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Autore: Evazick    02/01/2013    2 recensioni
«Tell me, what’s the difference?
Don’t they all just look the same inside?»
Stava sdraiata sopra il precipizio, Mary, aspettando che la marea la portasse via.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Stava seduta sul bordo del precipizio, Mary, e guardava la gente sotto di lei.
Scorrevano sotto i suoi piedi come un fiume in fiamme, come un branco di formiche carnivore che camminava senza mai fermarsi, senza nemmeno chiedersi dove stava andando, senza sapere cosa faceva. Era tutto acqua, scorrere, andare, muoversi.
A Mary non piaceva tutto questo.
A Mary piaceva stare ferma in un angolo della Terra senza che nessun altro si accorgesse di lei. Durante le feste faceva da carta da parati, relegata in un angolo col suo bel bicchiere di plastica e un sorriso altrettanto plastico e lucido in faccia. Lucido come il rossetto rosso che doveva indossare a casa, che il padre le comprava apposta. Diceva che faceva risaltare le sue labbra e i suoi denti.
Diceva così tante di quelle cose, di quelle bugie e di quelle verità, ormai fuse insieme come componenti metalliche di uno stesso meccanismo.
Mary voleva stare ferma, immobile nello spazio come un astronauta. Avrebbe voluto rimanere sospesa nel buio vuoto cosmico per il resto della sua vita e dell’eternità, un cadavere galleggiante e fluttuante nel nulla. Un granello di polvere, un’infinitesima parte di tutto quello che la circondava. Rimanere da sola, con i suoi pensieri e le sue paure, tutto quello che rendevano Mary Mary.
Mary voleva un’ancora di ferro e legno in mezzo a quel mare di bugie e oscenità. Voleva un nome sicuro, una casa sicura, un posto sicuro. Voleva che il suo nome fosse uno solo, niente cognome o soprannomi riferiti alla sua situazione sessuale.
“Mary è una troia, Mary è una puttana.”
Mary non voleva avere un nome.
Mary voleva rimanere seduta, placida e tranquilla come uno di quei Buddha che sua madre aveva amato collezionare. Con le gambe incrociate, la mano alzata in segno di benedizione e un sorriso ad incurvare le labbra. Un sorriso vero, vivo, non finto come quello delle bambole in camera sua.
Non credeva in Buddha, ma avrebbe dato l’anima e gli organi per quella tranquillità.
D’altronde, a cosa avrebbe dovuto credere, lei? C’era forse qualcuno ad osservarla quando suo padre si infilava nel letto insieme a lei? C’era qualcuno ad aiutarla le prime volte, quando correva lungo i corridoi di quella casa infinita e troppo piccola perché non voleva catene di carne attorno al suo corpo? Gesù è morto per i peccati degli altri, non per i miei.
“A Mary piace trombare, a Mary piace giocare.”
Ma Mary vedeva.
Vedeva oltre la superficie di tutti gli altri. Andava oltre le loro maschere, il cerone bianco, nero e rosso e scavava in profondità con occhi azzurri come fuoco e castani come prati pietrificati. E in fondo vedeva che la differenza non esisteva. Muri che crollavano, difese annullate con un’occhiata. Non c’è niente di diverso, niente da discriminare, alla fine siamo tutti fatti di.
Bugie.
Anche quel Buddha, quello più grosso che troneggiava sul comodino di suo padre, era fatto di bugie. Sotto la superficie dorata non c’era altro che piombo e quercia, forza e saggezza nello stesso corpo. E lei credeva alle bugie che uscivano da quella bocca rossa, le uniche che la calmavano e lenivano il dolore quando un albero entrava in lei e la distruggeva. La mandava in fiamme, come una fenice, ed ogni volta c’era abbastanza tempo – abbastanza doloroso – per rinascere dalle proprie ceneri, ogni volta un po’ più debole.
“Mary è matta, Mary parla con Dio.”
 
Stava sdraiata sopra il precipizio, Mary, aspettando che la marea la portasse via.






Ispirata alla canzone lassù in cima, probabilmente una delle più belle che abbia mai sentito.
Cercatevi il testo e capirete.
  
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