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Autore: Glory Of Selene    02/01/2013    4 recensioni
Peter Pan è la piaga di Capitan Uncino. Il pirata lo odia, tutti i suoi desideri sono ormai finalizzati nella distruzione del suo nemico: non può continuare così.
Capitan Uncino sa di non poter vincere Peter Pan finchè lui sarà rimasto un bambino, e sa di non poter vivere finché non avrà vinto Peter Pan; l'unica soluzione è quella di farlo crescere. Una volta cresciuto, Peter non potrebbe più rimanere sull'Isola Che Non C'è, e Capitan Uncino vincerebbe...
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non c’era molta gente in giro, quella notte, e i suoi passi lenti e misurati riecheggiavano sulle pareti buie delle case londinesi.
L’avrebbero tutti preso per un grande magnate, o per un esponente di quell’ormai dimenticata aristocrazia, caduto in disgrazia ma senza dimenticare le proprie nobili origini.
In effetti, lui nobile lo era davvero. Solo, non nel modo in cui pensavano tutti quegli stupidi, scettici cittadini britannici.
Era molto soddisfatto del suo aspetto. L’abito da sera di lucido raso nero gli ricadeva sul corpo alto e snello in maniera impeccabile, e gli sbuffi candidi della camicia che portava sotto spuntavano eleganti dal nero del tessuto, creando un piacevole contrasto. I lunghi capelli corvini, che si arricciavano su sé stessi in tante spirali, erano legati in una coda stretta e i suoi occhi, scuri abissi d’astuzia – insaporita da un po’ di cattiveria, che non guastava mai – erano socchiusi in una delle sue rare espressioni di piacere.
Teneva la testa dritta, lo sguardo fisso davanti a sé, il suo portamento regale e il suo volto sicuro di sé riuscivano a distogliere l’attenzione dal suo braccio sinistro, dal quale spuntava uno spesso uncino d’acciaio al posto della mano.
Capitan Uncino sorrideva; anche quello era un evento che non capitava spesso. Ma come avrebbe potuto non sorridere, quando ormai vedeva la fine di tutti i suoi tormenti, il compimento dei suoi desideri più malvagi e reconditi?
Lui odiava profondamente. Odiava l’odio stesso che gli pervadeva l’anima, e la rendeva scura e pesante come uno straccio intriso d’acqua. E sapeva che, l’unico modo che aveva per liberarsene, e vivere finalmente in pace, era distruggere la fonte di quell’odio. Era così logico…
Il ticchettio del bastone da passeggio che lo accompagnava nella camminata si confondeva con il suono dei passi delle sue scarpe lucide ed eleganti, ma ben presto anche quel rumore si fermò, lasciando il silenzio ad essere l’unico e incontrastato padrone della notte.
Amava il Mondo Oltre l’Isola Che Non C’è, ma era consapevole di dover tornare a casa, dopo qualche tempo. Quella sera, in particolare, era obbligato, e prima avrebbe fatto meglio sarebbe stato. Perché solo sull’Isola – quell’insopportabile isola intrisa di magia – avrebbe potuto trovare quello che finalmente l’avrebbe liberato dall’odio.
Gli venne gettata una scaletta di corda dall’alto,  a cui lui si aggrappò con agilità prima di cominciare a salire elegantemente, come se non avesse fatto altro in vita propria; e chi aveva avuto la possibilità di conoscerlo sapeva benissimo che era esattamente così.
Quando saltò a bordo del grande veliero a tre alberi che si librava nel cielo, si lisciò gli abiti sgualciti, osservò soddisfatto il proprio equipaggio e si avviò lentamente verso la propria cabina, mentre i suoi uomini sfruttavano le correnti d’aria per dirigere la nave verso la famigerata stella dell’Isola Che non C’è.
Aprì la porta con il contegno di un sovrano e se la richiuse alle spalle con un unico gesto fluido, per poi sedersi come al solito alla sua scrivania.
«Oh, signore, siete tornato, capitano!»
Uncino alzò gli occhi al cielo. «Spugna. Hai per caso messo quelle tue manine lerce sulla mia riserva speciale?»
L’ometto che aveva fatto capolino nella cabina si fermò all’improvviso, e rimase a pensare, un po’ barcollante, per qualche minuto.
«…No, no. Sono sicuro di no.» biascicò.
«Meglio per te.»
Spugna si avvicinò a lui con un largo sorriso bonario – non sembrava avesse colto la minaccia. Teneva in mano una lunga vestaglia di raso rosso.
«Suvvia, suvvia, capitano, toglietevi quei vestiti comuni, non si adattano certo alla vostra regale figura!»
Uncino rifiutò la veste con un gesto schifato della mano. «Metti via quella roba e portami l’abito da battaglia, invece.»
Gli occhi di Spugna si fecero grandi e pieni di meraviglia come quelli di un bambino, poi lanciò un risolino di eccitazione e corse a frugare nella cassapanca del suo signore. Il capitano, intanto, si era alzato e aveva cominciato a togliersi l’abbigliamento del Mondo Oltre l’Isola Che Non C’è.
«Avete intenzione di dare un’altra bella batosta a quel bambino insolente, non è così?» domandava il vecchio passandogli intanto tutto quello che gli serviva.
Uncino si vestiva con calma. Aveva una precisione minuziosa, quasi maniacale, nel sistemare i bottoni nei giusti occhielli, si prendeva molto più tempo di quanto fosse necessario per assaporare la sensazione di un nuovo tessuto scivolargli sulla pelle. All’inizio Spugna se ne era stupito – lui che invece, al contrario, viveva perché i momenti gli passassero addosso senza attraversarlo, si autodistruggeva perché non sarebbe mai stato capace di affrontare ogni singolo istante della sua vita buttata via –, ma poi era riuscito a fare l’abitudine a una delle tante strane manie del suo capitano, e l’aveva assecondata.
Capitan Uncino era un uomo alto e dal fisico scolpito. Le ore passate ad osservare l’orizzonte a bordo della nave avevano impresso sulla sua pelle l’impronta del sole, rendendola ambrata e accelerando la comparsa delle prime rughe agli angoli degli occhi e della bocca, portate non come segno di vecchiaia ma d’orgoglio. In fondo anche lui, come tutto, non invecchiava, ed era costretto a vivere in eterno i suoi trentotto anni.
Non aveva paura nemmeno di esibire le cicatrici che gli segnavano il corpo come le costellazioni segnano il cielo – dopotutto, con l’eternità a disposizione era necessario fare qualcosa per distrarsi un po’. Ne aveva diverse sulle gambe e sulle braccia, alcune di lieve entità, altre più spaventose; una delle più terribili gli partiva dalla schiena fino ad arrivare a toccargli l’ombelico. Doveva essere stata fatta da una lunga spada, precisa e sottile, e nessuno aveva mai capito come fosse riuscito a salvarsi da una ferita del genere. Capitan Uncino aveva sempre fatto finta di non sapere delle storie che giravano intorno a quella cicatrice, perché non gli interessavano minimamente. Un’altra, la più curiosa, gli toccava l’orecchio destro e seguiva il profilo della sua mascella fino al mento incorniciandogli singolarmente il viso; e ancora, molti dell’equipaggio inventavano storie assurde riguardo ai segni sbiaditi, che gli deturpavano definitivamente il dorso, di alcune frustate ricevute molto tempo prima.
E poi, ovviamente, c’era l’uncino. La sua maledizione. La materializzazione di tutto il suo odio e il suo risentimento.
Il volto di Capitan Uncino non era un volto cattivo. Forse, esprimeva quello che il suo tono imperioso e i suoi occhi zeppi di rancore non riuscivano a fare. Portava una barba molto curata che gli incorniciava il profilo delle labbra, e i capelli lunghi e neri, che se legati accentuavano un naso e un mento spigolosi e davano quella luce di acutezza e imprevedibilità al suo viso, quand’erano portati sciolti sulle spalle riuscivano ad addolcirlo e a renderlo più simile ad un uomo come tutti gli altri che ad un capitano pirata assetato di vendetta.
I suoi occhi erano blu, ma nessuno lo sapeva più. Erano di un blu cupo e profondo, ed erano così abituati a vedere il male che davanti alla gente parevano neri. Uncino stesso, guardandosi allo specchio, li vedeva neri, e ne era compiaciuto. Ma erano blu.
«Non è lui che la da’ a noi, di solito?» mormorò infine il Capitano, quando ebbe terminato di cambiarsi.
Spugna, che si era già dimenticato la domanda che gli aveva posto, rimase ad osservarlo confuso per qualche istante.
Uncino si diresse a passi lenti verso una seconda cassapanca, girò la chiave al suo interno e l’aprì. Sorrise, compiaciuto, osservando la perfezione del disegno di tutte le sue armi.
«Non è per Peter Pan che mi sto preparando.» disse, sfiorando una ad una le sue bimbe. «O meglio, sì, è per lui, tutto quello che faccio ultimamente è per lui, ma oggi non lo cercherò.»
Prese in mano una spada tra le più belle, la sguainò e la osservò per bene. Lama lunga e molto sottile. Come quella che gli aveva inflitto la ferita al fianco. Sorrise tra sé, e se la allacciò alla cintura. L’impugnatura era dorata e rigonfia, come quella dei fioretti dei re.
«E dove andrete?»
Capitan Uncino rimase fermo per qualche attimo, a riflettere su cosa rispondere. Poi, decise che la definizione migliore da dare era: «Da una vecchia amica.»
Impugnò anche una pistola, una di quelle fatte bene, eleganti e affusolate. Non gli piaceva molto dover usare la polvere da sparo, preferiva di gran lunga lo scontro all’arma bianca, ma all’occorrenza poteva tornare utile anche una pallottola piazzata nel posto giusto.
«Capitano, siamo arrivati. Costeggiamo il litorale». Uno dell’equipaggio aveva temerariamente aperto la porta della sua cabina senza bussare.
Uncino sospirò e rimise la pistola al suo posto, richiuse la cassapanca e si girò verso di lui. Si sentiva magnanimo quel giorno, perciò perdonò la sua irritante trasgressione.
«Bene. Attraccate nella baia; devo sbarcare.» ordinò. L’altro annuì e scomparve per gridare le sue disposizioni a tutti gli altri, e il capitano lo seguì sul ponte.
Il vento era piacevole, né troppo freddo né troppo caldo. Sull’Isola il sole splendeva senza che una nuvola andasse a disturbarlo, anche se nel Mondo Oltre l’Isola Che non C’è era notte fonda. La baia era rigogliosa come sempre; acque cristalline che si infrangevano su candide spiagge, e tutto intorno, alberi di ogni tipo.
Lì in mezzo, da qualche parte, si nascondeva Peter Pan, che gli aveva portato via la mano, che gli aveva fatto conoscere la paura, che l’aveva ridotto a nient’altro se non ad un patetico concentrato di odio.
Ma non doveva pensarci. Non doveva.
Alcuni dell’equipaggio si offrirono di accompagnarlo – schifosi leccapiedi. Avrebbe trovato una punizione anche per loro. –, ma lui rifiutò, e mentre la scialuppa che l’aveva accompagnato fino a terra tornava alla nave, lui si stava già inoltrando nella vegetazione in direzione della laguna delle sirene. Non era facile raggiungerla a piedi, ma sapeva che si sarebbero spaventate se si fosse presentato con tutta la nave pirata al completo, e non aveva certo bisogno di inimicarsele ulteriormente. Creature volubili e capricciose, prede di una vanità immensa, Uncino pensava che vederne nascere una intelligente sarebbe stato un miracolo.
Ma, come tutti sapevano, sull’Isola Che non C’è i miracoli si avveravano piuttosto spesso.
Ancora un’altra fronda che tentava di impedirgli la strada, una radice messa lì apposta per indurlo ad inciampare, e la laguna apparve ai suoi occhi in tutta la sua bellezza. La conosceva a memoria; gli scogli dove le sirene passavano le ore a pettinarsi e perdersi in chiacchiere futili, le cascate, le foglie delle piante intrise di magia.
Sospirò, ed uscì allo scoperto. Fu accolto da un coro di forti grida acute.
Oche. Nient’altro che oche…
«Uncino!» disse una.
«Quello che importuna il nostro piccolo Peter.» rincarò un’altra.
«Povero Peter...» fu il coretto.
«Andiamo via.» fecero poi, come se fosse stato lui ad offendere loro, e si inabissarono.
Uncino si sedette sulle rive dell’acqua. Gli era già andata bene, rispetto a quella volta in cui avevano tentato di affogarlo per una parola messa al posto sbagliato nella frase…
«Benedict.»
Lui alzò la testa di scatto. Lunghi capelli neri, occhi dello stesso colore delle onde del mare, pelle bianca come la sabbia della spiaggia e il viso più bello che potesse essere dipinto sul corpo di una donna.
E una coda di pesce.
«Non pronunciare quel nome.» ringhiò lui.
«Preferisci essere chiamato come il simbolo della tua disfatta?» domandò lei, guardandogli l’uncino.
Il capitano impiegò molto tempo, più di quanto gli fosse dovuto, per rispondere. «Non giocare con me.»
La sirena gli sorrise – era un sorriso molto dolce –, e un attimo dopo lui se la ritrovò al proprio fianco. Al posto della coda, due lunghe gambe affusolate.
Un bacio sulla guancia. Era un bacio freddo e bagnato, ma non era per quello che ad Uncino vennero i brividi. «Perché sei venuto a trovarmi?»
«Ho capito come devo fare. A eliminare Peter Pan. A liberarmi dall’odio.»
La sirena lo osservò, la preoccupazione evidente in fondo ai suoi occhi verde acqua. Riunì le ginocchia al petto e se le abbracciò, pensosa.
Uncino pensò che era la cosa più aggraziata che avesse mai visto in tutta la sua vita.
«Tu… sei davvero sicuro di quello che stai facendo?». Non ebbe risposta. «E’ un bambino, Benedict.»
«E questa era la mia mano. E quella è una bestia assetata del mio sangue che non vede l’ora che io infili le mie chiappe nel mare.»
La sirena sorrise. Quel pirata crudele e senza scrupoli le faceva tenerezza, e non poteva farci niente.
«Aiutami. Tu puoi farlo.»
Lei aggrottò la fronte e si allontanò da lui. «Non lo affogherò, se è questo che vuoi.»
Lui la afferrò per un braccio e la costrinse a guardarlo. «No! Voglio… la tua magia.»
La prima cosa che fece lei fu liberarsi dalla sua stretta. Poi lo guardò, lo guardò a lungo. Lei lo sapeva,  di che colore erano i suoi occhi. Lei vedeva il loro blu.
«Che cosa vuoi fare?»
«Crescere. Voglio che lui cresca. Quando crescerà, non potrà più stare sull’Isola, e se ne tornerà da dov’è venuto. E io sarò libero.»
Di nuovo quel confronto di sguardi. Gli occhi della sirena, incapaci di mentire, mostravano una battaglia interiore molto agguerrita.
Uncino, per la prima volta in vita sua, si sentì un intruso meschino ad assistere a qualcosa di così personale, e distolse gli occhi con un certo imbarazzo. Quella sirena era proprio un essere diabolico. Riusciva a mettere caos nella perfezione che lui ricercava, riusciva a rendere bianche emozioni che era certo fossero nere, e a colorare di nero pensieri che avrebbe giurato fossero bianchi.
Il rumore di qualcosa che cade in acqua; quando tornò ad alzare lo sguardo, il capitano non trovò nulla di fianco a sé.
Serrò i denti e tirò un pugno alla sabbia. Che idiota, era stato. Come aveva potuto pensare che lei l’avrebbe aiutato? Come aveva potuto pensare, soprattutto, di trovare qualcuno che gli desse ciò che voleva senza ottenere nulla in cambio?
Si alzò e guardò l’acqua un’ultima volta, con risentimento. Aveva sbagliato a credere di poter contare su qualcuno. Su quell’Isola, la vendetta non era capita, e non lo sarebbe stata mai. Si lisciò i pantaloni e voltò le spalle alla laguna.
«Benedict!»
Un altro brivido.
«Cosa diavolo vuoi?!»
Tornò a guardarsi indietro. Ancora una volta la bellezza di lei lo colpì allo stomaco come un pugno, ma si impose di controllarsi.
«Tieni.» disse. Gli porgeva un minuscolo sacchetto, fatto di alghe.
Uncino spalancò gli occhi, stupito. «Tu…»
«Assicurati che gli entri negli occhi.» lo interruppe lei.
Profondamente turbato, il capitano prese il sacchettino, e lo osservò. Lo teneva in mano come se si fosse trattato del proprio stesso cuore.
Poi, lo strinse in pugno, e se lo mise in tasca.
Ottimo. Aveva ciò che gli serviva. Basta turbamenti ora, basta sentimentalismi. La luce nei suoi occhi divenne gelida, com’era sempre stata. Senza dire neanche una parola, si girò e mosse il primo passo per tornare alla nave.
Fu bloccato dal tocco freddo di una mano bagnata.
«Benedict…»
Lentamente, lui si voltò. «Smettila. Mi chiamo Uncino. Capit…». La sirena lo trasse verso di sé, e lo baciò dolcemente.

«Guarda! Guarda, Peter! Guarda che cos’ho trovato!». Il bimbo saltellava di qua e di là, tutto contento per la sua scoperta.
«E’ inutile che ti ecciti tanto. Quella roba non è il tesoro che voleva Peter.» sibilò un altro.
Il primo smise di saltellare e gli fece una pernacchia. «E chissenefrega di quello che dici tu. Decide lui, no?»
Un terzo bambino piovve dall’alto, ed atterrò con un sorriso orgoglioso. Era vestito completamente di verde, dal cappello con tanto di piuma che si era calcato in testa fino alle babbucce a punta che portava ai piedi. La sua pelle era chiara e sul suo viso era spruzzato un gruppetto di lentiggini, fattori forse dovuti al colore rosso acceso della zazzera informe dei suoi capelli. I suoi occhi erano castano chiaro, ed erano gli occhi più furbi e vispi che si fossero mai visti in un bambino.
«Fammi vedere il tuo tesoro.» ordinò, con tono esageratamente imperioso.
Il bambino gonfiò il petto e gli porse una ghianda mezza rotta, con una bella crepa in mezzo.
Peter la prese in mano e la osservò attentamente, con aria da vero esperto.
«Ah. A-ha! Venite tutti qui!» sbraitò.
Subito, attorno a lui si creò un capannello di bambini, tutti maschi, e tutti con addosso vestiti uno più strambo dell’altro.
«Vedete questo?». Piantò il dito su una minuscola macchiolina nella ghianda. «E’ un segno!»
«Un segno…» mormorarono tutti.
«Ma a me non sembra…» si azzardò uno, ma quello di fianco a lui gli tirò una gomitata talmente forte da farlo cadere a terra.
«Significa che i pirati…» continuò Peter.
«I pirati!» gridarono gli altri, e misero mani alle loro armi: bastoni, fionde, cerbottane. Solo Peter portava alla cintura un vero pugnale, che tutti gli invidiavano, anche se sapevano che non lo potevano prendere, perché lui se l’era guadagnato, e l’aveva rubato direttamente dalla nave di Capitan Uncino. Nessuno di loro avrebbe osato tanto.
«State calmi!» urlò Peter Pan.
Tutti ammutolirono.
«Se ci facciamo prendere dal panico, i pirati ci cattureranno più in fretta.»
«Ma davvero?» …Una profonda voce maschile dietro di sé. Peter si girò e vide un enorme pirata torreggiare su di lui.
Prima che potesse fare qualunque cosa, Peter schizzò via passandogli sotto le gambe, spiccò un balzo e volò a distanza di sicurezza.
«Ci hanno trovati! Scappate!» gridava agli altri bimbi, che correvano urlando in tutte le direzioni.
«PAN!»
Peter si girò di scatto.
Eccolo lì, Capitan Uncino. Impugnava la sua spada con un’espressione feroce in volto, gli occhi neri come la notte che trasudavano un odio puro e selvaggio. Il bambino sorrise e gli volò incontro.
«Ci rivediamo, Uncino!»
Il capitano digrignò i denti e menò un fendente.
«Mancato!» lo derise Peter; arrivò perfino a fargli una boccaccia.
«Rischi troppo, Peter Pan!» replicò l’altro, e con un balzo inaspettato lo afferrò per una gamba e lo trascinò giù. Ora erano faccia a faccia. Peter sguainò il pugnale e glielo puntò contro.
«No, non lo userai un’altra volta.» ringhiò Capitan Uncino.
Prima che chiunque potesse fare qualsiasi cosa, Uncino prese il sacchetto e ne gettò il contenuto sulla faccia di Peter.
Il bambino lasciò cadere a terra il pugnale con un urlo e prese a strofinarsi selvaggiamente gli occhi, che avevano cominciato a bruciargli terribilmente. Ma era tutto inutile.
Il dolore, dagli occhi, si espanse in fretta, gli raggiunse la testa, strisciò lentamente fino al collo, alle spalle, alla pancia, alle gambe, ai piedi.
Lui urlava; tutti, pirati e bambini, osservavano con paura la magia in azione. Solo Uncino ne era indifferente, anzi, ne era terribilmente compiaciuto.
Peter Pan riaprì gli occhi solo una volta e, attraverso le lacrime che gli scorrevano sul volto, vide il sorriso crudele del suo nemico torreggiare su di lui. Poi il dolore ebbe la meglio, e Peter lasciò che il buio ovattato dell’incoscienza arrivasse a prelevarlo e portarlo chissà dove.





Ciò che dice l'Autore

Ciao! Dunque, prima di tutto spero vi sia piaciuto questo primo capitolo, e grazie per averlo letto ^^ Questa è la prima storia che pubblico in questo fandom, quindi sono un po' emozionata **
Peter Pan è sempre stato uno dei miei cartoni della Disney preferiti (ahimè no, non ho letto il libro), e sarebbe stata solo questione di tempo prima che io decidessi di scrivere qualcosa su questa bellissima storia. Inutile dirlo, Capitan Uncino è un personaggio che ho adorato sin da piccola, in questa storia infatti l'ho reso un po' diverso rispetto a come lo si descrive di solito, questa mia versione di lui mi piace proprio e credo che in futuro scriverò qualcosina dedicata solo al nostro Uncino.
Niente, come ho già detto spero vi abbia interessato e spero che abbiate voglia di leggere anche gli altri :)
Un bacio,
Glory.
  
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