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Autore: ilveleno    03/01/2013    4 recensioni
Igor ha 17 anni (forse) non è il figo della scuola, né il belloccio o lo spavaldo della situazione. Niente di tutto questo. Marte è lei, semplicemente Marta.
Nessun teenager americano o High School, semplicemente due ragazzi sullo sfondo di una Roma un po' vintage anni 70. Amo i punti. Amo mettere i punti. Le frasi brevi. E poco contorte. Ed iniziare i periodi con una congiunzione copulativa. Il racconto è diviso in quattro parti. Ognuna tratta di un tema diverso.
Buona Lettura
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Parte Uno
Il mio nome è Igor. Un nome che ho sempre odiato fin da piccolo. Me ne resi conto quando gli altri bambini mi chiedevano come mi chiamassi ed io per loro non ero Igor, ma Luca. Il nome più comune al mondo. Ma non era l’unica cosa che odiavo di me stesso, anzi, forse era la più banale. Mi guardavo allo specchio e non vedevo ciò che avrei voluto vedere. I capelli ribelli, il fisico quasi scheletrico e la carnagione chiara. Evitavo di mettermi al centro dell’attenzione. Non mi accettavo e non mi piacevo.
Ora sono qui davanti allo specchio della mia camera. Il cuore disegnato con il pennarello indelebile nero è ancora impresso sulla parte alta dello specchio. Non è mai voluto andare via.  E’ da poco passato giugno e sto cercando di sistemarmi quel ciuffo che non vuole starsene seduto. Ormai ci sono affezionato, è una parte fondamentale di me. Lo paragono alla mia adolescenza; non vuole essere come gli altri, e non permette a nessuno di essere persuaso o modificato. Ribelle, diverso da tutti. Come sono tutti gli adolescenti. Nei momenti di rabbia esco di casa solo con il mio i-pod ed un pacchetto di sigarette, anche se non fumo. Salgo sul primo autobus senza sapere dove porti. Sembra strano ma in questa mia adolescenza gli autisti fanno parte del gruppo ristretto di persone di cui mi fido.
Parte Due
Conobbi Marta a marzo. Frequentavo il Liceo Classico, corso B. Non si può dire di certo che fossi il più bravo della classe, ma nemmeno il peggiore. Qualche cinque e qualche sette. Mi chiamò un pomeriggio piovoso. I prati emanavano un forte odore di bagnato e gli abitanti preferivano starsene a casa. La cornetta di casa grigio cenere squillò mentre ero sdraiato sul mio letto. Jeans, maglietta e vans a contatto con le lenzuola blu del letto. La piccola televisione della mia cameretta era accesa su un canale abbastanza triste. Trasmettevano uno sconosciuto film in bianco e nero. Lo zaino semi-aperto era poggiato ai piedi del letto, la scrivania sommersa dai libri. Una mosca, accecata dalla luce si scontrava ad intervalli regolari con la lampadina attaccata al soffitto. Al telefono rispose mia madre. Attraverso la porta i rumori erano ovattati. Mi chiamò con un urlo degno di una vichinga del nord. Poggiai i piedi a terra e con fatica mi alzai. Strusciai le scarpe fino al telefono.
-Pronto? Chi parla?-
-Igor?-
-Si, sono io. Chi parla?-
-Sono Marta del corso F. Non so se ti ricordi di me.-

-Forse.. ti ho visto qualche volta in corridoio – mentii.
-Già,forse.. senti,ricordi quella compilation che prestassi qualche tempo fa a Martina Sanna?-
-Si, certamente.-
-Se ci possiamo incontrare tra un’ora in centro, posso riportartela.-

-Tra un’ora? –mi guardai intorno cercando una scusa per annullare quell’appuntamento. Avevo prestato quel cd qualche mese prima. Martina era una vecchia amica. Una di quelle che conosci da tanto tempo, ma con cui non hai mai legato. Non mi importava né della compilation e né di lei.
-Si, tra un’ora. Sarebbe perfetto se ci incontrassimo a Via del Corso.- aggiunse
Non trovai una scusa.
-mm ok. Ci vediamo dopo!-
Riferii a mia madre che sarei uscito e dopo un ‘va bene’ come risposta, andai in camera per finirmi di preparare. Presi dall’armadio il giacchetto ed una lunga sciarpa nera. Cercai di sistemarmi i capelli, anzi, quel ciuffo e con un pugno spensi la TV che in quel momento trasmetteva una televendita altrettanto triste. Alle 16 presi l’ombrello e scesi in strada. La pioggia batteva forte sull’asfalto provocando un forte rumore.  Il cielo era color cenere, proprio come la mia cornetta. Le fitte nubi piangevano grandi gocce d’acqua. Pioveva da due ore ormai e notai, mentre mi dirigevo in centro, che il cielo cominciava a schiarirsi. I marciapiedi erano pieni d’acqua, ed io preferivo camminare sul ciglio della strada. Non facemmo fatica a trovarci, una volta giunti nel luogo dell’incontro. Era paco la gente a cui andava di uscire con quel tempo, oltre i turisti. Capii da lontano che era lei. Aveva lunghi capelli castano scuro, coperti dal cappuccio della sua felpa color pastello, visto che aveva dimenticato a casa il suo ombrello. In una mano teneva ben stretto il mio cd, l’altra la teneva in tasca. Mi avvicinai con l’ombrello stretto in pugno. Aveva dei bellissimi occhi verdi.
-Ciao! Marta?- azzardai.
-Si, sono io- rispose.
Ci salutammo con due baci sulle guance.
-Questo è il tuo cd- si affrettò ad aggiungere una volta steso il braccio verso di me con la compilation in mano.
-Oh, grazie mille! Sei stata gentilissima.- lo misi in tasca –ti andrebbe di fare una passeggiata? C’è posto sotto il mio ombrello!-
-Volentieri!-
Camminammo vicini per tutto il pomeriggio, condividendo lo stesso ombrello. Aveva una voce dolce, e uno sguardo profondo. Mi raccontò che da poco si era trasferita a Roma e viveva con suo padre. I suoi genitori erano divorziati. Mi raccontò che aveva bei voti a scuola, mi parlò del suo libro preferito e di quanto le piacesse Roma. Io cercavo di parlare il meno possibile. Volevo ascoltarla, volevo sapere altro di lei. Ancora oggi preferisco ascoltare piuttosto che parlare. La riaccompagnai a casa verso le sei di sera. Abitava nella via dove sorgeva la vecchia torre romana, dove quest’ultima si affacciava sul suo giardino verde. Ci salutammo sul cancelletto della casa, dove l’edera scura si arrampicava. Lei entrò correndo verso la porta di legno chiaro per evitare di bagnarsi ulteriormente, mentre io la guardavo correre.  Sbatteva le converse azzurre nelle pozze del ciottolato che portava verso la casa. Mi voltai in direzione di ritorno e mi avviai con una sigaretta in mano. Uscimmo anche il giorno dopo, quello dopo e quello dopo ancora. Non ci fermava la pioggia, né gli impegni, né i compiti di scuola. Arrivò presto marzo. Me ne resi conto guardando il giardino di Marta; in un vaso vicino alla porta cominciava a crescere una piantina di primule. Cercavo sempre un suo abbraccio. Suo padre era giornalista, e capitava spesso che partisse per lavoro. Quando accadeva questo mi invitava sempre a casa sua. Preparava the freddo alla pesca e biscottini al burro. Trascorrevamo la maggior parte del tempo in giardino; sdraiati uno accanto all’altro a guardare le nuvole passeggere.
-Igor, sai una cosa?-
-No- risposi fumando una sigaretta.
-Ti voglio bene- sorrise e si stese per terra, sul verde prato di un parco vicino la chiesa.
Mi sdraiati accanto a lei e presi la sua mano tra la mia. Era calda e più liscia e delicata di un petalo di rosa. Da lontano giungevano gli urli di gioia e gli schiamazzi dei bambini che correvano lontano, dove erano situate alcune altalene e uno scivolo. Era la stessa sensazione di quando al mare, stanco più che mai ti stendi sul telo e chiudendo gli occhi senti i rumori, i rumori caldi della spiaggia: le onde, le urla e il vento.
-Non mi è mai piaciuto questo parco- mi confessò quel giorno – mi lega a brutti ricordi-
Non le chiesi il perché; aveva gli occhi lucidi. Il giorno dopo non tornammo a quel parco.
 
Parte Tre
Le giornate passavano troppo velocemente, avrei voluto che fossero durate di più, che fossero durate in eterno. Arrivarono le famosi idi di marzo. Mentre il mondo celebrava e ricordava l’uccisione di Cesare, io celebravo il matrimonio di mia cugina. Che immagine triste. Mia madre si era svegliata alle sette di mattina per cominciare a vestirsi, mentre per me era già troppo mettere la giacca cinque minuti prima di uscire da casa.
-Igor, sei un caso perso!- mi disse prima di uscire.
La villa dove si teneva la cena era già affollata. Sorgeva nel centro di un grande prato di viole, dove qua e là cresceva qualche ulivo. I festeggiamenti erano inoltrati, il vino scorreva a fiumi e mio zio augurava buon Natale a tutti gli invitati. Forse potrebbe esserci un collegamento tra il vino e mio zio. Stavo raggiungendo il tavolo del buffet quando la vidi. I capelli raccolti, un vestitino viola che le scendeva lungo i fianchi fino alle ginocchia, perfette. Era bellissima. Mi avvicinai al suo tavolo e la salutai con tutta la meraviglia che avevo.
-Igor! Che ci fai qui?- mi rispose con gioia infinita, buttandomi le braccia attorno al collo.
-Come siamo eleganti.. vogliamo farci un giro?-
Raggiungemmo il buffet, prendemmo due bicchieri di spumante ed uscimmo verso i campi lontani. Marta si tolse i tacchi e camminò scalza fino a raggiungere un lontano ulivo. La seguii. I rumori della festa erano lontani, ovattati quasi del tutto, dal lieve silenzio del vento. Illuminata dalla luce della luna era ancora più bella.
-Così tu sei un’amica di mia cugina?- ripresi il discorso.
-Amica di famiglia- precisò lei.
Non ci dicemmo più nient’altro. Il tempo cominciò a scorrere lentamente; un secondo durava un minuti ed un minuto un’ora. Lei, con il lucidalabbra trasparente ed io con il mio ciuffo all’insù. I suoi occhi verdi riflettevano la luna bianca, i suoi capelli, ormai sciolti, scivolavano sulle spalle scoperte. Le avvolsi la vita con il mio braccio, toccai la sua spina dorsale. Lei allungo la mano verso di me, e con un piccolo gesto sciolse il mio papillon nero. Sorrisi. Mi avvicinai alle sue labbra. Percepivo il mio naso vicino al suo. Tra le viole notturne, s’incontrarono le nostre labbra piene d’amore e si persero in un bacio che durò sette ore. Passarono giorni, forse mesi e noi eravamo ancora lì, con la luna che risplendeva nei suoi occhi e il mio papillon caduto a terra. Poi ci fu un altro bacio, un altro ed un altro ancora. Strinsi la sua mano nella mia con tutta la forza che avevo. Non volevo lasciarla. L’ombra dell’ulivo ci proteggeva da tutti e da tutto. Da quel giorno cambiò tanto, o forse per niente. Infatti quel bacio, e quelli che seguirono furono solo delle firme, dei francobolli da mettere sulle nostre giornate. Prima di essere due fidanzati eravamo due amici. Si avvicinò l’estate, velocemente, tra baci, coccole e chiacchierate. Un giorno più caldo degli altri la invitai a casa. Non ci era mai entrata. Quel giorno erano tutti a casa di mia nonna, per una visita di famiglia; ridicolo. Erano le quattro e nessun rumore proveniva da fuori della finestra aperta della mia  camera. Il cuore sullo specchio fu disegnato quel giorno. Prese un pennarello indelebile dal cassetto della mia scrivania e mi diede un bacio sulla guancia. Lo disegnò con cura e lo colorò con altrettanta. Disegnò poi vicino ad esso anche una piccola M. Poi si avvicinò a me, mi abbracciò e mi diede un affettuoso morso sulla guancia.
-Sei mio- disse.
Quelle parole risuonarono in me come una campana in un piccolo borgo medievale. Mi spinse verso il mio letto, con ancora le lenzuola disfatte, e ci caddi sopra, tirandomi dietro anche lei. Ci furono baci, e carezze. Poi mi tolse la maglia e la buttò per terra, sul tappeto. Passò il dito sulla mia pancia, provocandomi una scossa di solletico. Risi. Lei fece altrettanto. Le spostai da davanti gli occhi alcuni ciuffi di capelli e la guardai negli occhi sorridendo. Lei mi slacciò i pantaloni.
 
Parte Quattro
Le giornate si allungarono e noi due diventammo sempre più legati. Dopo tanto tempo piovve; una di quelle piogge estive. E la cornetta squillò. Questa volta risposi io.
-Igor, sono Marta- disse non con la solita voce con cui mi rispondeva al telefono.
-Marta! Tutto bene?-
-Si,si, tranquillo. Ti va di parlare un po’?-
-Certo che mi va! Dimmi.-
-No, intendo di persona. Alle cinque al parco?-
-Intendi il prato dove andiamo sempre?-
-No, intendo il parco vicino alla chiesa.-

Rimasi bloccato da quell’affermazione. Nei mesi in cui siamo stati insieme non ci andammo mai, poiché la legava a brutti ricordi, diceva.
Alle cinque aveva smesso di piovere, così mi diressi verso il parco cercando di evitare le pozze di fango che si erano formate. La riconobbi da lontano, seduta su una delle altalene. Indossava la stessa felpa che indossava quando ci incontrammo a via del Corso. Quella color pastello che amavo tanto. Appena mi vide si alzò e rimase in piedi ad aspettarmi. Mi avvicinai per baciarla ma lei si spostò.
-Ciao- mi disse.
Non feci in tempo a salutarla che continuò a parlare.
-Ti ho portato qui, in questo parco..- si bloccò e poi riprese –qui i miei genitori mi dissero che avevano deciso di separarsi. Avevo sette anni ed ero seduta su questa altalena.-indicò quella su cui era seduta prima che arrivassi- Eravamo a Roma, eravamo venuti a trovare la nonna.- Si fermò, si sedette su un’altalena ed io feci altrettanto. Ascoltai.
-Igor, mi dispiace per quello che sto per dirti, forse mi pentirò, ma sai bene che ti voglio bene, e so che me ne vuoi.-
Seguirono poi tante parole dette con il cuore o forse no. Non potevamo più stare insieme; non potevamo. Piansi insieme a lei.
E’ passato un anno da quel giorno. Non ci siamo più visti né sentiti. Come ho già detto il piccolo cuoricino nero è ancora lì. Ormai l’inchiostro è secco e basterebbe passargli sopra un solo dito per toglierlo. Eppure non l’ho ancora fatto. Mi sarebbe piaciuto raccontarvi cento o forse mille altri episodi che abbiamo trascorso insieme: delle ore passate sotto il caldo sole, sdraiati mano nella mano sul grande prato, di quando mi disse che se mai avesse avuto un figlio lo avrebbe chiamato Igor perché le piaceva il mio nome, dei pomeriggi passati a farci il solletico, delle guerre di cuscini, delle corse, delle foto, delle lettere. Ma non voglio perdere troppo tempo. Però potete immaginare quanto sia stato bello passare quei mesi con lei nonostante mi abbia ferito. Ancora oggi spero che possa tornare da me.
  
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