- Salve gente!
Prima di tutto, ci scusiamo per il
ritardo e voglio essere sincera: dobbiamo ancora scrivere l'ultimo
capitolo quindi ci siamo prese un pò di tempo AHAHA Onestà, portami via
:') AHAHAHA
Ma si sa, è periodo di feste: gente da vedere, roba da
mangiare, regali da fare, roba da mangiare, parenti che invadono casa,
ancora roba da mangiare....
AHAHA sfido chiunque ad affermare di non essere ingrassato almeno un
chilo in queste feste .___.
Oggi è pure la befana, stamm' appost'! HAHAHA
Vabbè, le vostre befanine vi lasciano il capitolo!
Speriamo vi piaccia! Ci sentiamo in fondo :)
*________*
un bacio,
Cloe&Fio
(suggerimento
musicale) - che io amo adgfkjadfs ç_ç
- Pov Kristen
- “Non
ho mai conosciuto
i miei genitori, tutt’oggi non ho nemmeno idea di chi siano.
Ho vissuto i primi
cinque anni della mia vita in un orfanotrofio, uno di quelli vecchi
dove ci
sono suore che dovrebbero prendersi cura di te ma in realtà
non fanno altro che
renderti tutto più difficile. Ero una delle più
piccole lì. Non potevano
occuparsi di neonati e i bambini più piccoli di me erano
sempre e comunque
preferiti, tanto che mi chiedessi come facevano le bambina di dieci
anni ad avere
ancora speranza di essere adottate. Alcune non ci credevano
più, infatti.
Meredith era una di queste. La conobbi un giorno in cui strillavo come
una
pazza perché volevo la mia mamma, perché volevo
sapere dove fosse, e lei mi
prese in braccio, mi cullò e mi disse che sicuramente era in
cielo, ma che se
le parlavo poteva sentirmi lo stesso. Non so se avesse ragione, ma
decisi di
crederle e da quel momento fummo inseparabili per molto tempo. Lei era
due anni
più grande di me, per cui, quando ce lo dissero, fu
difficile credere che una
coppia fosse interessata a prendere due bambine, di cui una
già abbastanza
grandicella. Eppure fu così. Fummo adottate insieme, lo
stesso giorno, dalla
stessa coppia che ci fece sentire a casa in poco tempo.
- Joseph e Juliet
Blake
erano… persone speciali. Quel tipo di persone da cui puoi
aspettarti solo bene.
Io presi a chiamarli mamma e papà dopo qualche mese,
Meredith non ci riuscì mai
e in cuor mio sapevo che quelle volte che lo faceva, lo faceva solo per
me. In
cuor mio sapevo che, in fondo, era uno spirito libero e che si trovava
in
quella casa solo ed esclusivamente per me… Nonostante
questo, fu un duro colpo
quando a venti anni, fece le valigie e lasciò casa. Aveva
conosciuto un ragazzo
Amish e, beh, non so se voi sappiate qualcosa della loro
cultura… Sono una
comunità religiosa, arretrati, chiusi, attaccati a dei
principi guida che li
tengono quanto più possibile lontani dalla civilizzazione.
Vivono per conto
loro, nelle loro comunità ristrette, piccole o grandi che
siano. Non è
difficile immaginare che i nostri genitori non fossero per nulla
d’accordo con
questo connubio. Avevano grandi piani per noi: Meredith aveva iniziato
la
facoltà di medicina, le piaceva anche, voleva diventare una
ginecologa o una
pediatra, ancora non lo sapeva, ma le piaceva.
- Ma forse
è vero quello
che si dice, che l’amore rende ciechi…
perché lei non guardò in faccia a
nessuno e non esitò a voltarci le spalle per seguirlo,
nonostante le differenze
culturali. Era così presa e innamorata da rinunciare a
quello che era per
diventare qualcun altro, qualcuno di nuovo insieme a lui, e noi cosa
potevamo
fare?
- I nostri
genitori
tennero il punto, convinti che prima o poi sarebbe tornata sui suoi
passi e
impedirono anche a me di avere rapporti con loro; per molto tempo non
sono
riuscita a rintracciarli in nessun modo e mi convinsi io stessa che, in
fondo,
era meglio così, che lei non volesse essere trovata, che
dopotutto era una vita
che non aveva mai voluto veramente… Così la
lasciai andare.
- Gli anni
passarono e
ormai Meredith era diventata solo un ricordo nel cuore e una fotografia
sul
comodino…
- Quando i nostri
genitori morirono in un incidente d’auto, circa sei anni fa,
decisi di
scriverle. Dovevo metterla al corrente, volevo che fosse presente per
loro e
per me, volevo che ci fosse per capire come ogni cosa passi in secondo
piano
davanti alla morte… Ma lei non si presentò. Le
scrissi ancora dicendole che…
che era un’ingrata, che avrebbe potuto fare uno sforzo e che
la odiavo, ma che
ero ancora disposta a chiarire e se avesse voluto poteva raggiungermi
sull’isola di Wight dove mi sarei trasferita in una casa
lasciataci in eredità
dai nostri genitori. Ancora una volta non ebbi risposta; mi chiesi
anche se
avesse effettivamente ricevuto quelle lettere ma darmi il tormento non
serviva
a nulla, così la lasciai andare, ancora una volta. Pensavo
che sarebbe stata la
definitiva, quando a inizio febbraio 2013 ricevetti una telefonata che
mi
informava del ritrovamento di due corpi in mare, nei pressi
dell’isola, e del
bisogno di un accertamento della loro identità.
- Mi
bastò guardare una
sola volta per perdere tutto ciò che era rimasto della mia
famiglia. Il dolore
di aver perso tutto, la rabbia, la consapevolezza che era colpa mia mi
portarono a partire, nemmeno un mese dopo, per una missione di
volontariato in
Africa. Dovevo restarci un anno, ma poi divennero due, poi
tre…
- L’Africa
era
semplicemente il luogo perfetto per dimenticare il mio dolore e pensare
a
quello degli altri. Mi ci sono rifugiata per tanto tempo prima di
capire che
non potevo davvero aiutare chi soffriva più di me se non
avessi risolto le mie
proprie sofferenze, così sono tornata in America, sono
andata in Ohio, alla
comunità di Amish in cui, sapevo, appartenevano mia sorella
e il marito.
- Era giunto il
momento
di affrontare il passato e cercare delle risposte che mi liberassero
del mio
senso di colpa… e le trovai! Ma non furono la sola cosa che
scoprii quando mi
recai lì.
- Quando mi
presentai a
raccontai di ciò che era successo a Meredith, nessuno sapeva
niente, credevano
che avessero semplicemente deciso di partire e che si fossero staccati
dalla
vita Amish. In fondo non era per nulla concepito per loro prendere un
aereo e
raggiungere Londra, anche se era per rivedere una sorella
perduta…
- Fu allora,
quando
insieme iniziarono a pregare per le loro anime e per quella della
povera
piccola, che scoprii che Meredith aveva avuto una bambina.
- Mia sorella era
incinta e io non lo sapevo nemmeno. Si era messa su una barca con una
bambina
di un mese per raggiungermi e l’ultima cosa che aveva
ricevuto da me era solo
odio…
- Non potevo
crederci
all’inizio, ma fui portata a quella che era la loro casa e mi
diedero il
permesso di restare tutto il tempo di cui avevo bisogno. Iniziai a
cercare
qualcosa… Qualsiasi cosa che provasse che non era vero, che
era tutto un grande
errore, ma trovai il suo diario. Pagine piene dei ricordi della
gravidanza, del
primo mese di vita, dei suoi rimorsi, dei piani del viaggio…
e ritratti piegati
di una piccola neonata in fasce e una fotografia.
- Piansi su quelle
pagine così a lungo… Per mia sorella, per suo
marito, ma soprattutto per quella
povera piccola perché… che speranze aveva potuto
avere di affrontare una
tempesta su una barchetta di legno?
- E fu allora che
iniziai a collegare ogni cosa e tutto combaciava alla
perfezione.”
- Strinsi il
braccio di
Rob, seduto proprio accanto a me. Avevo ascoltato ogni parola di quella
donna,
senza interromperla come lei aveva gentilmente richiesto, e avevo
sperato di
poter tirare un sospiro di sollievo alla fine, di capire che si
trattava di
qualche malinteso o di qualche scherzo idiota, ma il respiro non
accennava a
tornare. Anzi, ogni secondo, ogni parola, mi sentivo morire un
po’ di più.
- Nessuno dei due
fu in
grado di dire nulla, probabilmente entrambi chiedendoci quale fosse
l’inganno
che doveva esserci sotto l’intera storia, decisamente ben
elaborata; avremmo
potuto spegnarla in un secondo, ma nessuno de due fiatò, e
fu lei a continuare.
- “Io…
mi dispiace, io
non mi sarei mai permessa di venire qui, a casa vostra, a sconvolgere
la vostra
vita se non ne fossi totalmente sicura.”
- Sconvolgere?
Sconvolgere cosa? Quale vita? Non c’era proprio niente da
sconvolgere, solo
tutto da appurare e da verificare, e se anche una minima parte di
quella storia
fosse stata vera, ormai era tardi per qualsiasi cosa.
- Non
c’era nulla da
sconvolgere, se non il jet leg di questa donna che presto avrebbe fatto
ritorno
a casa sua.
- “Sono
stata due mesi a
fare ricerche e ad assicurarmi che tutto avesse un senso, ma
più andavo avanti
più capivo che non poteva esserci altra spiegazione. Non
capita tutti i giorni
di ritrovare un neonato abbandonato in una barca su un’isola
minuscola e di
trovare due cadaveri sugli scogli della stessa isola appena due mesi
dopo.”
- A quel punto fu
Rob a
parlare, prendendomi totalmente alla sprovvista. “Senta,
Donna… giusto? Io…
noi… Siamo addolorati per quello che le è
successo, ai suoi genitori, a sua
sorella, ma temo che non ci siano modi per essere totalmente sicuri che
si
tratti della stessa bambina, purtroppo. Certo le vie per esclusione
sono
consistenti ma non totalmente valide.”
- “La
vostra bambina ha
una voglia, vero?”
- Gelai, e Rob
insieme a
me. Lo sentii irrigidirsi sotto al mio tocco e divenimmo un unico pezzo
di
marmo.
- “C…
come?”
- “Una
piccola macchiolina
scura, vicino all’ombelico. Proprio come questa.”
- E nel dirlo
estrasse
dalla borsa una foto di una neonata. Era color seppia e un
po’ stropicciata ma
non avevo bisogno di colori e di una stiratura per riconoscere la mia
bambina;
ci sarei riuscita anche ad occhi chiusi.
- E
quella… quella era
proprio lei. Il piccolo fagotto che avevo trovato quella fredda notte
sulla
spiaggia, la speranza per cui avevo lottato, il piccolo angelo che era
entrato
nella mia vita, con quella sua peculiare macchiolina scura che avevo
sempre
adorato e che ora diventava un banale segno di riconoscimento, un
infame
traditore.
- A quel punto la
mia
gola già secca si prosciugò totalmente e, sebbene
volessi, non ebbi la forza di
dire nulla.
- “La
piccola si chiama
Sophie, Sophie Charlotte Bennett ed è nata il 7 novembre
2012. Ecco, è scritto
tutto sul diario. Potete tenerlo per un po’, se volete, e
leggerlo.”
- Non osai nemmeno
allungare la mano per afferrare il quaderno di cuoio marrone che ci
stava
allungando, né lo fece Rob, così lo depose
semplicemente sul piccolo tavolino
che separava il nostri divano dal suo.
- Calò
un silenzio
assordante e decisi di porre fine a tutto e andare al punto.
L’ansia mi stava
uccidendo e non potevo sopportare di vivere altri cinque minuti a
chiedermi cosa
quella donna volesse effettivamente da noi.
- “Io…
la ringrazio per
averci cercati ed essersi accertata di tutto prima di venire qui
ma… mi
sfuggono i suoi scopi ad essere sincera. Si è presentata
affermando che la
bambina è sua ma noi abbiamo concluso le procedure di
adozione già tre anni fa
perciò…”
- “Sì,
lo so… Ma tra le
cose di mia sorella ho trovato anche questo.”
- Ancora una volta
dovetti sopportare la vista di quella mano che allungava un qualcosa
sotto i
nostri occhi e mentre l’afferravo riuscivo solo a chiedermi
quando sarebbe
finita quella atroce tortura; e invece mi bastò
un’occhiata su quel foglio per
rendermi conto che era appena cominciata.
- Era un
testamento. Era
un cazzo di testamento firmato, timbrato e controfirmato da un notaio,
in data
3 dicembre 2012, in cui la suddetta Meredith dichiarava, in caso di
morte o
scomparsa, di lasciare il suo unico vero bene alla sorella, Donna
Blake, che si
sarebbe presa cura della bambina provvedendo ai suoi bisogni e
perseguendo il
suo bene e la sua felicità.
- Se qualcuno mi
avesse
chiesto in quale momento della mia vita mi sono sentita morire, adesso
avrei
saputo rispondere senza esitazioni.
- Rob strinse il
foglio
in un pugno e prese a respirare in modo molto irregolare.
- “Sono
passati anni
ormai. Questo non può avere ancora validità dopo
tutto quello che è successo e
dopo tutto il tempo che è passato.”
- “Lo
pensavo anche io,
ma come vi ho detto mi sono bene informata prima di venire da voi e,
certo non
è un caso comune, ma non sono da sottovalutare tutte le
condizioni e le
situazioni che si sono presentate per cui non si tratterebbe di un caso
fortuito.”
- “Mi
dispiace se le
rovino i piani, ma davvero pensa che le convenga iniziare una guerra
civilista
contro di noi?”
- Rob mi sorprese,
perché avrei detto le stesse cose se non mi avesse
anticipato di pochi secondi.
- “Mi
sta forse
minacciando?”
- “Non
mi permetterei
mai, ma non ho di certo intenzione di abboccare all’amo al
primo colpo.
Contatteremo i nostri avvocati e andremo in fondo a questa
storia.”
- “Non
chiedo altro. So
che posso apparire come la cattiva di turno qui, e se avrò
torto sarò la prima
a fare un passo indietro, ma se c’è una
possibilità di avere quello che mi
spetta, combatterò fino alla fine.”
- A quel punto
scoppiai.
“Quello che le spetta!? Ma crede di avere a che fare con un
pezzo di terra, per
caso!? È una bambina. Stiamo parlando di una
bambina!”
- “E non
è sua.”
- “È
mia molto più di
quanto potrebbe mai essere sua.”
- Donna
chinò il viso e
assunse un’espressione di onesto rammarico.
“Sentite, a me dispiace, davvero, e
non era mia intenzione esprimermi in questo modo. Ma lei è
l’unica famiglia che
ho, l’ultima parte che mi è rimasta di mia sorella
e lei voleva che l’avessi
io…”
- “Questo
lo vedremo...”
ringhiai tra i denti proprio mentre sentii i passi di Hope sulle scale
e la sua
vocina chiamarci già da lontano.
- “Mammaaaaa!”
urlò,
entrando nel salone e saltellando fino a gettare le braccia alla mia
vita. La
strinsi d’istinto mentre lei alzavi il viso e lo posava sul
mio petto “Mami mi
sono scocciata di giocare. Quando mangiamo? Ho fameee.”
- “Sì…
sì… ora… Ora la
mamma ti prepara qualcosa…”
- “Sophie…”
- Donna aveva
riaperto
bocca, per dire la cosa più sbagliata che potesse dire in
quel momento. Alzai
gli occhi per fulminarla ma lei non colse il mio sguardo, troppo presa
a
fissare Hope come se non credesse ai suoi occhi, come se fino ad allora
non
avesse ancora realizzato che la bambina esistesse davvero.
- Probabilmente
era
davvero quello che stava pensando, dal momento in cui notai i suoi
occhi farsi
sempre più lucidi.
- “Mamma,
chi è
Sophie…?” sussurrò Hope, nascondendo il
viso dietro il mio braccio protettivo.
- “Nessuno,
tesoro.”
- “E chi
è quetta
signora? Perché sta qui?”
- Non ebbe mai
risposta
alla sua domanda perché Rob si alzò,
improvvisamente, e la prese in braccio.
- “Penso
sia il caso che
ora se ne vada, signorina Blake.”
- Donna ci mise
qualche
secondo per elaborare quelle parole e distogliere da Hope quello
sguardo così
intrusivo e fastidioso.
- “Ce…
certo. Vi lascio
il biglietto da visita del mio legale ma di sicuro sarà lui
stesso a contattare
il vostro. Ad ogni modo io sarò in città per una
settimana, dopo di ché dovrò
ripartire quindi spero che si riesca a trovare una soluzione, almeno
temporanea, per allora.”
- “La
porta è da questa
parte” rispose Rob, imperterrito e totalmente scortese e
maleducato. Ma
d’altronde, chi poteva dargli torto?
- Io non ebbi la
forza
di muovere un muscolo; mi limitai a stare ferma sul posto e aspettare
che
quella donna uscisse di casa nostra.
- “Sei
bellissima,
piccolina…” disse ad Hope e allungò una
mano per carezzarle il viso ma lei si
scansò totalmente nascondendo la testa nel collo di Rob e
stringendo le
braccine attorno a lui.
- Fu il suo
congedo
definitivo.
- “Papi,
ma chi ela…?”
- “Nessuno,
amore mio.
Su, andiamo a mangiare qualcosa. Va tutto bene.”
- E se Hope non
fosse
stata solo un’innocente bimba di quattro anni, avrebbe capito
facilmente che
era una bugia dal modo in cui Rob la strinse a sé e la
baciò.
- Passammo tutta
la
giornata tra telefono, carte, internet e persino il codice civile, ma
non
avemmo le risposte che cercavamo e soprattutto non quelle che speravamo.
- Era ancora tutto
così
incerto da dare il mal di testa solo a pensarci. Il caso era troppo
particolare
per essere discusso per telefono per cui prendemmo appuntamento con i
nostri
legali per l’indomani.
- Hope intanto
aveva
capito che qualcosa non andava e, quando l’avevo messa a
letto, si era gettata
tra le mie braccia e aveva sussurrato: “Che succede, mami? Tu
e papà avete
litigato? Ti plego, non vi lassiate pelò! Ti
plego!”
- E se il mio
cuore
aveva smesso di battere quella mattina, ora si era proprio spezzato, in
un
milione di piccoli pezzi e mi chiesi se potesse esserci altro che
poteva
sopportare e come avrei fatto se… se…
- “No,
amore. No! Non
piangere! Non ci lasciamo. Non ci lasceremo mai… Non ti
lasceremo mai, okay?”
- Lei
annuì nell’incavo
del mio collo e vi lasciò un dolcissimo bacio, mentre io
pregavo solo di poter
essere in grado di mantenere quella promessa.
- Ci misi un
po’ a
calmarla del tutto, mi stesi accanto a lei per leggerle una storia ma
solo
quando le canticchiai qualcosa iniziò a chiudere gli occhi.
- Avrei voluto
essere
come lei in quel momento; avrei voluto qualcuno che mi dicesse che
sarebbe
andato tutto bene e che non ci saremmo mai lasciati e avrei voluto
avere quella
ingenuità necessaria per crederci senza averne il minimo
dubbio.
- Restai per molto
tempo
a guardarla dormire, come non facevo da quando le pratiche di adozione
non
erano ancora ultimate e c’era sempre la paura che ci fosse
qualche intoppo o
qualche clausola sfavorevole all’ultimo minuto; come non
facevo dall’ultima
volta in cui avevo davvero temuto che potesse non essere mia e che me
la
portassero via.
- Lasciai
scivolare una
lacrima che cadde, bagnando il suo viso. Lo carezzai con
l’indice e la
raccolsi, desiderosa di rimetterla al suo posto e piangerla ancora e
ancora
perché… non avevo la forza di piangere lacrime
nuove. Avrei voluto che almeno
nel pianto avessi una sicurezza, avrei voluto quell’unica,
sola lacrima a
scendere in continuazione, bloccata in quel frammento di tempo, senza
andare
avanti. Nascere, crescere, cadere, morire, rinascere…
- Proprio quando
chiusi
gli occhi solo un’istante per desiderare che fosse tutto un
incubo, sentii i
passi di Rob sulla porta e lo guardai, scioccamente carica di
aspettative, ma
ottenni solo una scrollata di spalle e un viso preoccupato.
- Nonostante
tutto,
venne a stendersi accanto a noi; la mia schiena contro il suo petto,
una mano
che stringeva la mia vita e le sue labbra che sussurravano al mio
orecchio che
sarebbe andato tutto bene e che non ci saremmo mai lasciati.
- E ci avevo
creduto, ci
avevo creduto davvero che, in fondo, sarebbe andato tutto bene e che
non ci
saremmo mai lasciati. Ci avevo creduto dal primo momento e ancora ci
credevo
mentre guardavo Hope ancora addormentata accanto a me. Ci avevo creduto
perché
non potevo permettermi di pensarla diversamente, ma una piccola voce
dentro di
me, me lo aveva detto di non crederci troppo altrimenti mi sarei
ritrovata
vuota, e infatti era esattamente il modo in cui mi sentivo in quel
momento:
vuota. Ed Hope era ancora con me. Non potevo immaginare quello che
avrei
provato quando me l’avrebbero portata via.
- Avevamo passato
una
settimana intera a parlare con gli avvocati ma non c’era
verso di avviare un
processo e chiuderlo prima di mesi. Era una situazione troppo
complicata, che
richiedeva verifiche e controlli precisi e studiati: un percorso troppo
lungo;
un percorso durante il quale, come stabilito dal mediatore, Hope
sarebbe dovuta
stare con la sua effettiva tutrice.
- C’era
qualcosa
riguardo i tempi di scomparsa e morte presunta che non tornava con i
tempi
dell’adozione. Nonostante i genitori di Hope fossero stati
dichiarati morti,
nessuno sapeva della bambina per cui il caso poteva effettivamente
rientrare
nelle condizioni di ignoranza del fatto stesso per cause esterne.
- Nello stato
della
California non c’erano precedenti del genere e i continui
contatti con l’isola
di Wight per verificare fatti e versioni rendevano tutto più
difficile.
- Intanto noi
portavamo avanti
la nostra causa e non ci saremmo arresi finché non avremmo
avuto nuovamente la
certezza che Hope era ormai nostra.
- Era me che
chiamava mamma, Rob che chiamava papà. Chiamava noi se aveva
fame, sete,
sonno. Se voleva giocare, se voleva che le raccontassimo una favola, se
voleva
un giocattolo, se voleva che le pettinassi i capelli… ogni
cosa, ogni piccola
cosa del suo universo girava attorno a noi e, per quanto cercassero di
convincermi del contrario, io credevo fermamente che quattro anni
è un’età abbastanza
matura per ricordare un trauma come un allontanamento da quelli che
sono i tuoi
genitori.
- Certo, ad Hope
avevamo
raccontato di come l’avevamo trovata; l’avevamo
posta come una specie di favola
di cui lei era la protagonista e ne era rimasta quasi estasiata.
Ovviamente non
poteva davvero rendersi conto di cosa volesse dire, non faceva mai
domande sui
suoi genitori perché eravamo noi. Solo noi.
- Di certo non
avrebbe
mai creduto che un’ombra del suo passato sarebbe tornata a
riprendersela. E
nemmeno noi…
- Le carezzai i
capelli
rossi e una guancia col dito proprio mentre apriva gli occhietti.
- Era ancora
stanca, si
vedeva bene. Avevamo festeggiato il suo effettivo compleanno appena la
sera
prima, il giorno prima della sua partenza, ma non eravamo riusciti a
spiegarle
come e per quale motivo sarebbe dovuta andare via da noi per un
po’.
- Avevo preferito
farlo
poche ore prima, per evitare troppe domande, lacrime e spiegazioni che
non
avrei saputo dare.
- “Ciao
mamma…” salutò
con uno sbadiglio.
- “Ciao,
amore mio…”
- “Dov’è
papi?”
- “È
giù a farti le
frittelle.”
- A quelle parole
i suoi
occhi si spalancarono e un sorriso enorme le dipinse il visto mentre
metteva a
sedersi in un secondo.
- “Flittelleeeee!
Che
belloooo! Lo vado ad aiutareeee!”
- “No,
tesoro, aspetta!”
- La fermai,
perché
proprio non potevo più rimandare, anche se non sapevo dove
avrei trovato le
forze e le parole.
- La presi in
braccio e
me la sistemai sulle mia gambe. Presi un profondo respiro e cercai di
parlarle
nel modo più sereno possibile. “Amore ti ricordi
la signora che è stata qui
ieri per il tuo compleanno?”
- Annuì.
“Donna? Quella
che ti chiama così?”
- “Sì,
lei.”
- “Okay.
Che ha fatto?”
- “No…
non ha fatto
niente. Solo che…” dio,
dammi la forza.
“Ti ricordi quando io e papà ti abbiamo parlato
della spiaggia, della barchetta
e della tua vera mamma e del tuo vero
papà…?”
- “…
quelli nella
favola?”
- “Sì,
tesoro. Quelli
nella favola. Però ora nella favola c’è
anche Donna. Lei è la sorella della
mamma che stava sulla barchetta con te… e devi andare a
stare con lei per un po’…”
- Hope assunse
un’espressione confusa.
“Pecché…?”
- Ecco.
“Beh… Perché io
e papà dobbiamo fare un viaggio lungo
lungo…”
- “E non
potto venire
con voi anche io?”
- “No,
tesoro. Questo
viaggio è troppo lungo e i bambini piccoli come te non
possono venire. È noioso
e ti stancheresti subito.”
- “Non
mi impotta.
Vollio venire pure io!”
- Scossi il capo.
“Non
puoi amore, però è davvero davvero importante che
io e papà andiamo. Vedrai che
starai bene e poi alla fine del viaggio passiamo a prenderti,
okay?”
- Non sembrava
molto okay per lei, tanto che le si
riempirono
gli occhi di lacrime.
- “Ma
pel quanto
tempo…?”
- “Poco,
coccinella. Un
mesetto e poi torniamo a prenderti. Va bene così?”
- Lei non rispose
e una
lacrima calda le scese sul viso mentre prendeva i miei capelli e li
carezzava
molo lentamente.
- “Non
potto ploprio
venire?”
- Questa volta non
riuscii a rispondere; era decisamente troppo. La strinsi semplicemente
a me e
lei si accucciò sul mio petto e si lasciò cullare
a lungo, finché Rob non entrò
in camera e trovò quello che doveva essere il quadro
più triste a cui potesse
assistere in quella situazione di merda.
- Serrò
la mascella e
gli bastò un mio cenno del capo per capire che glielo avevo
detto.
- Posò
sul comodino la
forchetta che aveva in mano e prese Hope da dietro per poi stringersela
al
petto.
- “Cucciolina,
papà ha
fatto le frittelle! Andiamo a mangiarle, su!”
- Hope scosse il
capo.
“Non le vollio.”
- “Come
non le vuoi?!
Guarda che mi sono impegnato e suono venute più buone di
sempre! Devi mangiarle
per forza!”
- “Non
ho fame…”
- “Aaaah!
Non fare la
sciocchina! Andiamo che ci mettiamo anche le gocce di cioccolata
sopra!” disse
ancora, cercando di tirarla su, prima di lasciare la stanza e lasciare
me e le
mie lacrime silenziose.
- Come un automa,
riposi
in un borsone un po’ di roba di Hope che avevo preparato la
notte prima e,
quando scesi giù, Hope e Rob mangiavano frittelle come se
nulla fosse, come se
fosse solo un altro giorno della nostra famiglia, come se fosse tutto
come
prima, tutto un incubo, tutto dimenticato, tutto andato.
- E
l’attesa snervante
che seguì la colazione fu la parte più terribile
di tutto il teatrino. Era uno
di quei momenti in cui sai che qualcosa sta per finire e vorresti solo
fermare
la tua vita nel momento adatto, un momento in cui si è
ancora tutti insieme.
- Ecco, avrei
voluto
fermare la mia vita a quella colazione di appena due ore prima, avrei
voluto
fermare tutto, avrei voluto non dover preparare Hope, lavarla e
vestirla
sapendo che non l’avrei fatto per troppo tempo, avrei voluto
non doverle
asciugare le lacrime ancora e ancora, avrei voluto non farla piangere
mai,
avrei voluto non spiegarle ancora ciò che stava succedendo
con una scusa così
futile che non reggeva col bisogno che avevo di tenerla con me per
sempre,
avrei voluto non sentire mai quel campanello, avrei voluto non doverla
lasciar
andare.
- “Okay,
tesoro. Ci
siamo. Ricorda che è solo per poco tempo e che ci vediamo
presto presto. E ti
chiamiamo due volte alla settimana perché dove andiamo non
c’è molta linea,
però ti penseremo sempre, e saremo sempre con te.”
- Presi una
collanina
dalle tasche dei jeans e gliela misi al collo. Era un semplicissimo
ciondolo a
forma di cuore con inciso Here
sopra.
- “Proprio
qui…”
premetti la mia mano sul ciondolo. “Sempre qui.”
- Hope
annuì col capo
chino e tirò su con il naso prima di gettarmi le braccia al
collo e stringermi
come mai aveva fatto fino a quel momento.
- Avrei voluto che
passasse una vita intera prima di dovermi fare forza e scendere quelle
scale
con la mia bambina in braccio.
- Il suo borsone
era già
all’ingresso, accanto a Donna che aspettava sulla porta
insieme a Rob.
- Non
l’avevo mai visto
più morto dentro come era stato in quei giorni, ma mi
bastò un secondo per
guardarlo e capire che non avevo ancora visto niente.
- Ci venne
incontro.
“Vieni qui, cucciola…”
- E Hope si
buttò tra le
sue braccia e iniziò a piangere, molto silenziosamente, come
se sapesse davvero
che non era un addio ma solo un arrivederci.
- “Un
mese. Avete
plomesso…” disse tra un respiro mozzato e un altro.
- “Un
mese, tesoro. Un
mese” promise ancora Rob e io non osai guardare Donna per
vedere qualunque
espressione avesse in viso di fronte a quella promessa. Non
c’era ragione di
prenderla in nessun modo visto che avevamo già stabilito che
per nessun motivo
al mondo avremmo rinunciato a un Natale con nostra figlia. Quella era
la nostra
festa, il nostro giorno e niente e nessuno avrebbe potuto tenerci
separati.
- Rob mise Hope a
terra
e io mi chinai insieme a loro per abbracciarla ancora.
- E lei ancora si
strinse a me, più forte di prima, come se sentisse come ogni
abbraccio potesse
essere l’ultimo, almeno per un po’.
- Eppure fu lei a
staccarsi per prima.
- Mi
carezzò una guancia
con la manina e ci guardammo negli occhi per perderci insieme e non
lasciarci
più.
- “Tu
sei la sola vela
mamma per me…”
- Il mio cuore si
spezzò, lo sentii andare in frantumi ma le sorrisi e
ricambiai la carezza.
- “Sì,
tesoro. Lo sono…”
- Ci abbracciammo
per
l’ennesima volta prima che Rob la baciasse ovunque e le
mettesse tra le mani il
suo coniglietto di pezza.
- “Non
dimenticare Mr
Rabbit. Sai che non può stare senza di te.”
- “Andiamo
Mistel
Labbit! Tanto tonniamo presto. Ciao Beal, ciao Bernie. Ci vediamo
presto. Fate
i blavi!” abbracciò i due cani che erano alti
quasi quanto lei.
- Misi una mano
davanti
la bocca per bloccare qualsiasi suono stesse per uscire e restai a
guardarla
mentre camminava verso Donna che la chiamava.
- “Su,
Sophie, o
perdiamo l’aereo. Ci sei mai stata su un aereo? È
bellissimo! Ti ho prenotato
il posto accanto al finestrino così puoi vedere tutto e in
borsa ho gli Oreo
per il viaggio. So che ti piacciono molto, vero? Ho anche
l’iPad con me, con
tanti giochi sopra per passare il tempo. Tu lo sai usare? Io sono
negata,
magari mi insegni. Vedrai che starai bene, te lo prometto.”
- Hope aveva
già preso
molti aerei, amava gli Oreo e sapeva usare un iPad abbastanza bene, ma
non
rispose a nessuna delle sue domande.
- “Io mi
chiamo Hope” fu
tutto quello che disse prima di voltarsi a guardarci.
- “Un
mese… plomesso?”
sussurrò sperando che Donna non la sentisse.
- “Promesso…”
sussurrai
anche io e le lanciai un bacio.
- Lei lo
afferrò, come
facevamo sempre, e me lo rimandò. Lo afferrai anche io e
posai la mano sul
cuore.
- Lei strinse il
ciondolo e Mr Rabbit e si voltò per l’ultima
volta, perché non ci guardò più
mentre percorreva il vialetto e saliva sul taxi.
- Quella era stata
l’ultima
immagine che aveva voluto conservare di noi ed ero contenta
perché, almeno per
lei, il mio cuore era ancora intatto.
- Inutile dire che
quelli che seguirono furono i quarantacinque giorni più
lunghi, lenti e pesanti
della mia vita. il tempo sembrava non passare mai e vivevo praticamente
in
funzione delle telefonate settimanali con Hope che, puntualmente, ci
chiedeva
cosa stessimo facendo esattamente e quanto tempo ancora ci avremmo
impiegato.
- Sapere di essere
lontana da lei ma di poterla raggiungere quando avrei voluto e non
poterlo
fare, rendeva tutto terribilmente frustrante. Inizialmente avevo anche
pensato
di trasferirci sull’isola così da poterla vedere;
non importava tanto che lei
vedesse noi, ma almeno avrei avuto la certezza visiva di come stesse.
Rob
ovviamente aveva bocciato l’idea ricordandomi le parole del
mediatore
sull’essere quanto più aperti e disponibili
possibili durante la risoluzione
definitiva della cosa. Mostrarci gentili e accondiscendenti a tutto
ciò che era
reputato sano e per il bene di Hope, non avrebbe fatto altro che
metterci in
luce davanti al giudice; c’era un unico particolare che
però stonava in quella
canzone mal accordata: il bene per Hope eravamo noi. Io lo sapevo, il
mediatore
lo sapeva, forse lo sapeva anche Donna eppure faceva di tutto per
tenersi
quella parte di vita che, in fondo, non le era mai appartenuta.
- E più
andavamo avanti
con i giorni, più Hope era entusiasta del nostro ritorno,
più mi rendevo conto
che avrei dovuto dirle che non era sicuro che significasse che lei
potesse
tornare con noi. Inizialmente non lo avevo fatto perché
speravo che le cose si
risolvessero nel giro di un mese, poi non avevo semplicemente avuto il
coraggio, ed ora ero lì. Sull’isola di Wight,
sullo stesso suolo di mia figlia;
avrei potuto girare per l’isola fino a trovarla e sperare di
incontrarla per
strada ma non potevo scombussolare i piani in quel modo. Eravamo attesi
per il
giorno dopo in modo da passare la vigilia di Natale e il giorno di
Natale
insieme, come avevamo sempre fatto, ma io non potevo non pensare a un
albero di
Natale che non era stato addobbato con noi, a vestitini rossi che non
ero stata
io a metterle, a calze che non erano state appese al camino.
- C’era
qualcosa di
tremendamente sbagliato in tutto ciò; nulla aveva senso. Era
semplicemente
sbagliato.
- Persa nei miei
pensieri non mi ero nemmeno accorta di aver lasciato la veranda e aver
preso a
camminare per la spiaggia finché non avevo raggiunto quel
posto che da cui io e
Rob esprimevamo i nostri desideri da sempre.
- Peccato che il
cielo
fosse ancora troppo chiaro; avrei tanto voluto vedere almeno una
stella, anche
se non fosse stata cadente, solo per sperare che Hope stesse bene. Non
sarebbe
dovuta cadere per me; poteva restarsene lì a vegliare sulla
mia bambina e io
non avrei mai voluto che cadesse.
- Ero
così catturata
dalle immagini dei miei desideri da credere di stare sognando quando
sentii
l’inconfondibile vocina di Hope mormorare qualcosa che non
riuscii a capire.
- Forse stavo
decisamente sognando, pensai; ma poi giunse forte e chiara, di nuovo.
- “Ecco!
È quetto! Ci
siamooooo!”
- E io mi voltai e
dalla
piccola altura di scogli su cui mi trovavo, la vidi, a metà
spiaggia, la mia
bambina che si faceva strada tra quei luoghi così familiari
per lei. Doveva
averli cercati tanto durante quel mese, pensai mentre mi soffermai a
guardarla
aspettando che alzasse gli occhi solo un secondo e si accorgesse di me.
- Doveva farlo.
Doveva
alzare il capo e vedermi. Non potevo chiamarla, non potevo interferire,
ma se
era destino allora avrebbe alzato il viso e mi avrebbe vista.
- E lo fece. Fu
una
frazione di secondi in cui sicuramente anche lei credette di stare
sognando, ma
poi ci guardammo meglio e ci riconoscemmo all’instante.
- “MAMMAAAAA!”
ripeté
diverse volte mentre correva verso di me e solo il sentire di nuovo
quel suono
mi fece capire quanto mi fosse mancato davvero, quanta fosse stata
enorme la
mia paura di non sentirlo mai più.
- Le corsi
incontro a
mia volta e la presi in braccio. La strinsi a me più forte
che potevo e la
baciai ovunque mentre lei continuava a chiamarmi.
- “Lo
sapevo che stavi
qui! Pelò siete in ritaddo! Avevate detto un mese e invece
sono passati più
gionni!”
- Non avrei mai
creduto
che se ne potesse accorgere o che portasse il conto ma era evidente che
la
lontananza non aveva giovato a nessuno, su nessun fronte.
- “Hai
ragione, amore.
Scusaci!”
- “Non
fa niente! Tanto
ola non ve ne andate più velo?”
- Non risposi, e
la
baciai ancora.
- “Mamma,
dov’è papà?”
mi disse all’orecchio.
- “A
casa, amore mio.”
- “Lo
vollio vedeleeee!
Andiamo a casa! Dai, dai!”
- Fu allora che mi
resi
conto che non eravamo inosservate, che non potevamo esserlo. A dire la
verità
l’avevo notato anche prima ma avevo deliberatamente ignorato
gli occhi che
avevamo addosso.
- Sistemai Hope su
un
fianco e mi avvicinai a Donna, accompagnata da una donna di colore
sulla
quarantina.
- “Kristen…”
sussurrò
Donna abbozzando un sorriso che sicuramente era un tentativo di celare
la sua
contrarietà.
- “Donna…”
risposi a
tono.
- “Siete
venuti prima.”
- “Un
giorno di
anticipo, non mi sembra molto.”
- “No…
sono solo…
sorpresa…”
- Annuii e avrei
voluto
chiedere come andassero le cose ma mi bloccai per due ragioni: prima di
tutto
mi resi conto che per nessun motivo mi avrebbe detto che le cose non
andavano
bene, soprattutto perché lo avevo chiesto mille volte
durante le telefonate e
lei non faceva che confermare che Hope si stesse abituando alla nuova
vita, in
secondo luogo non me lo permise e scansò ogni eventuale
possibilità
presentandomi la donna accanto a lei.
- “Lei
è Keira, una mia
amica africana venuta qui a trovarmi e a passare le feste con
me.”
- “Keira
è troppo blava,
mamma! Sa fale i dolci più buoni del mondo, dopo di te
pelò!”
- Le sorrisi e
chinai la
mia fronte sulla sua guancia per qualche secondo.
- “Dai,
Hope, ora
andiamo o si fredda la cena.”
- Non mi lasciai
sfuggire il suo chiamarla per nome e non Sophie. Pensai che dovesse
aver
rinunciato.
- Quello che mi
sorprese
davvero fu la risposta di mia figlia.
- “Ma
non hai ancola
nemmeno cucinato! E io non la mangio la robba tua ora che sta mamma
qui!”
- Va bene che
sarei
stata più che felice di portarmela a casa e cucinare per lei
ma non era il modo
di rispondere con cui era stata educata da me e Rob.
- “Hope!
Non si risponde
così! Chiedi subito scusa!”
- “Ma
mamma, è velo!”
- “Chiedi
scusa.”
- Sbuffò
e nascose il
viso nel mio collo. “Cuuuusa…”
sbiascicò e io percepii anche un uffa
da qualche parte.
- “Però
potto venie co
te, velo?”
- Perché
continuava a
chiedermi cosa a cui potevo rispondere solo di no?
- “Domani,
tesoro.
Domani veniamo io e papà da te e passeremo tutta la giornata
insieme e anche il
giorno dopo! Però ora devi andare ancora con
Donna…”
- “Uffa,
mami… Non ce la
faccio più io…”
- Poche parole che
però
sembrarono dettate davvero da una genuina stanchezza di tutta quella
situazione, troppo strana per lei da poterla capire. Io avrei solo
voluto
portarla a casa con me, da Rob, e passare il Natale solo noi tre.
- E invece fui
costretta
a separarmi da lei ancora una volta.
- “Andiamo
Tumaini.
Keira prepara piatto che piace tanto.”
- “Tu…
Tumaini…?”
- “Significa
speranza in
mia lingua.” Mi spiegò Keira mentre allungava le
braccia verso Hope che, con le
lacrime agli occhi, mi lasciò un bacetto sulla bocca prima
di andare in braccio
alla sua amica.
- “Domani,
mamma. Hai
plomesso. Non rompele altre plomesse, okay?”
- Con cuore in
mano
annuii e le mandai un bacio, e lei l’afferrò,
portandosi anche il mio cuore.
- Dopo il racconto
del
mio piacevole incontro, Rob era decisamente più fremente di
me all’idea di
rivedere Hope di nuovo e non potevo certo biasimarlo.
- Vedere la nostra
bambina saltargli addosso e chiamarlo papà come se fosse la
parola più
importante del mondo, bastò a rimettere insieme i pezzi
perduti nel mio cuore.
- Per un paio di
giorni
potevo cercare di concentrarmi sul fatto che eravamo insieme e non
preoccuparmi
di altro, anche se era maledettamente difficile.
- Hope chiamava me
o Rob
per ogni minima cosa, proprio come se per lei nulla fosse cambiato in
quel mese
e mezzo: nel suo piccolo mondo andava tutto bene, noi eravamo tornati e
tutto
era tornato al posto giusto.
- Mi resi sempre
più
conto che avrei dovuto dirle la verità, quella
più comprensibile per lei, il
prima possibile.
- Nonostante il
clima di
tensione per la buffa situazione, la giornata passò in
armonia e decisamente
troppo velocemente.
- Avevamo portato
ad
Hope una montagna di regali e lei si era limitata a dire che avremmo
potuto
scartarli a casa nostra così non ci sarebbe stato bisogno
poi di spostarli da
un posto all’altro; fu la prima di molte occasioni mancate
per dirle quel
briciolo di verità che mi ero ripromessa di confessarle.
- La sera
arrivò troppo
presto e Hope si era accoccolata sul petto di Rob, pronta a dormire.
- “Mami,
mi fai il latte
coi biscotti?”
- “Certo,
tesoro mio.”
- Quando Donna
rispose
per me, a freddarla ci pensò la bambina stessa.
- “No,
ho detto mamma.
Mami, me lo fai tu?”
- “Sì,
amore… Te lo
faccio io…”
- Le diedi un
bacio sul
nasino e uno veloce a Rob.
- Mi concessi una
rapida
occhiata a Donna e, nonostante l’astio di mia figlia,
sembrò così intenta a guardarla
tra le braccia di Rob, così persa nei suoi pensieri che per
un momento sperai
quasi che stesse pensando di lasciar perdere tutto e lasciarla tornare
a casa
con noi.
- Ma sapevo che
non
poteva essere così semplice; scossi il capo prima di
dirigermi nella cucina,
nonostante non sapessi dove fosse tutto.
- Era assurdo.
Dovevo
preparare un semplice biberon di latte e biscotti a mia figlia e non
sapevo
dove mettere le mani.
- Keira fu la mia
salvezza. Aveva sentito Hope dall’altra stanza e mi
aiutò volentieri.
- “Lei
deve essere brava
mamma” disse mentre aspettavo che il latte si riscaldasse.
- Le sorrisi ma
non
riuscii a rispondere a quella affermazione se non con
un’altra domanda. “Lei
come sta?”
- E sperai che da
quella
donna dagli occhi scuri e grandi come il mare avrei auto una risposta
sincera.
- “Tumaini
non felice
qui. Sono da poco qui ma vedo che lei non felice. Lei contato i giorni
su
calendario, aspettava vicino telefono ogni lunedì e
venerdì, ieri riso per la
prima volta davvero quando ha visto lei.”
- Lo sapevo.
- “Io
capisco Donna.
Quando genitori abbandonano o muoiono tu pensi sempre come poteva
essere se non
era successo. Lei vuole dare Tumaini questa possibilità e
non capisce che tutte
vite sono diverse e che non puoi decidere vita di altri.”
- La guardavo
attentamente
e mi sembrò di vederla commuoversi ma non potevo esserne
certa. Per un secondo
lasciai ogni pensiero concentrato su di me e fui trasportata dalla
voglia di
sapere la storia di quella donna, ma non era né il momento
né il luogo.
- “Io ho
detto Donna:
lascia stare bambina, lascia andare, tu non sei meglio per lei. Ma lei
non
ascolta. Pensa di fare torto a sorella e vuole fare…
emm… mend… Non so come
dice…”
- “Ammenda?”
- “Sì!
Quello. Vuole
perdono. Lei davvero ama Hope, lo vedi. Ma sappiamo che non
è meglio per lei.
Dottori dicono che bambina è piccola, che dimentica prima o
poi. Io dico di no.
Quei occhi non dimenticano e anche se memorie sfocano, cuore sta sempre
fermo.
E cuore di Tumaini è fermo. Batte solo con voi. E Donna non
capisce e vuole
solo tenerla tutta lei. Vuole chiamare avvocato e chiedere restrizione,
non so.
Non conosco vostra legge.”
- Lei poteva non
conoscere la legge ma io avevo ben capito quelle che erano le
intenzioni di
Donna e se lo cose si fossero messe male sarebbe riuscita nel suo
intento con
un parere di uno psicologo. Bastava semplicemente appurare che la
bambina non
dovesse più vedere me e Rob per lasciare che si dimenticasse
di noi facilmente.
- Se pensava di
riuscirsi, però, aveva decisamente sbagliato bersaglio.
- Fui sollevata
dai miei
pensieri da Keira stessa che mi passava il biberon ormai caldo.
- “Tu
sei brava mamma.
Fai cosa giusta per tua figlia.”
- Le sorrisi, la
ringraziai di cuore e tornammo in salotto insieme.
- Hope prese il
suo
biberon e si accucciò ancora di più tra le
braccia di Rob.
- “Amore,
vuoi andare a
nanna, che dici?” le sussurrò Rob e lei
annuì.
- “Solo
se resti a
raccontammi una stolia però!”
- “Va
bene, una sola
però, okay?”
- Annuì
ancora. “Tanto
domani tonniamo a casa e me ne racconti tutte le volte che
voglio.”
- Ecco, era giunto
il
momento e questa volta non potevamo più evitare.
- Keira
capì senza che
ci fosse bisogno di parlare e trascinò Donna con
sé in cucina.
- “Tesoro,
domani non
torniamo a casa.”
- Questa volta fu
Rob a
parlare e gliene fui grata perché io davvero non avrei
sopportato altre
conversazioni del genere.
- “Pecchè…?”
sussurrò
Hope, allontanando il biberon dalla sua bocca.
- “Vedi,
devi stare qui
un altro po’. Non lo abbiamo deciso noi e lo so che
è difficile per te capirlo,
ma devi farlo finché mamma e papà non aggiustano
un po’ di cose…”
- “Voi
volete solo viaggiale
senza di me! Aveva lagione Donna quando diceva che non mi volevate
più!”
- “Cosa?
Tesoro, no! Non
è così!”
- Se avessi potuto
avere
quella stronza tra le mani in quel momento, l’avrei uccisa
senza rimorsi.
- “Sì,
invece! Voi
volete liberavvi di me!”
- “No,
amore, no…”
- “No!
Avevi detto che
tonnavo con voi! State solo lompendo le plomesse! Siete dei bugiardi!
Bugiardi!”
- Gettò
a terra il
biberon e Mr. Rabbit e carica di rabbia scese dalle gambe di Rob e
corse sopra.
- Restammo in
silenzio
per diversi minuti, ognuno perso nei proprio pensieri,
finché non ritenemmo
opportuno andare da lei a controllare come stesse e a cercare di farle
capire
come stessero davvero le cose, ma alle scale non ci arrivammo mai,
catturati
nell’attenzione dalla voce di Donna proveniente dalla cucina.
- Non riuscimmo a
capire
se stesse parlando da sola, o al telefono o con Keira dal momento in
cui non vi
era risposta a nessuna delle sue parole. Era un monologo interiore
espresso ad
alta voce.
- “Non
si può andare
avanti così… Non si può. Lei non
dimenticherà mai in questo modo, vedendoli
ogni giorno.”
- Tremai.
- “Penso
di non avere
scelta… Anche se farà male… ho preso
la mia decisione.”
- E quelle parole furono
come un fulmine che squarciava il cielo in due metà
imperfette e mi lasciava
nella metà sbagliata; la metà in cui non avrei
più rivisto la mia bambina.
- _______________________
- Okay, precisiamo che non siamo né avvocati, né giudici, né esperte di legge e bla bla, quindi se le cose non vanno davvero così (cioè al 90% HAHAHA) concedeteci questa licenza letteraria. Insomma, io so che la morte presunta, in Italia, è dichiarata 10 anni dopo la scomparsa, (e se non sbaglio ora il termine si è abbassato anche a 5 anni) e solo 2 anni per fenomeni naturali, e bla bla... Ma la legge inglese e statunitense proprio non so, quindi ho preferito mettere in mezzo il processo di mediazione che comunque dovrebbe essere valido in una ipotetica situazione del genere... Spero di non aver scritto troppe stronzatine in ogni caso haha
- Mh, penso non ci sia altro da chiarire su questo capitolo.
- Ah! La storia di Hope e tutto quello che c'è dietro. Credeteci: abbiamo passato ore e ore a telefono e su whatsapp a cercare di trovare qualcosa di meno complicato e improbabile ma ogni volta spuntava un "Però così non sarebbe possibile perchè..." ecc ecc... Quindi questa storia è venuta fuori davvero per miracolo, insomma... HAHAHA Boh, visto che è una FF, tutto può accadere, no? u.u Anche che ci sia un lieto fine... huahua
- Detto questo... Mi raccomando, mangiate tutte le schifezze della calza oggi perchè da domani DIETA! AHAHAHA ceeeerto... crediamoci....
- Voglio proprio vedere quante partiranno con questo intento e abbandoneranno dopo pranzo AHAHAHA (io sarò una di queste, già lo so ahaha)
- Vabbè, la smetto LOL
- Buona fortuna con i chili di troppo u.u
- E se non ne avete, andate amabilmente a quel paese, grazie u.u
- Un bacio, buona serata e buon rientro a scuola per chi deve rientrare! (noi no, muhauahuha)
- Che cattive stasera u.u hahaha
- A presto con l'ultimo capitolo!
- Cloe&Fio xx