•Seize
the day
Odiavo
partecipare alle feste. Rappresentazioni
superficiali di ciò che la vita mondana può
provocare al più tentato dei
cervelli; il lusso prende il sopravvento, i sani principi annegano in
un
cocktail e in qualche stuzzichino. Tutto così frivolo,
così trascurabile, così
evitabile.
Fosse
stato per me, avrei rifiutato. Ma ad un
caro amico non si dice di no, soprattutto se non lo si vede da tempo,
soprattutto se puoi recarti nella parte più suggestiva di
Londra.
Lì,
c’era il più pregiato rum di tutta
l’Inghilterra,
datato 1960; erano stati anni d’oro quelli!
Non
potevo rifiutare, ahimè, anche io per i
motivi tanto frivoli che andavo giudicando. Che la mia anima stesse
cedendo
alla corruzione, mentre mi dirigevo in taxi nel luogo
dell’incontro, era sempre
più palese. Non potevo farci niente, ormai il mio abito
migliore l’avevo tirato
fuori, una sistemata ai capelli l’avevo data; di certo,
però, non si poteva
trascurare l’apatia che trasudava dalle mie iridi.
Anche
quando arrivai alla festa, gli sguardi che
mi rivolgevano. Non capivano, non avevano mai capito nulla di me. Occhi
vitrei,
già estasiati, occhi che mi hanno sempre studiato con
sufficienza. Sguardi di
cui non sopporto il carico emotivo, semplicemente perché
emozioni troppo
estranee o troppo intime, simili alle mie.
Ho
sempre avuto paura della comprensione della
gente, ma mentre scendevo dalla mia carrozza targata, e ricevevo quelle
occhiate schizzinose, speravo che in una di esse ci sarebbero stati gli
occhi
della persona che mi avrebbe salvato. Pensiero sciocco, che mi sarei
dovuto
togliere dalla testa quando ancora credevo di essere Peter Pan: e
Wendy, non si
nasconde certo dietro abiti succinti o gessati sempre troppo stretti,
maliziosi
no?
Cosa
andavo a pensare, a sperare poi, non lo
sapevo all’epoca nemmeno io. Mi sembra strano ricordare che
per me, quelle ore
di festa, erano paragonabili ad interminabili secoli passati
all’inferno.
Sudavo, mi allentavo la cravatta prima di sorseggiare il mio rum.
Terzo,
quarto, che importava? Ero stanco, spossato, chissà che
musica stupenda stavano
dando come sottofondo; non potevo sentirla.
Ero
troppo distratto dal malessere del mondo che
emergeva da quel genere di feste: tutti che normalmente si odiano,
vorrebbero
uccidersi e con il sol pensiero sabotarsi a vicenda, eppure
d’avanti ad un
Martini sembrano amarsi più di Paolo e Francesca; stessa
struggente intensità,
stesse conseguenze. Certo, di ubriachi non che ce ne fossero,
nell’inferno
dantesco, nulla che non fosse sazietà d’amore.
Roba che alle menti –e soprattutto
ai cuori- della gente lì presente mancava totalmente, come
concezione, si
presentavano totalmente fuori strada. Parlar di bel vedere con un
cieco, una
barzelletta ad un sordo! Ed il loro occhi, per carità!
Troppo impegnati a
giudicare seni prosperosi e a sentenziare qualcun altro solo posandosi
su di
esso. Persone ed iridi nemmeno lontanamente adatte ai miei canoni di
bellezza.
Più
mi guardavo attorno, più ero convinto di
voler sloggiare da lì, ed in fretta: ed è quello
che effettivamente feci.
Cercai
di fare.
Ripescai
la mia giacca dagli antri polverosi del
divanetto ad angolo, quello più rintanato e nascosto dal
mondo, mi alzai
scostando gente di ogni tipo. Con gli occhi cercavo il mio amico,
Francis, un
tipo apposto: a letto, era ok. Sentimentalmente era una frana, se la
sarebbe
cavata meglio un cellulare di ultima generazione. Appena trovai i suoi
occhi
azzurro cielo, mi accorsi che stava parlando con qualcuno. Sempre
troppo
impegnato per pensare ad essere un buon padrone di casa. Roteando gli
occhi, decisi
di farmi più vicino e vidi che si stava allontanando. Posai
lo sguardo
un’ultima volta dove prima vi era il francese, per constatare
chi avesse
pescato come vittima di passioni notturne travolgenti per questo giro.
E
fu lì, che vidi per la prima volta nella mia
vita la luce.
Fu
uno sguardo lungo, intenso, non mi ricordo
nemmeno io la portata di emozioni che si scagliarono come onde nel mio
cuore;
si infrangevano troppo veloci, e sentimenti non ben definiti andarono a
rintronarmi e debilitarmi più dell’alcol stesso.
Subito due parti di me si
contrapposero: il cervello mi gridava “che fai, razza di
imbecille, ti
invaghisci a prima vista di un paio di smeraldi lì,
incastonati a casaccio su
di una fronte bronzea? Lo sai che è tardi per il principe
azzurro? Lo sai che
non sei in un film?” mentre il cuore, più scaltro,
pensò ad agire.
Lasciai
perdere quel buono a nulla del francese,
mi concentrai di più nel seguire quel paio d’occhi
in cui mi ero totalmente
perso: avrei voluto andar lì solo per chiedere una mappa di
quel mare verde,
profondo, cristallino. Mi batteva all’impazzata il cuore,
mentre le gambe
iniziarono a seguirlo istintivamente. Andavo da lui per ragioni ben
diverse: la
prima sensazione fu di aver trovato la mia casa. Solo in un secondo
tempo avrei
capito che sarebbe stato ben di più di una semplice dimora.
Ma questo non
potevo saperlo, all’ora.
Chiuse
gli occhi diverse volte, probabilmente
imbarazzato, ma concesse il suo splendido sguardo solo e soltanto a me,
per
tutta la durata del nostro “incontro”, se
così possiamo chiamarlo. Per un
attimo, mi sentii lusingato, mi sentii la creatura più
fortunata che quel Dio
potesse aver mai creato. Per un istante fui tanto geloso che quella
vita fatta
ad iridi potesse andar ad inebriare qualcun altro. Volevo fosse mia, e
cresceva
ogni secondo il mio totale senso di inadeguatezza e di imbarazzo.
Dio,
che stavo facendo?!
Dopo
minuti interminabili, è come se i suoi
occhi prima di scomparire più in avanti mi avessero per
l’ennesima volta
parlato. “Seguimi”, ricordo mi dissero
“Seguimi e ti aspetterò fuori,
promesso”.
E
quello che feci, è inutile specificarlo.
Strattonai più gente che in una rissa, non mi importava
ricevere insulti: non
volevo che quella magia finisse, per nulla al mondo volevo perdere
quello sprazzo
di salvezza, che mi aveva tenuto in vita per una decina di minuti.
Non
volevo smettere di respirare, ancora, per
chissà quanti anni a seguire. Non potevo aspettare la
prossima festa per essere
di nuovo vivo, per diamine! Fu per quel motivo, che mi ritrovai a
vagare senza
meta, da solo, per le strade di un’enorme piazza
lì vicino.
Mi
sentii di nuovo abbandonato, tremendamente
stupido ed ingenuo, e per un momento la convinzione di aver avuto
un’allucinazione mi attanagliava il petto, in una morsa ben
salda, che mi fece
crollare. Alzai gli occhi al cielo: dov’era finito il mare?
Quel mare mai
visto, dov’era andato?
Lo
ritrovai ad aspettarmi, come promesso dai
suoi occhi, appoggiato ad una colonna della grande fontana. Mi accorsi
che di
magnetico non aveva solo gli occhi, che il suo sorriso avrebbe potuto
riportare
in vita un intero cimitero. Che lui, semplicemente così
com’era, era stupendo.
Ed
era imbarazzato, leggermente rosso in viso.
Per un secondo nella mia esistenza, pensai di essere ben voluto da
qualcuno che
non fosse la sfortuna. Ma, per un secondo in quella serata mi
ricomposi. Di
certo, per quanto irresistibile fosse quello strano sprazzo di vita
fatto ad
individuo, non potevo e non volevo farmi vedere così da un
estraneo. Il mio
orgoglio prevalse, ancora una volta, e mentre mi avvicinavo a lui il
cuore mi
salì in gola a forza di rimbombare nella cassa toracica.
Eppure, lui aveva
capito qualsiasi cosa riguardante la mia persona solo scrutandomi, era
inutile
nascondersi.
Non
ci furono parole, solo sguardi intensi. Solo
vita di attimi, solo esistenza di azioni.
Azioni
significative, non vane. Mirate alla
felicità di entrambi, alla mia, che in quel momento mi
sembrò quella del mondo
intero. Avrei potuto benissimo fermare ogni singolo passante e dirgli
“non è
fantastica la vita?”
Successe
ancora una volta tutto in un attimo; le
labbra che stavano sorridendomi, mi si avvicinarono sornioni e
silenziose.
Feline mi sorpresero, come falchi attanagliarono anche quel poco di
controllo
autoimpostomi minuti addietro. Fu ancora una volta un attimo.
Toccate
le sue labbra, accarezzai il cielo come
un dito. Dei miei amanti, seppur questo non carnale era stato il primo
così
gentile, così rispettoso. Era stato il primo di cui mai
rimpiangerò la totale
fiducia che gli affidai in quel momento. Sarebbe esagerato dire che gli
affidai
la vita, in quel semplice contatto, ma tutto ciò che aveva
significato in essa
fu riposto nelle sue mani. Il resto di me, non fu da meno: mi aggrappai
al suo
collo come un beduino scovata un’oasi d’acqua
fresca. Lui, era acqua fresca
d’estate. E nemmeno sapevo il suo nome, sentite un
po’!
Non
era da me, no, nemmeno desiderare così tanto
un secondo tempo quando l’incantesimo si interruppe. Nemmeno
per un secondo
avrei voluto scappare via. Di solito l’avrei fatto, da brava
Cenerentola. Con
un altro sconosciuto la mia carrozza sarebbe diventata una zucca, e
sarei corso
via a gambe levate, rintanandomi a vita in casa.
Con
lui non fu così.
Sciolsi
qualsiasi contatto fisico, e di nuovo si
instaurò quel respiro fatto di sguardi. Più
intenso, se possibile, di prima.
-Chi
sei?- gli chiesi, semplicemente. Chi sei?
per avermi stregato. Cosa vuoi da me? per avermi attanagliato il cuore.
Chi
sei? per farmi tutto questo.
Non
era intenzionato a rispondermi. Mi sorrise,
accarezzandomi il viso.
Dipendevo
totalmente da lui, e quando con
mistero mi lasciò un piccolo bigliettino in mano, rimasi
immobile aspettando
sue indicazioni.
-Partirò
domani. Barcelona,
ti aspetterò.- detto questo, mi prese la mano,
baciò il suo dorso, e andò via.
Come un allocco, non lo seguii. Ripensai alle sue parole, al suo
incantevole
accento spagnolo, e imbambolato –stregato- corrotto dalla
spietatezza della sua
purezza d’animo, me ne tornai a casa stringendo al petto
quell’unico ricordo
materiale che avevo –perché di ricordi emotivi,
beh, di quelli avevo da
raccontarne per anni e anni!- unico vero indizio che mi riconducesse a
lui.
Su
di esso, un numero ed un indirizzo e-mail.
Dopo
circa un mese di chiamate ininterrotte,
scambi di lettere senza freni, decisi di andare in Spagna. Non per
vacanza,
nemmeno per un ritiro spirituale: avevo deciso di andarci a tempo
indeterminato, volitivo come non mai di rimanere con lui per quanto
più tempo
possibile.
Antonio
Fernandez Carriedo, 22 anni. Così si
chiamava il mio principe, lì, dall’altra parte
dell’Europa. Quello che mi aveva
stregato alla festa, era riuscito dopo relativamente poco tempo per i
miei
standard di fiducia a guadagnarsela, e mi accingevo a raggiungerlo
concretamente, per iniziare la nostra relazione a distanza..
ravvicinata, per
così dire.
Quando
arrivai, fu di nuovo amore a prima vista.
Per la seconda volta in vita mia fui felice, fui sorridente, fui vivo,
fui
innamorato. Non ricordo giorni bui in sua compagnia.
È
impossibile essere tristi quando c’è Antonio
di mezzo, -tutti amano Antonio! È per questo che, inutile
dire, sono tanto
tanto ma tanto geloso..
Ma,
non per vantarmi, se ha scelto me, vuol dire
che mi deve amare sul serio. Ma non perché io sia
chissà che speciale, sono uno
tra tanti. Semplicemente perché una persona così
candida e pura come lui non
mentirebbe mai, nemmeno a se stesso, per nessuna ragione al mondo. Se
dice di
amarmi, lo fa con un sorriso. Lo fa guardandomi negli occhi, sempre
imbarazzato, ma totalmente sincero e convinto. Forse è
questo il motivo più
grande per cui, dopo appena 6 mesi, gli ho concesso il mio fatidico
sì.
Ebbene
sì, signori, io Arthur Kirkland, mi
sposo.
Oggi,
per l’esattezza.
E
non si dica che gli attimi fuggenti non
esistano, e non vadano colti!
Fine.