Libri > Alice nel paese delle meraviglie
Ricorda la storia  |      
Autore: Kosoala    06/01/2013    4 recensioni
"Il Cappellaio Matto mi salutò con la tazzina intrisa di tè secco, colato e asciutto sulle pareti in bianca porcellana, le dita la tenevano teneramente, quasi che quella piccola tazzina fosse più importante di tutto il resto: di chi fosse lui, di cosa facesse e perché."
Non è altro che un'introspezione dentro un'Alice diversa dal solito, con personaggi rivisitati etcetc...
All'inizio voleva solo essere una descrizione del Gatto, ma poi è venuto fuori questo.
Realtà.
Enjoy! ;)
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alice, Cappellaio Matto, Finta Tartaruga, Gatto del Cheshire
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

In Alice

 

E ti guardavo scomparire con curiosità, una curiosità quasi morbosa.
Non ero sicura di vedere quel che tu mi proponevi, o ciò che questa visione distorta a me offerta volesse farmi credere, che poi è circa la stessa cosa.
Ma io l'avevo già detto: se avessi un modo tutto mio, ciò che è sarebbe ciò che non è e ciò che non è sarebbe ciò che è.
Era così?
Ormai la mia mente era annebbiata e non riuscivo più a distinguere nulla.
Presente, passato, futuro.
Avevano un significato? Qui, da qualunque parte... non importava. Forse erano solo delle belle parole per semplificare il meccanismo degli immensi ingranaggi che regolavano il tempo.
Forse.
Non ero più sicura di nulla, non ero neanche certa che prima fossi stata sicura di qualcosa.
Forse che avevo i capelli lunghi e biondi.
Ma neanche quello, avevo tante interpretazioni; direttamente proporzionali alle persone che mi conoscevano.
Di fama, di vista, amici, familiari.
Non importava.
Ormai non importava più, perché sentivo che io non c'ero più.
Non c'ero come quel vecchio batuffolo di pelo che stava sparendo di fronte a me.
Non riuscivo a capire come, però: stava svanendo?
O forse era più una dispersione di particelle?
O si stava sciogliendo?
Ogni volta cambiava cambiava cambiava!
Non riuscivo a seguire tutto questo, i miei occhi assimilavano ma il cervello ci metteva tanto ad elaborare, troppo.
I miei occhi non vedevano, era solo una proiezione della mia mente.
O no?
Il Cappellaio Matto mi salutò con la tazzina intrisa di tè secco, colato e asciutto sulle pareti in bianca porcellana, le dita la tenevano teneramente, quasi che quella piccola tazzina fosse più importante di tutto il resto: di chi fosse lui, di cosa facesse e perché.
Avevo ormai capito che qui non bisognava porsi domande, a meno che non fossero indovinelli senza senso.
Le unghie dipinte con colori accesi o cupi, variegati e strambi.
Come tutto il resto in questo strano, strano mondo.
Da cui io stavo venendo assorbita lentamente, nelle sue infinite sfaccettature. Ogni tanto mi sembrava troppo colorato, alle volte estremamente grottesco e altre... altre mi sembrava semplicemente di essermi immersa in un sogno da cui non riuscivo più a svegliarmi.
Cosa avrebbe potuto essere questo altrimenti?
Solo un sogno.
Ricorrente, persistente.
Non se ne andava, lasciandomi specchiare nel lago vicino alla tavola a cui mi avevano invitata a bere il tè.
Ne avevo il controllo? Potevo fare ciò che volevo?
Svegliarmi.
Non aspettavo altro.
Era troppo per me.
Un viaggio profondo nel mio inconscio, che non avevo ancora imparato a scoprire e non volevo farlo.
Non in quel momento.
Sentii il picchiettare dei cucchiaini metallici contro le tazzine, lo scambiarsi improvvisamente di posto a cui, ultimamente, il Cappellaio non partecipava, troppo interessato a me. A studiare una strana umana capitata nel suo mondo.
Wonderland.
Sottomondo.
Paese delle Meraviglie.
No.
Non
era niente di tutto questo, perché se lo fosse stato non mi sarei sentita così male con me stessa.
Il giovane Cappellaio mi si avvicina
va, posandomi accanto una di quelle tazzine ricorrenti e sedendosi sulla riva, immergendo le gambe nell'acqua fresca, con i pantaloni rattoppati e le scarpe ancora indosso.
« Che fai? »
La voce giocosa e il sorriso incuriosito che non sono mai riuscita a toglierli, giusto per provare. Volevo sorprenderlo raccontandogli del mio mondo, ma l'ombra di quel sorriso continuava a sostargli sul volto così
avevo deciso di lasciar perdere.
« Mi guardo. »
Non più di due parole.
Avevo preso la brutta abitudine di rispondere a mezze frasi, con lo sguardo basso e la tristezza attorno.
Non volevo rimanere lì, adoravo quel mondo, quelle persone, ma alle volte avevo paura.
Di non tornare, di non rivedere i miei amici, la mia famiglia, o di rimanere intrappolata lì per sempre.
Nessuno sapeva come farmi tornare a casa.
Erano passate ore? Giorni? Mesi? Anni...?
Non lo sapevo e tremavo solo all'idea di scoprirlo. All'inizio avevo provato a chiedere alle persone attorno a me, il Cappellaio non aveva il senso del tempo e il suo orologio era finito nel tè, sotto lo zucchero e annacquato dal latte. Il Bianconiglio continuava solo a dire che era tardi e il Gatto... al Gatto non interessava, infatti continuava a fare quei giochetti di evaporazione.
A guardarlo bene, con la luce
che gli illuminava il pelo... sembrava formato da tante farfalle colorate che pian piano si distanziavano dall'involucro che era stato il suo corpo, volavano fino a formarsi da un'altra parte e incollarsi le une alle altre, attraverso quelle ali fragili e fin troppo colorate.
Ecco cos'era, quel posto: troppo.
Troppo tutto.
« E cosa guardi di te? Non puoi fissarti tutta intera da quella posizione! »
M'informò con allegria, mentre dibatteva le gambe in acqua come un bambino, sebbene dall'aspetto dimostrasse almeno sedici o diciassette anni. Gli occhi verdi risplendevano di quella luce che molti adulti frammentavano e cristallizzavano solo in alcuni momenti della loro vita, i più importanti.
Per lui tutto era importante, da scoprire. Si ricordava tutto e nulla.
I capelli biondastri gli ricadevano di fronte al volto, arruffati ma ordinati, fluenti ma rigidi.
Il cappello nero con una striscia verde giada sempre presente sul suo capo, ero quasi curiosa di sapere se se lo togliesse quando faceva il bagno.
Comunque, non aveva tutti i torti. Ero inginocchiata di fronte al lago e l'unica cosa che vedevo di me era il viso, con una misera parte del collo.
Non mi piacevo. Non mi piacevo a casa e non mi piacevo in quel posto.
I capelli troppo piatti e biondi, senza alcun riflesso. Gli occhi troppo chiari, sembravano quasi spiritati, i tratti induriti e lo sguardo vacuo.
Sospirai appena, posando le mani in grembo, con enorme sforzo.
« La faccia. »
« Perché? »
« Non mi piace. »
« Sei bella. »

...

« Non è vero. »
« Io non mento. »

« Lo dici per compiacermi. »
« Io non mento. »
Gli angoli delle mie labbra si fecero trascinare in alto dagli impercettibili movimenti dei muscoli quasi atrofizzati, ero stata rinfrancata da quelle parole?
Non doveva essere così. Non potevo farmi tirare su di morale da un sogno, un semplice sogno che durava da tanto, troppo tempo.
Dovevo uscire da quel posto di mia invenzione, lasciarmi trasportare dalle farfalle del Gatto per tornarmene a casa.
Forse ero arrivata sviluppare un amore-odio per il Cappellaio. Odiavo tutti i suoi modi di fare, troppo schietto, senza problemi... odiavo quel lato “ba
mbinesco” che lo comandava. Amavo quando, per quei pochi secondi, diveniva serio e mi ascoltava mentre gli dicevo per la centesima volta che volevo andarmene a casa, riprendendo il mio vecchio vestito azzurro – ormai perso e strappato – lasciando perdere tutti quegli abiti vistosi, come la gonna verde lunga fino alle ginocchia, ricoperta di tasche a pois e a righe completamente discordanti tra loro e le calze diverse – la sinistra a righe bianche e nere lunga fino a metà coscia, la destra arrivava si e no al ginocchio, completamente gialla – con qualche pezza qua e là e la camicetta azzurra con un gilet nero con dei bottoni rossi messi anche dove non v'era asola corrispondente, senza contare poi il guanto destro bianco a macchie rosse e arancioni e un cappello, molto simile ad un basco, con due o tre piume colorate a sinistra.
Anche questa era una proiezione della mia mente?
Non mi sarei mai vestita così per mia scelta, se avessi potuto mi sarei cambiata ma avrei
deluso i miei amici.
Amici?
Loro? Miei amici?
Stavo iniziando delirare. Erano un prodotto della mia mente malata! Quante volte i dottori avevano detto che dovevo tentare di allontanarmi da loro?

Avevo incontrato dei dottori, io?

Sospirai ancora, dedicandomi allo studio di quella superficie increspata dalle leggere onde provocate dalle gambe del Cappellaio.
« Voglio andarmene. »
« No. »
Sgranai gli occhi, fissandolo. Non mi aveva mai risposto così.
Mi ritrovai improvvisamente circondata da tutti gli altri, tutti quelli che mi avevano
accompagnata alla scoperta della mia mente malata.
Gli occhi del Cappellaio avevano perso quella scintilla, divenendo scuri, torbidi, profondi.
« Non te ne puoi andare. »
Intervenne il Gatto. Abbassai nuovamente gli occhi, torcendomi le dita e analizzandomi le unghie non più curate.
« Lo so. » Ammisi. « Ma voglio farlo lo stesso, io non sopporto più di stare nella mia mente. »
Avevo formulato una frase più lunga del previsto, ma ancora nulla di straordinario.
Tutti si fissarono affranti, sapevano anche loro di essere solo la mia mera immaginazione ma ogni volta che lo dicevo diventavano tristi, forse si sentivano inutili.
La tartaruga – un uomo vecchio con gli occhi impossibili da scorgere per la smisurata quantità di rughe che gli appesantivano la fronte alta, i pochi capelli che aveva li teneva ancora lunghi e fermi in una coda che si adagiava culla scorza ancora dura e giovanile, il bastone tenuto nella mano destra lo aiutava a camminare,
la parte che poggiava al suolo era ormai corrosa e forse addirittura ammuffita perché aveva la cattiva abitudine di lasciare il bastone vicino alla porta di casa che aveva un misero tettuccio, la punta usciva sempre però e ogni volta che pioveva veniva completamente intrisa della sostanza trasparente – si avvicinò, poggiandomi una delle sue braccia ruvide sulle spalle, prendendomi da parte.
« Noi siamo veri. »
No. Me l'avevano detto tante volte, ma non ci avevo mai creduto. Era solo per farmi sentire meglio, forse per aiutarmi ad abbandonare la mia mente, essere finalmente libera. Andandomene non avrei posto fine alle loro finte vite e non ne avrei sofferto, se fossero stati veri. Sorrisi accondiscendente, come si fa quando senti qualcuno delirare oppure quando non capisci le parole della stessa persona e sorridi per la mancanza di voglia a pronunciare un semplice “non ho capito”.
« Non è vero. Lo sapete. »
Li informai, scuotendo lentamente la testa mentre la stessa espressione continuava a sostare sul mio volto triste.
« Noi siamo veri, Alice. Lo siamo sempre stati e sempre lo saremo. Il “tuo mondo”, quello a cui vuoi disperatamente ritornare... è quella la menzogna. »
Sgranai gli occhi, posandoli su ognuno di loro. Nessuno sorrideva, negava, erano tutte espressioni da “non volevamo dirtelo, ma è così, sappiamo che questo mondo non ti piace, quindi abbiamo fatto di tutto per tenertelo nascosto”.
Ridacchiai sommessamente, mentre tentavo di assimilare quell'informazione troppo pesante, pian piano però si faceva strada nella mia mente una consapevolezza:
io avevo sempre cercato qualcosa che non c'era.
Una vita che non potevo condurre, un'immagine che non potevo ricopiare, un
qualcosa che non sarei riuscita a fare, per sforzarmi al massimo e raggiungerlo.
Era così anche per quel posto?
Senza dire nulla,
con gli occhi formulai la stessa domanda al vecchio che annuì, leggendomi quasi nella mente.
Senza accorgermene le lacrime iniziarono ad offuscarmi la vista, inondandomi le ciglia.
Io volevo tornare, ma non potevo perché non c'era nessun posto dove tornare, non c'era mai stato. Allora cos'era?
« Ti piacevano quei sogni, Alice. Noi volevamo continuare a farti sognare... ma non volevamo che... »
« ...tu ti sentissi triste perché non potevi tornare in un posto mai esistito, quindi te l'abbiamo detto, ecco tutto. Noi non vogliamo che tu sia triste e che ci lasci soli! »
Pincopanco e Pancopinco chiarirono le domande accavallatisi nella mia mente. Allora i dottori? Quelli che avevo sempre sognato? Quelli che mi dicevano che stavo male e che dovevo prendere le pillole? La sensazione di un ago infilato in un braccio e delle pasticche che scendevano giù per la gola?

Tutta immaginazione...

Avevo sognato un mondo più orribile di questo.
Ma questo... era orribile? Perché, in effetti,
probabilmente lo percepivo in quella maniera perché non era il mio. O almeno non lo credevo tale.
Ma se lo fosse stato?
I singhiozzi non si fermavano e mi sentii circondata da
lle braccia di tutti che tentavano di abbracciarmi, sorrisi da quella loro impacciataggine.
Ecco: tutto ciò che è, è ciò che non è, e ciò che non è, è ciò che è.
Quindi... io ero realmente in Wonderland?
Alla fine non m'importava più, smisi di cercare qualcosa di irraggiungibile e iniziai a divertirmi, perdendo definitivamente il senso del tempo,
non sprecando preziosi momenti a cercarlo.
La sfacciataggine del gatto mi spinse a tuffarmi nel lago, insieme agli altri. Mi divertivo e continuavo a divertirmi.
Adesso potrei dire
se tutto ciò era realmente esistito oppure no?
Potrei dire
se io ero o non ero in Wonderland?
No, no e non potrò mai farlo perché forse ho trovato il mio posto, immersa nella follia mentre con le dita di una mano sfioro quella cosa chiamata “realtà”,
ma che non vorrei incontrare... sempre ammesso che ci sia.

   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Alice nel paese delle meraviglie / Vai alla pagina dell'autore: Kosoala