche da una parola soltanto, bastava che avesse un bel suono o una cadenza particolare. Era un bisogno che le saliva quando meno se l’aspettava, come un bimbo che deve fare pipì e non riesce più a trattenerla e deve farla a qualunque costo ovunque egli si trovi.
Se a Clélie veniva il bisogno di scrivere, nulla poteva fermarla: una volta, presa dalla frenesia di buttare giù due righe, si era ritrovata in un bagno della stazione ferroviaria a scrivere su un fazzolettino di carta con un rossetto che aveva miracolosamente rinvenuto in una taschina della borsa.
 
Tap, tap tap tap. Tap.
 
Clélie appoggiò l’ultimo foglio sulla pila ordinata con estrema delicatezza, e rimase a contemplare la sua opera con il cuore che andava a mille. Si sentiva come una teiera ricolma d’acqua bollente pronta a far fuoriuscire tutto il vapore dal beccuccio con un fischio talmente forte da essere scambiata per una locomotiva in partenza.
Prese il plico di fogli e fece i buchi ad ogni pagina, poi li rilegò con del nastro di raso azzurro e andò in camera da letto.
Una volta lì, aprì il terzo cassetto del comodino di mogano che le aveva regalato sua madre e infilò il suo plico di fogli in mezzo ad altri plichi, più o meno spessi, ognuno rilegato con nastrini di colori diversi. Chiuse il cassetto di scatto e sospirò. Quello era il suo segreto. Collezionava storie, o “frammenti di fantasia”, come amava chiamarli lei.
Non l’aveva mai rivelato a nessuno, ma che c’era di male? Clélie aveva conosciuto molta gente che collezionava francobolli, foulard, orsacchiotti di pezza. Perfino il suo datore di lavoro, il burbero signor Plochèn dell’ufficio postale collezionava le lettere che non potevano essere spedite: quelle senza indirizzo o quelle che lo avevano, ma era scritto in calligrafia incomprensibile. Le teneva tutte per se nell’armadietto del suo ufficio, ordinatamente, ma senza aprirle: ogni lettera è un segreto che va custodito finché non arriva al suo destinatario, soleva ripetere.
Clélie si mise il soprabito rosso fiammante e si infilò le scarpe color pece. Anche se pioveva non prendeva mai l’ombrello, perché era fermamente convinta che alla pioggia non piacesse rimbalzare sul nylon degli ombrelli, ma preferisse scivolare lentamente sui vestiti, dietro al collo e nei capelli.
Scese i quattro piani del condominio di volata, salutò il signor Vincènt che stava in portineria e si fiondò nel caos del centro di Parigi, con un gran sorriso ben stampato sul volto.
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Nonsense / Vai alla pagina dell'autore: Julia Veiss