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Autore: Lue    06/01/2013    8 recensioni
Sedici anni pesano come macigni appesi al collo, se sei solo come un cane a badare a una famiglia distrutta, e a Mycroft, capelli rossi e naso un po’ a patata, nessuno glielo ha mai insegnato come si fa a crescere tutto d’un colpo. Così lui improvvisa.
“Mimì”, una vocina piccola così lo raggiunge dal corridoio. Mycroft stacca delicatamente le dita dalla finestra (e il tic tic tic della pioggia è già lontano) e si volta. Il suo fratellino si strofina gli occhi con dita piccole minuscole che si incastrano tra i riccioli neri. “Mimì”, ripete piano, avanzando verso di lui. Mycroft tende le mani e lo solleva, prendendolo in braccio e portandolo davanti alla finestra.
“Mimì, usciamo?”, il bambino si volta di scatto verso Mycroft e lo fissa con degli occhi chiari grandi enormi.
“Vuoi andare fuori, Sherlock? Sotto la pioggia?”.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Lestrade , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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In un giorno di pioggia



"The boy with the thorn in his side,
 behind the hatred there lies
a murderous desire for love".
[The Smiths]

 

 
Pioggia che cade. Tic tic tic. Lui sfiora il vetro della finestra coi polpastrelli freddi. Tic tic tic. Qualcuno sta piangendo nella stanza accanto. Dio, lui. . . lui lo sa che dovrebbe andare di là e prendersi cura di loro, davvero, ma. . . Tic tic tic. Non riesce a staccare le dita dal vetro, ha bisogno di questo attimo di riposo, poi sì, certo, tornerà di là, prenderà in braccio suo fratello e se lo cullerà addosso finché non si addormenta. Poi andrà a vedere come sta sua madre, se ha preso tutte le pillole, se non ne ha prese troppe, se ha smesso di piangere, anche lei.
Sedici anni pesano come macigni appesi al collo, se sei solo come un cane a badare a una famiglia distrutta, e a Mycroft, capelli rossi e naso un po’ a patata, nessuno glielo ha mai insegnato come si fa a crescere tutto d’un colpo. Così lui improvvisa.
“Mimì”, una vocina piccola così lo raggiunge dal corridoio. Mycroft stacca delicatamente le dita dalla finestra (e il tic tic tic della pioggia è già lontano) e si volta. Il suo fratellino si strofina gli occhi con dita piccole minuscole che si incastrano tra i riccioli neri. “Mimì”, ripete piano, avanzando verso di lui. Mycroft tende le mani e lo solleva, prendendolo in braccio e portandolo davanti alla finestra. C’è una luce azzurrina che proviene da fuori, il colore del cielo bagnato, e il piccolo rimane a bocca aperta, posando anche lui le dita sul vetro e tamburellando piano, tic tic tic, come la pioggia che cade.
“Mimì, usciamo?”, il bambino si volta di scatto verso Mycroft e lo fissa con degli occhi chiari grandi enormi.
“Vuoi andare fuori, Sherlock? Sotto la pioggia?”.
Quello annuisce con convinzione.
“Va bene, allora, andiamo a vestirci”.
Dieci minuti dopo, per la strada camminano un ragazzo con un ombrello nero e un bimbo con una mantella blu.
 
Greg cammina per il parco affondando nelle pozze di fango e acqua, senza darsi pena di evitarle. È la quarta sigaretta che si accende, e lo sa bene che tra poco la pioggia l’avrà spenta e fatta a brandelli, ma sinceramente non ha nessuna voglia di andarsi a riparare sotto il balcone di una casa.
Ha la pelle chiara e gli occhi un po’ oscurati dalle sopracciglia folte, Greg, e si nasconde sempre – è un’abitudine ormai – sotto il cappuccio di una felpa. Non gli piacciono le persone: ha diciassette anni e un carattere arrabbiato, ma non è perché è cattivo, è che conosce solo gente antipatica.
Sciaff, sciaff, lo schiaffo dell’acqua fangosa sui suoi anfibi neri, che riemergono da ogni pozzanghera sporchi e con qualche foglia secca appiccicata sopra, è l’unico rumore che si avverte.
Oggi non è andato a scuola ed è un paio d’ore che vaga per il parco sotto la pioggia. Non è uno di quelli che saltano scuola spesso, è solo che oggi aveva bisogno di una giornata per starsene un po’ per conto suo. Per questo, dopo aver gettato l’ennesima sigaretta fradicia, si dedica all’esplorazione del parco.
È la prima volta che ci viene e non sa bene nemmeno come ci è capitato, nel suo vagare per le strade grigie di Londra. Tira un paio di calci a un sasso e intanto pensa alle parole che gli ha rivolto suo padre la sera prima: “Razza di bastardo, non sarai mai come me”, e poi gli ha tirato un ceffone con quelle dita grassocce, strette come salami da anelli di oro finto. Sono quelli che gli hanno provocato il taglio sulla guancia che cerca di nascondere da tutto il giorno con un lembo della sciarpa.
Sciaff, sciaff, Greg non è un bastardo.
Sciaff, sciaff, Greg non vuole essere come suo padre.
Pestando i piedi nel fango va quasi a sbattere contro un tipo altissimo e un nanetto in cerata blu.
 
Mycroft guida Sherlock fino al parco vicino a casa, almeno così non saranno lontani se dovesse succedere qualcosa alla mamma. Sherlock intanto, per tutta la strada, ridacchia gustosamente, saltando in ogni pozzanghera mentre Mycroft lo tiene d’occhio, mantenendosi a poca distanza e sorridendo involontariamente davanti alla gioia del fratellino minore.
“Mimì, Mimì!”, grida quello a squarciagola mentre un paio di piccioni si alzano in volo tubando infastiditi, “Mimì siamo arrivati al parco!”.
Mycroft annuisce e gli sistema il cappuccio di cerata, per evitare che si bagni tutto.
“Andiamo”, lo prende per mano, ma non ha fatto neanche in tempo a mettere un piede sull’erba bagnata che, alzando gli occhi, si trova davanti un ragazzo. Fradicio.
“Ehi!”, esclama Sherlock rivolto allo sconosciuto, cercando di sistemarsi la mantella, “Chi sei tu?”.
Mycroft scuote la testa: “Scusa”, sorride al ragazzo che si copre una guancia con la sciarpa, poi si rivolge a suo fratello: “Sherlock, sii più cortese”.
Sherlock sbuffa e incrocia le braccia e poi si rivolge nuovamente al giovane che non ha ancora detto una parola: “Ciao, io sono Sherlock e ho cinque anni, tu chi sei?”.
L’altro si fa scivolare la mano dal viso, lasciando cadere la sciarpa e rivelando il taglio. Sorride.
“Ciao”, porge la mano al bambino, “Io sono Greg”, poi la porge anche a Mycroft che è rimasto per un attimo a bocca aperta.
“… Piacere?”, ridacchia Greg sventolando lievemente la mano. Mycroft si riscuote e gliela stringe subito, ricambiando il sorriso.
“Sono Mycroft, molto piacere”.
“Io lo chiamo Mimì però”, si intromette Sherlock, suscitando una risata in Greg e un improvviso rossore sulle guance del fratello. Poi il bambino si rivolge solo a Greg: “Puoi stare con Mimì mentre io salto nelle pozze? Per favore!”.
“Va bene!”, Greg scoppia a ridere davanti all’espressione sorpresa di Mycroft.
“Fai il bravo”, Sherlock raccomanda al fratello maggiore – il quale annuisce con finta e riverente serietà – e poi si getta ridente in una delle pozzanghere.
 
Greg alza gli occhi sul ragazzo che ha appena conosciuto: ha una capigliatura rossiccia e riccioluta, un poco bagnata per le volte che, Greg lo può immaginare, ha lasciato perdere l’ombrello per inseguire quel piccolo tornado di suo fratello.
Mycroft sorride e poi sussulta, come se si fosse ricordato solo ora di qualcosa di importantissimo.
“Ma sei bagnato fradicio! E senza ombrello!”, esclama, avvicinandosi perché l’ombrello nero protegga anche Greg. Ogni tanto getta un’occhiata davanti a loro per assicurarsi che il fratello stia bene.
“Voi siete … i fratelli Holmes?”, chiede Greg, anche se sa già la risposta: due nomi così, letti sulla prima pagina di un giornale, non si dimenticano facilmente. Se ne pente subito, notando il viso di Mycroft oscurarsi.
“Sì. È nostro padre quello che si è ammazzato tre mesi fa”.
“Mi dispiace”, borbotta Greg, sentendosi uno stupido.
Mycroft alza le spalle, “Io lo so che adesso tutti ci conoscono per questo. L’importante è che lui non lo senta”, indica Sherlock con un cenno del capo, “Non deve esserne turbato più di quanto sia già”.
Greg lo guarda senza dire una parola ma capisce quello che l’altro vuole dire.
“Ha cinque anni, ma è molto più sveglio dei bambini della sua età”, continua Mycroft con orgoglio nella voce, “Fa un sacco di domande di solito. Ma quando papà è morto … Niente, non ha fatto neanche una domanda. Penso che abbia semplicemente capito. Capisce un sacco di cose”.
Mycroft tace per qualche secondo, poi alza lo sguardo su Greg con un sorrisino, come per scusarsi.
È carino. È questo a cui si trova a pensare Greg. Ha un naso abbastanza importante e le orecchie un po’ a sventola, questo Mycroft – Mimì – ma è carino, con questi capelli rossi, le lentiggini e l’aria di uno che è stato costretto a crescere in fretta, proprio come lui.
“Posso chiederti come ti sei fatto quel taglio?”.
Greg si porta la mano alla guancia e si accorge solo ora che è gonfia e fa male.
“Mio padre ha trovato un modo diverso per ferirmi”, lascia uscire, con un tono più amaro di quanto si aspettava.
 
Mycroft sposta lo sguardo da Sherlock, che grida ai piccioni, agli occhi grigi di Greg. Sono piuttosto belli, ora che ci si sofferma, hanno proprio il colore del cielo di Londra oggi.
“Siamo proprio un’accoppiata vincente allora”, si permette di sdrammatizzare.
Greg lo ricompensa con una risata che però si trasforma subito in una smorfia di dolore, a causa del taglio sulla guancia.
“Ti fa tanto male?”, la voce di Sherlock, che deve essersi stufato di piccioni e pozzanghere, lo raggiunge.
“Un po’”, confessa.
“Vuoi venire a casa nostra a farti medicare?”.
Mycroft trasale impercettibilmente: c’è la mamma a casa, la mamma che piange, la mamma che grida, “Arthur, Arthur”. Nessuno deve vederla.
“Sherlock”, Mycroft vorrebbe davvero invitare Greg da loro, e dargli cerotti e disinfettante e parlare con lui e diventare amici e poi chissà c’è tempo si vedrà, ma oggi non si può, con la mamma così non si può, “Forse oggi è meglio di no, la mamma non sta tanto bene, ricordi?”.
“Ah, già”, mormora Sherlock intristendosi.
“Però posso accompagnarvi a casa se volete!”, Greg si offre sorridendo, e Mycroft gliene è davvero grato perché Sherlock riacquista subito il buonumore.
“Può, Mimì, vero!?”.
“Certo che può”, Mycroft ricambia il sorriso.
 
Nei pochi metri che separano il parco dalla casa dei fratelli Holmes, Sherlock cammina in mezzo tra Mycroft e Greg, facendosi tenere per mano. Quando arriva il momento di separarsi, il bambino lascia la mano di Greg, rimanendo aggrappato al fratello.
“Grazie”, dice Mycroft, tendendo la mano a Greg, “Spero che ci rivedremo”.
“Lo spero anch’io”, sorride l’altro.
“Mimì, dagli il nostro numero di telefono!”, esclama Sherlock, saltellando sul posto su un piede solo.
“Giusto, certo!”, esclama Mycroft, estraendo dalla giacca un pezzo di carta e una penna con cui scribacchia, in una grafia allungata e frettolosa, il numero di telefono di casa Holmes. Lo tende a Greg che lo infila con attenzione nella tasca interna della giacca per non bagnarlo.
“Allora … ciao”, Greg solleva la mano come gesto di saluto.
“Ciao, a presto”, sorride Mycroft mentre si affretta a seguire Sherlock oltre il cancello. Greg rimane per qualche secondo a guardare la sagoma alta di Mycroft che rincorre Sherlock nel breve tratto tra il cancello e la porta di casa.
Mycroft si volta un’ultima volta prima di inserire la chiave nella toppa e rivolge un ultimo sorriso a Greg.
Lui se ne torna a gironzolare in giro per Londra, un ghigno di gioia che gli illumina il viso nonostante la pioggia, una mano nella tasca dei jeans, l’altra a stringere il bigliettino che gli ha dato Mycroft. Magari domani lo chiamerà e usciranno insieme. Magari poi usciranno un’altra volta e un’altra ancora, e magari un giorno Greg troverà il coraggio e gli darà un bacio. Poi forse dopo un po’ di tempo, dopo un po’ di baci, si ameranno.
A questo pensa Greg, diciassette anni, il cappuccio della felpa tirato su, mentre girovaga per Londra in un giorno di pioggia.


 

Un bel po’ di anni dopo

 
“Greg?”.
“Mh?”, Greg solleva la testa dal giornale che sta leggendo, rischiando di assopirsi per il crepitio delle fiamme nel camino.
“Temo che Sherlock ne abbia combinata una delle sue”.
Greg alza gli occhi: Mycroft – i capelli, radi, ancora rossi e il naso ancora a patata – lo guarda supplichevole.
“Cos’ha combinato?”, sbuffa.
“È entrato a Baskerville fingendosi me”.
Greg spalanca gli occhi: “Stai scherzando”.
Mycroft scoppia a ridere: “Sarebbe bello. Ma conosci Sherlock”.
“Fin troppo bene”, sbuffa l’altro.
“Allora”, Mycroft si accovaccia davanti alla poltrona di Greg, “Puoi andare a dargli un’occhiata? Per me?”.
Lui alza gli occhi al cielo, ma poi scoppia in una risatina.
“Va bene, Mimì”.
Sempre con un sorriso sul volto, gli posa un bacio sulle labbra.
 


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