Storie originali > Horror
Ricorda la storia  |      
Autore: ParalyzedArtwork    05/01/2013    2 recensioni
"Mi afferrò con tutta la forza che aveva in corpo, mi lasciò cadere a terra, così che le mie ossa urtando il pavimento avessero potuto consumare la carne fino ad arrivare all’osso."
Fin dove si può spingere la mania di una persona? La scommessa è leggere.
Storia ispirata ad una vecchia leggenda che mi raccontarono, con l'invenzioni di tanta noia sui mezzi pubblici.
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ero riuscito ad alzarmi, era l’ultima volta che lo avrei fatto probabilmente, di fonte alla gabbia di metallo. Ero in mobile, o meglio in bilico, aspettavo che l’uomo cessasse di far girare le chiavi nelle dita, farle  vibrare, tra quei possenti palmi che mi distruggevano ogni ora. Posasse nella serratura la chiave e con un clack secco la aprisse, quanto bastava ad un uomo della sua stazza per allungare il braccio afferrare il mio e trascinarmi sul trono. Il trono della condanna.
Ma ero immobile prima del tempo, avevo ancora qualche minuto per provare ad aprire gli occhi, e sperare che almeno oggi la luce, si fosse presentate ad essi. Ero abituato a vivere nel buio, a stringere i denti e chiudere gli occhi dal terrore e dal dolore, fino a consumarli. Li aprivo lentamente, ormai non vedevo più bene, o non vedevo quasi più, e la poca luce che filtrava oggi dalla porta aperta del boia, mi procurava un immenso fastidio. Or ora or adesso avrei dovuto aprirli, chinai il capo, il mio volto non produceva più espressioni, le lacrime, bagnavano gli occhi ogni secondo, ma si rifiutavano di scendere, quasi avessero paura di nascere ed ammirare la crudeltà del mondo. Eccolo, il clack della serratura, quasi a consumare la chiave stava per avvenire.
Mi afferrò con tutta la forza che aveva in corpo, mi lasciò cadere a terra, così che le mie ossa urtando il pavimento avessero potuto consumare la carne fino ad arrivare all’osso.
Mi trascinò così che tutto il mio corpo potesse essere sfogliato lentamente, come un albero che perde le foglie in autunno. Ed ancora ed ancora, come ogni giorno,  la strada continuava, la strada era lunga, e  la carne continuava  a sgretolarsi  e nei punti in cui era allo stremo le ossa si univano al gelo del pavimento, scalfite.
Allora si arrivava alla fine, vengo leggermente alzato, scaraventato sul trono e lì legato. Ormai non ho più paura di questi lacci. Erano quattro inizialmente, uno per ogni  polso, uno per ogni caviglia.
Poi divennero cinque, i miei occhi si facevano sempre più stanchi, ed il boia esigeva rispetto ed importanza. La quinta era al collo, per rendere il mio sguardo fisso.
Dovevo fissarlo, non il suo sguardo, non il suo corpo ma lui, interamente lui, immobile.
All’inizio erano solo loro che avrebbero dovuto spaventarmi. Li strinsero al limi della sopportazione, ogni giorno, per ore intere, o per minuti, sempre con la stessa intensità. All’arrivo di una corsa, con tanto allenamento però, qualcuno riesce anche a sopportare il fiatone della prima gara. Ero immune ormai, i segni dei lacci di ieri sui polsi, combaciavano perfettamente con il laccio che oggi ho. Un incastro perfetto. Così come per le caviglie. Ormai divenni io a chiedere al boia di stringere le tenaglie. All’inizio lo fecero loro, la mia attenzione man mano che il dolore diveniva sopportabile calava, ma poi inizia a fingere.
Il dolore rende immobili, poco all’erta e concentrati su essi e su come liberarsene.
Andavano a combaciarsi perfettamente, con il segno indelebile di ieri, fino a stritolare le ossa ed a cancellare la carne. Arrivati all’osso, non restava che farlo cedere. Scalfivano la carne come aghi aguzzi. Come lame veloci velate intente a tagliare invisibili strati, sottilissimi di pelle.
Arriva un bruciore e poi l’osso, non me ne accorsi. Fissavo lui. Cosa volesse nessuno lo comprese mai. O meglio dire non lo compresi mai. E se ci fossi solo io? Non sento anime, stridia e pertanto cerco di fare altrettanto di non disturbare. Lui mi diceva così. Come una mamma, intenta a rimboccare le coperte ad un bambino, a dire che tutto va bene e che l’uomo nero non vuole fargli dal male. Ma se proprio lui è l’antagonista? O che lo sia io?
Era il boia, inquisitore nell’anima. Ciò che crea e angoscia la vera anima.
Un’armonica di denti a ridersi,  nell’aprirsi nel sogghignare. Gli unici suoni presenti alla sua vista.
Non comunicavamo. Persi anche il tatto. Non riuscivo a riconoscere, l’aria passare sulla pelle, i lacci che si sgretolavano, e cadevano sui bordi della sedia esausti.
Il collo si alzava, in quel momento in cui non sentivo più la luce battere sui miei occhi socchiusi, essi si serravano. Trascinato dall’altro, ascoltando quei formicoli prodotti dalla pelle a contatto con il gelido cemento, che graffiava e strideva le ossa.
Ancora, si seppelliva la carne. Il cancello si apriva, lentamente, un cigolio ripetuto, un cigolio stridente. Le cane cinguettavano, come per predire il loro funzionamento. Ed era un clack, due clack, tre clack. Le catene, il cancello ed il portone. Erano serrati, dalle loro fessure filtrava aria gelida, soffocata.
Rimaneva l’udita  ed i bruchi che divorano le foglio e l’acciaio era corroso dall’acqua. La mi pelle veniva risucchiata.
Come onde che sbattono sulla sabbia, cancellano quel colorito chiaro essa presenta.  La sentivo, man mano prosciugarsi e lasciare spazio alle ossa. Sentivo la carne assottigliarsi.
Adesso era buio.


Era una strada buia, come tutto il resto situato in quel posto. L’unica cosa che provocava masse informi di bagliori sullo sfondo macchiato era la luce dei fari delle macchine. Hai bordi della strada, una delle principali di questo paese, erano posti dall’una negozietti e abitazioni tra cui palazzi e edifici imponenti, dall’altra un’infinità di verde, di parchi, di radura ed a divisorio tra i due mondi (la strada e la “foresta”) si trovavo gli alberi. Posti regolarmente gli uni a distanza degli altri.
E di lì, di notte, correva, quasi fosse rincorso da qualche bestia nascosta tra il buio, un bambino. Sapeva che non era la sua ora. Quella di star da solo per la selva incolta. E correva mentre la notte avanzava verso casa probabilmente. Intanto l’inverno portava con se i rumori, che contrassegnano la particolarità di esso di creare tutti i suzioni del buio. Mascherato al vento, che sfiorava i rami, si sentiva, come un fruscio, un rastrellarsi di foglie “Ehi maialino, ehi, corri e scappa.” Era un sibillino, di una melodia, che si immedesimava, nel rumore di quelle foglie torturate dal vento. Come se in quelle foglie, in quei rumori, si nascondesse la presenza o la voce di una persona lontana, che fosse lì nei paragi nascosta, e pian piano il suo suono si avvicinava, come la sua presenza. Il ragazzo iniziava a voltarsi spesso all’indietro adesso ed aveva accelerato il passo, goccioline di sudore e di agitazioni si intravedevano dal suo volto illuminato dalle fioche luci delle auto provenienti dalla strada. Aveva notato questa presenza, avvicinarsi, questo sibillino così lontano divenire un fiato sul collo. Come se dietro di lui, dietro quell’albero di fosse qualcuno.


Si racconta che in un paesino, abitasse un uomo, che nelle buie notti, dava informazioni ai viandanti per strada e qual’ora il tempo fosse ormai tardo, anche rifugio. Li ospitava allegramente, e di cibo e bevande ne offriva in quantità sproporzionate. Ma così dolce non era. Il caro uomo avvelenava tali vivande così da poter uccidere i viandanti che gli si presentavano per poi, con la quiete della notte, poterli seppellire nel suo giardino. Era un paesino, di strade, città e radure che comunicava insieme all’unisolo. E di grandi ville.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Horror / Vai alla pagina dell'autore: ParalyzedArtwork