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Autore: Fiorels    06/01/2013    13 recensioni
Si dice che in ogni vita ci sia un punto di svolta. Un momento così chiaro e definito da farti sentire come se fossi stato colpito al petto, non potessi più respirare e il tuo cuore sappia, semplicemente sappia, senza la più piccola ombra di dubbio, che la tua vita non sarà mai più la stessa.
Per me, Kristen Stewart, quel momento fu quando per la prima volta posai gli occhi su di lei.
Nulla fu più come prima.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kristen Stewart, Robert Pattinson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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HNL - cap 1
Salve gente!

Prima di tutto, ci scusiamo per il ritardo e voglio essere sincera: dobbiamo ancora scrivere l'ultimo capitolo quindi ci siamo prese un pò di tempo AHAHA Onestà, portami via :') AHAHAHA
Ma si sa, è periodo di feste: gente da vedere, roba da mangiare, regali da fare, roba da mangiare, parenti che invadono casa, ancora roba da mangiare....
AHAHA sfido chiunque ad affermare di non essere ingrassato almeno un chilo in queste feste .___.
Oggi è pure la befana, stamm' appost'! HAHAHA
Vabbè, le vostre befanine vi lasciano il capitolo!
Speriamo vi piaccia! Ci sentiamo in fondo :)

*________*
un bacio,
Cloe&Fio

(suggerimento musicale) - che io amo adgfkjadfs ç_ç



 
Pov Kristen
“Non ho mai conosciuto i miei genitori, tutt’oggi non ho nemmeno idea di chi siano. Ho vissuto i primi cinque anni della mia vita in un orfanotrofio, uno di quelli vecchi dove ci sono suore che dovrebbero prendersi cura di te ma in realtà non fanno altro che renderti tutto più difficile. Ero una delle più piccole lì. Non potevano occuparsi di neonati e i bambini più piccoli di me erano sempre e comunque preferiti, tanto che mi chiedessi come facevano le bambina di dieci anni ad avere ancora speranza di essere adottate. Alcune non ci credevano più, infatti. Meredith era una di queste. La conobbi un giorno in cui strillavo come una pazza perché volevo la mia mamma, perché volevo sapere dove fosse, e lei mi prese in braccio, mi cullò e mi disse che sicuramente era in cielo, ma che se le parlavo poteva sentirmi lo stesso. Non so se avesse ragione, ma decisi di crederle e da quel momento fummo inseparabili per molto tempo. Lei era due anni più grande di me, per cui, quando ce lo dissero, fu difficile credere che una coppia fosse interessata a prendere due bambine, di cui una già abbastanza grandicella. Eppure fu così. Fummo adottate insieme, lo stesso giorno, dalla stessa coppia che ci fece sentire a casa in poco tempo.
Joseph e Juliet Blake erano… persone speciali. Quel tipo di persone da cui puoi aspettarti solo bene. Io presi a chiamarli mamma e papà dopo qualche mese, Meredith non ci riuscì mai e in cuor mio sapevo che quelle volte che lo faceva, lo faceva solo per me. In cuor mio sapevo che, in fondo, era uno spirito libero e che si trovava in quella casa solo ed esclusivamente per me… Nonostante questo, fu un duro colpo quando a venti anni, fece le valigie e lasciò casa. Aveva conosciuto un ragazzo Amish e, beh, non so se voi sappiate qualcosa della loro cultura… Sono una comunità religiosa, arretrati, chiusi, attaccati a dei principi guida che li tengono quanto più possibile lontani dalla civilizzazione. Vivono per conto loro, nelle loro comunità ristrette, piccole o grandi che siano. Non è difficile immaginare che i nostri genitori non fossero per nulla d’accordo con questo connubio. Avevano grandi piani per noi: Meredith aveva iniziato la facoltà di medicina, le piaceva anche, voleva diventare una ginecologa o una pediatra, ancora non lo sapeva, ma le piaceva.
Ma forse è vero quello che si dice, che l’amore rende ciechi… perché lei non guardò in faccia a nessuno e non esitò a voltarci le spalle per seguirlo, nonostante le differenze culturali. Era così presa e innamorata da rinunciare a quello che era per diventare qualcun altro, qualcuno di nuovo insieme a lui, e noi cosa potevamo fare?
I nostri genitori tennero il punto, convinti che prima o poi sarebbe tornata sui suoi passi e impedirono anche a me di avere rapporti con loro; per molto tempo non sono riuscita a rintracciarli in nessun modo e mi convinsi io stessa che, in fondo, era meglio così, che lei non volesse essere trovata, che dopotutto era una vita che non aveva mai voluto veramente… Così la lasciai andare.
Gli anni passarono e ormai Meredith era diventata solo un ricordo nel cuore e una fotografia sul comodino…
Quando i nostri genitori morirono in un incidente d’auto, circa sei anni fa, decisi di scriverle. Dovevo metterla al corrente, volevo che fosse presente per loro e per me, volevo che ci fosse per capire come ogni cosa passi in secondo piano davanti alla morte… Ma lei non si presentò. Le scrissi ancora dicendole che… che era un’ingrata, che avrebbe potuto fare uno sforzo e che la odiavo, ma che ero ancora disposta a chiarire e se avesse voluto poteva raggiungermi sull’isola di Wight dove mi sarei trasferita in una casa lasciataci in eredità dai nostri genitori. Ancora una volta non ebbi risposta; mi chiesi anche se avesse effettivamente ricevuto quelle lettere ma darmi il tormento non serviva a nulla, così la lasciai andare, ancora una volta. Pensavo che sarebbe stata la definitiva, quando a inizio febbraio 2013 ricevetti una telefonata che mi informava del ritrovamento di due corpi in mare, nei pressi dell’isola, e del bisogno di un accertamento della loro identità.
Mi bastò guardare una sola volta per perdere tutto ciò che era rimasto della mia famiglia. Il dolore di aver perso tutto, la rabbia, la consapevolezza che era colpa mia mi portarono a partire, nemmeno un mese dopo, per una missione di volontariato in Africa. Dovevo restarci un anno, ma poi divennero due, poi tre…
L’Africa era semplicemente il luogo perfetto per dimenticare il mio dolore e pensare a quello degli altri. Mi ci sono rifugiata per tanto tempo prima di capire che non potevo davvero aiutare chi soffriva più di me se non avessi risolto le mie proprie sofferenze, così sono tornata in America, sono andata in Ohio, alla comunità di Amish in cui, sapevo, appartenevano mia sorella e il marito.
Era giunto il momento di affrontare il passato e cercare delle risposte che mi liberassero del mio senso di colpa… e le trovai! Ma non furono la sola cosa che scoprii quando mi recai lì.
Quando mi presentai a raccontai di ciò che era successo a Meredith, nessuno sapeva niente, credevano che avessero semplicemente deciso di partire e che si fossero staccati dalla vita Amish. In fondo non era per nulla concepito per loro prendere un aereo e raggiungere Londra, anche se era per rivedere una sorella perduta…
Fu allora, quando insieme iniziarono a pregare per le loro anime e per quella della povera piccola, che scoprii che Meredith aveva avuto una bambina.
Mia sorella era incinta e io non lo sapevo nemmeno. Si era messa su una barca con una bambina di un mese per raggiungermi e l’ultima cosa che aveva ricevuto da me era solo odio…
Non potevo crederci all’inizio, ma fui portata a quella che era la loro casa e mi diedero il permesso di restare tutto il tempo di cui avevo bisogno. Iniziai a cercare qualcosa… Qualsiasi cosa che provasse che non era vero, che era tutto un grande errore, ma trovai il suo diario. Pagine piene dei ricordi della gravidanza, del primo mese di vita, dei suoi rimorsi, dei piani del viaggio… e ritratti piegati di una piccola neonata in fasce e una fotografia.
Piansi su quelle pagine così a lungo… Per mia sorella, per suo marito, ma soprattutto per quella povera piccola perché… che speranze aveva potuto avere di affrontare una tempesta su una barchetta di legno?
E fu allora che iniziai a collegare ogni cosa e tutto combaciava alla perfezione.”
Strinsi il braccio di Rob, seduto proprio accanto a me. Avevo ascoltato ogni parola di quella donna, senza interromperla come lei aveva gentilmente richiesto, e avevo sperato di poter tirare un sospiro di sollievo alla fine, di capire che si trattava di qualche malinteso o di qualche scherzo idiota, ma il respiro non accennava a tornare. Anzi, ogni secondo, ogni parola, mi sentivo morire un po’ di più.
Nessuno dei due fu in grado di dire nulla, probabilmente entrambi chiedendoci quale fosse l’inganno che doveva esserci sotto l’intera storia, decisamente ben elaborata; avremmo potuto spegnarla in un secondo, ma nessuno de due fiatò, e fu lei a continuare.
“Io… mi dispiace, io non mi sarei mai permessa di venire qui, a casa vostra, a sconvolgere la vostra vita se non ne fossi totalmente sicura.”
Sconvolgere? Sconvolgere cosa? Quale vita? Non c’era proprio niente da sconvolgere, solo tutto da appurare e da verificare, e se anche una minima parte di quella storia fosse stata vera, ormai era tardi per qualsiasi cosa.
Non c’era nulla da sconvolgere, se non il jet leg di questa donna che presto avrebbe fatto ritorno a casa sua.
“Sono stata due mesi a fare ricerche e ad assicurarmi che tutto avesse un senso, ma più andavo avanti più capivo che non poteva esserci altra spiegazione. Non capita tutti i giorni di ritrovare un neonato abbandonato in una barca su un’isola minuscola e di trovare due cadaveri sugli scogli della stessa isola appena due mesi dopo.”
A quel punto fu Rob a parlare, prendendomi totalmente alla sprovvista. “Senta, Donna… giusto? Io… noi… Siamo addolorati per quello che le è successo, ai suoi genitori, a sua sorella, ma temo che non ci siano modi per essere totalmente sicuri che si tratti della stessa bambina, purtroppo. Certo le vie per esclusione sono consistenti ma non totalmente valide.”
“La vostra bambina ha una voglia, vero?”
Gelai, e Rob insieme a me. Lo sentii irrigidirsi sotto al mio tocco e divenimmo un unico pezzo di marmo.
“C… come?”
“Una piccola macchiolina scura, vicino all’ombelico. Proprio come questa.”
E nel dirlo estrasse dalla borsa una foto di una neonata. Era color seppia e un po’ stropicciata ma non avevo bisogno di colori e di una stiratura per riconoscere la mia bambina; ci sarei riuscita anche ad occhi chiusi.
E quella… quella era proprio lei. Il piccolo fagotto che avevo trovato quella fredda notte sulla spiaggia, la speranza per cui avevo lottato, il piccolo angelo che era entrato nella mia vita, con quella sua peculiare macchiolina scura che avevo sempre adorato e che ora diventava un banale segno di riconoscimento, un infame traditore.
A quel punto la mia gola già secca si prosciugò totalmente e, sebbene volessi, non ebbi la forza di dire nulla.
“La piccola si chiama Sophie, Sophie Charlotte Bennett ed è nata il 7 novembre 2012. Ecco, è scritto tutto sul diario. Potete tenerlo per un po’, se volete, e leggerlo.”
Non osai nemmeno allungare la mano per afferrare il quaderno di cuoio marrone che ci stava allungando, né lo fece Rob, così lo depose semplicemente sul piccolo tavolino che separava il nostri divano dal suo.
Calò un silenzio assordante e decisi di porre fine a tutto e andare al punto. L’ansia mi stava uccidendo e non potevo sopportare di vivere altri cinque minuti a chiedermi cosa quella donna volesse effettivamente da noi.
“Io… la ringrazio per averci cercati ed essersi accertata di tutto prima di venire qui ma… mi sfuggono i suoi scopi ad essere sincera. Si è presentata affermando che la bambina è sua ma noi abbiamo concluso le procedure di adozione già tre anni fa perciò…”
“Sì, lo so… Ma tra le cose di mia sorella ho trovato anche questo.”
Ancora una volta dovetti sopportare la vista di quella mano che allungava un qualcosa sotto i nostri occhi e mentre l’afferravo riuscivo solo a chiedermi quando sarebbe finita quella atroce tortura; e invece mi bastò un’occhiata su quel foglio per rendermi conto che era appena cominciata.
Era un testamento. Era un cazzo di testamento firmato, timbrato e controfirmato da un notaio, in data 3 dicembre 2012, in cui la suddetta Meredith dichiarava, in caso di morte o scomparsa, di lasciare il suo unico vero bene alla sorella, Donna Blake, che si sarebbe presa cura della bambina provvedendo ai suoi bisogni e perseguendo il suo bene e la sua felicità.
Se qualcuno mi avesse chiesto in quale momento della mia vita mi sono sentita morire, adesso avrei saputo rispondere senza esitazioni.
Rob strinse il foglio in un pugno e prese a respirare in modo molto irregolare.
“Sono passati anni ormai. Questo non può avere ancora validità dopo tutto quello che è successo e dopo tutto il tempo che è passato.”
“Lo pensavo anche io, ma come vi ho detto mi sono bene informata prima di venire da voi e, certo non è un caso comune, ma non sono da sottovalutare tutte le condizioni e le situazioni che si sono presentate per cui non si tratterebbe di un caso fortuito.”
“Mi dispiace se le rovino i piani, ma davvero pensa che le convenga iniziare una guerra civilista contro di noi?”
Rob mi sorprese, perché avrei detto le stesse cose se non mi avesse anticipato di pochi secondi.
“Mi sta forse minacciando?”
“Non mi permetterei mai, ma non ho di certo intenzione di abboccare all’amo al primo colpo. Contatteremo i nostri avvocati e andremo in fondo a questa storia.”
“Non chiedo altro. So che posso apparire come la cattiva di turno qui, e se avrò torto sarò la prima a fare un passo indietro, ma se c’è una possibilità di avere quello che mi spetta, combatterò fino alla fine.”
A quel punto scoppiai. “Quello che le spetta!? Ma crede di avere a che fare con un pezzo di terra, per caso!? È una bambina. Stiamo parlando di una bambina!”
“E non è sua.”
“È mia molto più di quanto potrebbe mai essere sua.”
Donna chinò il viso e assunse un’espressione di onesto rammarico. “Sentite, a me dispiace, davvero, e non era mia intenzione esprimermi in questo modo. Ma lei è l’unica famiglia che ho, l’ultima parte che mi è rimasta di mia sorella e lei voleva che l’avessi io…”
“Questo lo vedremo...” ringhiai tra i denti proprio mentre sentii i passi di Hope sulle scale e la sua vocina chiamarci già da lontano.
“Mammaaaaa!” urlò, entrando nel salone e saltellando fino a gettare le braccia alla mia vita. La strinsi d’istinto mentre lei alzavi il viso e lo posava sul mio petto “Mami mi sono scocciata di giocare. Quando mangiamo? Ho fameee.”
“Sì… sì… ora… Ora la mamma ti prepara qualcosa…”
“Sophie…”
Donna aveva riaperto bocca, per dire la cosa più sbagliata che potesse dire in quel momento. Alzai gli occhi per fulminarla ma lei non colse il mio sguardo, troppo presa a fissare Hope come se non credesse ai suoi occhi, come se fino ad allora non avesse ancora realizzato che la bambina esistesse davvero.
Probabilmente era davvero quello che stava pensando, dal momento in cui notai i suoi occhi farsi sempre più lucidi.
“Mamma, chi è Sophie…?” sussurrò Hope, nascondendo il viso dietro il mio braccio protettivo.
“Nessuno, tesoro.”
“E chi è quetta signora? Perché sta qui?”
Non ebbe mai risposta alla sua domanda perché Rob si alzò, improvvisamente, e la prese in braccio.
“Penso sia il caso che ora se ne vada, signorina Blake.”
Donna ci mise qualche secondo per elaborare quelle parole e distogliere da Hope quello sguardo così intrusivo e fastidioso.
“Ce… certo. Vi lascio il biglietto da visita del mio legale ma di sicuro sarà lui stesso a contattare il vostro. Ad ogni modo io sarò in città per una settimana, dopo di ché dovrò ripartire quindi spero che si riesca a trovare una soluzione, almeno temporanea, per allora.”
“La porta è da questa parte” rispose Rob, imperterrito e totalmente scortese e maleducato. Ma d’altronde, chi poteva dargli torto?
Io non ebbi la forza di muovere un muscolo; mi limitai a stare ferma sul posto e aspettare che quella donna uscisse di casa nostra.
“Sei bellissima, piccolina…” disse ad Hope e allungò una mano per carezzarle il viso ma lei si scansò totalmente nascondendo la testa nel collo di Rob e stringendo le braccine attorno a lui.
Fu il suo congedo definitivo.
“Papi, ma chi ela…?”
“Nessuno, amore mio. Su, andiamo a mangiare qualcosa. Va tutto bene.”
E se Hope non fosse stata solo un’innocente bimba di quattro anni, avrebbe capito facilmente che era una bugia dal modo in cui Rob la strinse a sé e la baciò.
Passammo tutta la giornata tra telefono, carte, internet e persino il codice civile, ma non avemmo le risposte che cercavamo e soprattutto non quelle che speravamo.
Era ancora tutto così incerto da dare il mal di testa solo a pensarci. Il caso era troppo particolare per essere discusso per telefono per cui prendemmo appuntamento con i nostri legali per l’indomani.
Hope intanto aveva capito che qualcosa non andava e, quando l’avevo messa a letto, si era gettata tra le mie braccia e aveva sussurrato: “Che succede, mami? Tu e papà avete litigato? Ti plego, non vi lassiate pelò! Ti plego!”
E se il mio cuore aveva smesso di battere quella mattina, ora si era proprio spezzato, in un milione di piccoli pezzi e mi chiesi se potesse esserci altro che poteva sopportare e come avrei fatto se… se…
“No, amore. No! Non piangere! Non ci lasciamo. Non ci lasceremo mai… Non ti lasceremo mai, okay?”
Lei annuì nell’incavo del mio collo e vi lasciò un dolcissimo bacio, mentre io pregavo solo di poter essere in grado di mantenere quella promessa.
Ci misi un po’ a calmarla del tutto, mi stesi accanto a lei per leggerle una storia ma solo quando le canticchiai qualcosa iniziò a chiudere gli occhi.
Avrei voluto essere come lei in quel momento; avrei voluto qualcuno che mi dicesse che sarebbe andato tutto bene e che non ci saremmo mai lasciati e avrei voluto avere quella ingenuità necessaria per crederci senza averne il minimo dubbio.
Restai per molto tempo a guardarla dormire, come non facevo da quando le pratiche di adozione non erano ancora ultimate e c’era sempre la paura che ci fosse qualche intoppo o qualche clausola sfavorevole all’ultimo minuto; come non facevo dall’ultima volta in cui avevo davvero temuto che potesse non essere mia e che me la portassero via.
Lasciai scivolare una lacrima che cadde, bagnando il suo viso. Lo carezzai con l’indice e la raccolsi, desiderosa di rimetterla al suo posto e piangerla ancora e ancora perché… non avevo la forza di piangere lacrime nuove. Avrei voluto che almeno nel pianto avessi una sicurezza, avrei voluto quell’unica, sola lacrima a scendere in continuazione, bloccata in quel frammento di tempo, senza andare avanti. Nascere, crescere, cadere, morire, rinascere…
Proprio quando chiusi gli occhi solo un’istante per desiderare che fosse tutto un incubo, sentii i passi di Rob sulla porta e lo guardai, scioccamente carica di aspettative, ma ottenni solo una scrollata di spalle e un viso preoccupato.
Nonostante tutto, venne a stendersi accanto a noi; la mia schiena contro il suo petto, una mano che stringeva la mia vita e le sue labbra che sussurravano al mio orecchio che sarebbe andato tutto bene e che non ci saremmo mai lasciati.
 
 
E ci avevo creduto, ci avevo creduto davvero che, in fondo, sarebbe andato tutto bene e che non ci saremmo mai lasciati. Ci avevo creduto dal primo momento e ancora ci credevo mentre guardavo Hope ancora addormentata accanto a me. Ci avevo creduto perché non potevo permettermi di pensarla diversamente, ma una piccola voce dentro di me, me lo aveva detto di non crederci troppo altrimenti mi sarei ritrovata vuota, e infatti era esattamente il modo in cui mi sentivo in quel momento: vuota. Ed Hope era ancora con me. Non potevo immaginare quello che avrei provato quando me l’avrebbero portata via.
Avevamo passato una settimana intera a parlare con gli avvocati ma non c’era verso di avviare un processo e chiuderlo prima di mesi. Era una situazione troppo complicata, che richiedeva verifiche e controlli precisi e studiati: un percorso troppo lungo; un percorso durante il quale, come stabilito dal mediatore, Hope sarebbe dovuta stare con la sua effettiva tutrice.
C’era qualcosa riguardo i tempi di scomparsa e morte presunta che non tornava con i tempi dell’adozione. Nonostante i genitori di Hope fossero stati dichiarati morti, nessuno sapeva della bambina per cui il caso poteva effettivamente rientrare nelle condizioni di ignoranza del fatto stesso per cause esterne.
Nello stato della California non c’erano precedenti del genere e i continui contatti con l’isola di Wight per verificare fatti e versioni rendevano tutto più difficile.
Intanto noi portavamo avanti la nostra causa e non ci saremmo arresi finché non avremmo avuto nuovamente la certezza che Hope era ormai nostra.
Era me che chiamava mamma, Rob che chiamava papà. Chiamava noi se aveva fame, sete, sonno. Se voleva giocare, se voleva che le raccontassimo una favola, se voleva un giocattolo, se voleva che le pettinassi i capelli… ogni cosa, ogni piccola cosa del suo universo girava attorno a noi e, per quanto cercassero di convincermi del contrario, io credevo fermamente che quattro anni è un’età abbastanza matura per ricordare un trauma come un allontanamento da quelli che sono i tuoi genitori.
Certo, ad Hope avevamo raccontato di come l’avevamo trovata; l’avevamo posta come una specie di favola di cui lei era la protagonista e ne era rimasta quasi estasiata. Ovviamente non poteva davvero rendersi conto di cosa volesse dire, non faceva mai domande sui suoi genitori perché eravamo noi. Solo noi.
Di certo non avrebbe mai creduto che un’ombra del suo passato sarebbe tornata a riprendersela. E nemmeno noi…
Le carezzai i capelli rossi e una guancia col dito proprio mentre apriva gli occhietti.
Era ancora stanca, si vedeva bene. Avevamo festeggiato il suo effettivo compleanno appena la sera prima, il giorno prima della sua partenza, ma non eravamo riusciti a spiegarle come e per quale motivo sarebbe dovuta andare via da noi per un po’.
Avevo preferito farlo poche ore prima, per evitare troppe domande, lacrime e spiegazioni che non avrei saputo dare.
“Ciao mamma…” salutò con uno sbadiglio.
“Ciao, amore mio…”
“Dov’è papi?”
“È giù a farti le frittelle.”
A quelle parole i suoi occhi si spalancarono e un sorriso enorme le dipinse il visto mentre metteva a sedersi in un secondo.
“Flittelleeeee! Che belloooo! Lo vado ad aiutareeee!”
“No, tesoro, aspetta!”
La fermai, perché proprio non potevo più rimandare, anche se non sapevo dove avrei trovato le forze e le parole.
La presi in braccio e me la sistemai sulle mia gambe. Presi un profondo respiro e cercai di parlarle nel modo più sereno possibile. “Amore ti ricordi la signora che è stata qui ieri per il tuo compleanno?”
Annuì. “Donna? Quella che ti chiama così?”
“Sì, lei.”
“Okay. Che ha fatto?”
“No… non ha fatto niente. Solo che…” dio, dammi la forza. “Ti ricordi quando io e papà ti abbiamo parlato della spiaggia, della barchetta e della tua vera mamma e del tuo vero papà…?”
“… quelli nella favola?”
“Sì, tesoro. Quelli nella favola. Però ora nella favola c’è anche Donna. Lei è la sorella della mamma che stava sulla barchetta con te… e devi andare a stare con lei per un po’…”
Hope assunse un’espressione confusa. “Pecché…?”
Ecco. “Beh… Perché io e papà dobbiamo fare un viaggio lungo lungo…”
“E non potto venire con voi anche io?”
“No, tesoro. Questo viaggio è troppo lungo e i bambini piccoli come te non possono venire. È noioso e ti stancheresti subito.”
“Non mi impotta. Vollio venire pure io!”
Scossi il capo. “Non puoi amore, però è davvero davvero importante che io e papà andiamo. Vedrai che starai bene e poi alla fine del viaggio passiamo a prenderti, okay?”
Non sembrava molto okay per lei, tanto che le si riempirono gli occhi di lacrime.
“Ma pel quanto tempo…?”
“Poco, coccinella. Un mesetto e poi torniamo a prenderti. Va bene così?”
Lei non rispose e una lacrima calda le scese sul viso mentre prendeva i miei capelli e li carezzava molo lentamente.
“Non potto ploprio venire?”
Questa volta non riuscii a rispondere; era decisamente troppo. La strinsi semplicemente a me e lei si accucciò sul mio petto e si lasciò cullare a lungo, finché Rob non entrò in camera e trovò quello che doveva essere il quadro più triste a cui potesse assistere in quella situazione di merda.
Serrò la mascella e gli bastò un mio cenno del capo per capire che glielo avevo detto.
Posò sul comodino la forchetta che aveva in mano e prese Hope da dietro per poi stringersela al petto.
“Cucciolina, papà ha fatto le frittelle! Andiamo a mangiarle, su!”
Hope scosse il capo. “Non le vollio.”
“Come non le vuoi?! Guarda che mi sono impegnato e suono venute più buone di sempre! Devi mangiarle per forza!”
“Non ho fame…”
“Aaaah! Non fare la sciocchina! Andiamo che ci mettiamo anche le gocce di cioccolata sopra!” disse ancora, cercando di tirarla su, prima di lasciare la stanza e lasciare me e le mie lacrime silenziose.
Come un automa, riposi in un borsone un po’ di roba di Hope che avevo preparato la notte prima e, quando scesi giù, Hope e Rob mangiavano frittelle come se nulla fosse, come se fosse solo un altro giorno della nostra famiglia, come se fosse tutto come prima, tutto un incubo, tutto dimenticato, tutto andato.
E l’attesa snervante che seguì la colazione fu la parte più terribile di tutto il teatrino. Era uno di quei momenti in cui sai che qualcosa sta per finire e vorresti solo fermare la tua vita nel momento adatto, un momento in cui si è ancora tutti insieme.
Ecco, avrei voluto fermare la mia vita a quella colazione di appena due ore prima, avrei voluto fermare tutto, avrei voluto non dover preparare Hope, lavarla e vestirla sapendo che non l’avrei fatto per troppo tempo, avrei voluto non doverle asciugare le lacrime ancora e ancora, avrei voluto non farla piangere mai, avrei voluto non spiegarle ancora ciò che stava succedendo con una scusa così futile che non reggeva col bisogno che avevo di tenerla con me per sempre, avrei voluto non sentire mai quel campanello, avrei voluto non doverla lasciar andare.
“Okay, tesoro. Ci siamo. Ricorda che è solo per poco tempo e che ci vediamo presto presto. E ti chiamiamo due volte alla settimana perché dove andiamo non c’è molta linea, però ti penseremo sempre, e saremo sempre con te.”
Presi una collanina dalle tasche dei jeans e gliela misi al collo. Era un semplicissimo ciondolo a forma di cuore con inciso Here sopra.
“Proprio qui…” premetti la mia mano sul ciondolo. “Sempre qui.”
Hope annuì col capo chino e tirò su con il naso prima di gettarmi le braccia al collo e stringermi come mai aveva fatto fino a quel momento.
Avrei voluto che passasse una vita intera prima di dovermi fare forza e scendere quelle scale con la mia bambina in braccio.
Il suo borsone era già all’ingresso, accanto a Donna che aspettava sulla porta insieme a Rob.
Non l’avevo mai visto più morto dentro come era stato in quei giorni, ma mi bastò un secondo per guardarlo e capire che non avevo ancora visto niente.
Ci venne incontro. “Vieni qui, cucciola…”
E Hope si buttò tra le sue braccia e iniziò a piangere, molto silenziosamente, come se sapesse davvero che non era un addio ma solo un arrivederci.
“Un mese. Avete plomesso…” disse tra un respiro mozzato e un altro.
“Un mese, tesoro. Un mese” promise ancora Rob e io non osai guardare Donna per vedere qualunque espressione avesse in viso di fronte a quella promessa. Non c’era ragione di prenderla in nessun modo visto che avevamo già stabilito che per nessun motivo al mondo avremmo rinunciato a un Natale con nostra figlia. Quella era la nostra festa, il nostro giorno e niente e nessuno avrebbe potuto tenerci separati.
Rob mise Hope a terra e io mi chinai insieme a loro per abbracciarla ancora.
E lei ancora si strinse a me, più forte di prima, come se sentisse come ogni abbraccio potesse essere l’ultimo, almeno per un po’.
Eppure fu lei a staccarsi per prima.
Mi carezzò una guancia con la manina e ci guardammo negli occhi per perderci insieme e non lasciarci più.
“Tu sei la sola vela mamma per me…”
Il mio cuore si spezzò, lo sentii andare in frantumi ma le sorrisi e ricambiai la carezza.
“Sì, tesoro. Lo sono…”
Ci abbracciammo per l’ennesima volta prima che Rob la baciasse ovunque e le mettesse tra le mani il suo coniglietto di pezza.
“Non dimenticare Mr Rabbit. Sai che non può stare senza di te.”
“Andiamo Mistel Labbit! Tanto tonniamo presto. Ciao Beal, ciao Bernie. Ci vediamo presto. Fate i blavi!” abbracciò i due cani che erano alti quasi quanto lei.
Misi una mano davanti la bocca per bloccare qualsiasi suono stesse per uscire e restai a guardarla mentre camminava verso Donna che la chiamava.
“Su, Sophie, o perdiamo l’aereo. Ci sei mai stata su un aereo? È bellissimo! Ti ho prenotato il posto accanto al finestrino così puoi vedere tutto e in borsa ho gli Oreo per il viaggio. So che ti piacciono molto, vero? Ho anche l’iPad con me, con tanti giochi sopra per passare il tempo. Tu lo sai usare? Io sono negata, magari mi insegni. Vedrai che starai bene, te lo prometto.”
Hope aveva già preso molti aerei, amava gli Oreo e sapeva usare un iPad abbastanza bene, ma non rispose a nessuna delle sue domande.
“Io mi chiamo Hope” fu tutto quello che disse prima di voltarsi a guardarci.
“Un mese… plomesso?” sussurrò sperando che Donna non la sentisse.
“Promesso…” sussurrai anche io e le lanciai un bacio.
Lei lo afferrò, come facevamo sempre, e me lo rimandò. Lo afferrai anche io e posai la mano sul cuore.
Lei strinse il ciondolo e Mr Rabbit e si voltò per l’ultima volta, perché non ci guardò più mentre percorreva il vialetto e saliva sul taxi.
Quella era stata l’ultima immagine che aveva voluto conservare di noi ed ero contenta perché, almeno per lei, il mio cuore era ancora intatto.
 
 
Inutile dire che quelli che seguirono furono i quarantacinque giorni più lunghi, lenti e pesanti della mia vita. il tempo sembrava non passare mai e vivevo praticamente in funzione delle telefonate settimanali con Hope che, puntualmente, ci chiedeva cosa stessimo facendo esattamente e quanto tempo ancora ci avremmo impiegato.
Sapere di essere lontana da lei ma di poterla raggiungere quando avrei voluto e non poterlo fare, rendeva tutto terribilmente frustrante. Inizialmente avevo anche pensato di trasferirci sull’isola così da poterla vedere; non importava tanto che lei vedesse noi, ma almeno avrei avuto la certezza visiva di come stesse. Rob ovviamente aveva bocciato l’idea ricordandomi le parole del mediatore sull’essere quanto più aperti e disponibili possibili durante la risoluzione definitiva della cosa. Mostrarci gentili e accondiscendenti a tutto ciò che era reputato sano e per il bene di Hope, non avrebbe fatto altro che metterci in luce davanti al giudice; c’era un unico particolare che però stonava in quella canzone mal accordata: il bene per Hope eravamo noi. Io lo sapevo, il mediatore lo sapeva, forse lo sapeva anche Donna eppure faceva di tutto per tenersi quella parte di vita che, in fondo, non le era mai appartenuta.
E più andavamo avanti con i giorni, più Hope era entusiasta del nostro ritorno, più mi rendevo conto che avrei dovuto dirle che non era sicuro che significasse che lei potesse tornare con noi. Inizialmente non lo avevo fatto perché speravo che le cose si risolvessero nel giro di un mese, poi non avevo semplicemente avuto il coraggio, ed ora ero lì. Sull’isola di Wight, sullo stesso suolo di mia figlia; avrei potuto girare per l’isola fino a trovarla e sperare di incontrarla per strada ma non potevo scombussolare i piani in quel modo. Eravamo attesi per il giorno dopo in modo da passare la vigilia di Natale e il giorno di Natale insieme, come avevamo sempre fatto, ma io non potevo non pensare a un albero di Natale che non era stato addobbato con noi, a vestitini rossi che non ero stata io a metterle, a calze che non erano state appese al camino.
C’era qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto ciò; nulla aveva senso. Era semplicemente sbagliato.
Persa nei miei pensieri non mi ero nemmeno accorta di aver lasciato la veranda e aver preso a camminare per la spiaggia finché non avevo raggiunto quel posto che da cui io e Rob esprimevamo i nostri desideri da sempre.
Peccato che il cielo fosse ancora troppo chiaro; avrei tanto voluto vedere almeno una stella, anche se non fosse stata cadente, solo per sperare che Hope stesse bene. Non sarebbe dovuta cadere per me; poteva restarsene lì a vegliare sulla mia bambina e io non avrei mai voluto che cadesse.
Ero così catturata dalle immagini dei miei desideri da credere di stare sognando quando sentii l’inconfondibile vocina di Hope mormorare qualcosa che non riuscii a capire.
Forse stavo decisamente sognando, pensai; ma poi giunse forte e chiara, di nuovo.
“Ecco! È quetto! Ci siamooooo!”
E io mi voltai e dalla piccola altura di scogli su cui mi trovavo, la vidi, a metà spiaggia, la mia bambina che si faceva strada tra quei luoghi così familiari per lei. Doveva averli cercati tanto durante quel mese, pensai mentre mi soffermai a guardarla aspettando che alzasse gli occhi solo un secondo e si accorgesse di me.
Doveva farlo. Doveva alzare il capo e vedermi. Non potevo chiamarla, non potevo interferire, ma se era destino allora avrebbe alzato il viso e mi avrebbe vista.
E lo fece. Fu una frazione di secondi in cui sicuramente anche lei credette di stare sognando, ma poi ci guardammo meglio e ci riconoscemmo all’instante.
“MAMMAAAAA!” ripeté diverse volte mentre correva verso di me e solo il sentire di nuovo quel suono mi fece capire quanto mi fosse mancato davvero, quanta fosse stata enorme la mia paura di non sentirlo mai più.
Le corsi incontro a mia volta e la presi in braccio. La strinsi a me più forte che potevo e la baciai ovunque mentre lei continuava a chiamarmi.
“Lo sapevo che stavi qui! Pelò siete in ritaddo! Avevate detto un mese e invece sono passati più gionni!”
Non avrei mai creduto che se ne potesse accorgere o che portasse il conto ma era evidente che la lontananza non aveva giovato a nessuno, su nessun fronte.
“Hai ragione, amore. Scusaci!”
“Non fa niente! Tanto ola non ve ne andate più velo?”
Non risposi, e la baciai ancora.
“Mamma, dov’è papà?” mi disse all’orecchio.
“A casa, amore mio.”
“Lo vollio vedeleeee! Andiamo a casa! Dai, dai!”
Fu allora che mi resi conto che non eravamo inosservate, che non potevamo esserlo. A dire la verità l’avevo notato anche prima ma avevo deliberatamente ignorato gli occhi che avevamo addosso.
Sistemai Hope su un fianco e mi avvicinai a Donna, accompagnata da una donna di colore sulla quarantina.
“Kristen…” sussurrò Donna abbozzando un sorriso che sicuramente era un tentativo di celare la sua contrarietà.
“Donna…” risposi a tono.
“Siete venuti prima.”
“Un giorno di anticipo, non mi sembra molto.”
“No… sono solo… sorpresa…”
Annuii e avrei voluto chiedere come andassero le cose ma mi bloccai per due ragioni: prima di tutto mi resi conto che per nessun motivo mi avrebbe detto che le cose non andavano bene, soprattutto perché lo avevo chiesto mille volte durante le telefonate e lei non faceva che confermare che Hope si stesse abituando alla nuova vita, in secondo luogo non me lo permise e scansò ogni eventuale possibilità presentandomi la donna accanto a lei.
“Lei è Keira, una mia amica africana venuta qui a trovarmi e a passare le feste con me.”
“Keira è troppo blava, mamma! Sa fale i dolci più buoni del mondo, dopo di te pelò!”
Le sorrisi e chinai la mia fronte sulla sua guancia per qualche secondo.
“Dai, Hope, ora andiamo o si fredda la cena.”
Non mi lasciai sfuggire il suo chiamarla per nome e non Sophie. Pensai che dovesse aver rinunciato.
Quello che mi sorprese davvero fu la risposta di mia figlia.
“Ma non hai ancola nemmeno cucinato! E io non la mangio la robba tua ora che sta mamma qui!”
Va bene che sarei stata più che felice di portarmela a casa e cucinare per lei ma non era il modo di rispondere con cui era stata educata da me e Rob.
“Hope! Non si risponde così! Chiedi subito scusa!”
“Ma mamma, è velo!”
“Chiedi scusa.”
Sbuffò e nascose il viso nel mio collo. “Cuuuusa…” sbiascicò e io percepii anche un uffa da qualche parte.
“Però potto venie co te, velo?”
Perché continuava a chiedermi cosa a cui potevo rispondere solo di no?
“Domani, tesoro. Domani veniamo io e papà da te e passeremo tutta la giornata insieme e anche il giorno dopo! Però ora devi andare ancora con Donna…”
“Uffa, mami… Non ce la faccio più io…”
Poche parole che però sembrarono dettate davvero da una genuina stanchezza di tutta quella situazione, troppo strana per lei da poterla capire. Io avrei solo voluto portarla a casa con me, da Rob, e passare il Natale solo noi tre.
E invece fui costretta a separarmi da lei ancora una volta.
“Andiamo Tumaini. Keira prepara piatto che piace tanto.”
“Tu… Tumaini…?”
“Significa speranza in mia lingua.” Mi spiegò Keira mentre allungava le braccia verso Hope che, con le lacrime agli occhi, mi lasciò un bacetto sulla bocca prima di andare in braccio alla sua amica.
“Domani, mamma. Hai plomesso. Non rompele altre plomesse, okay?”
Con cuore in mano annuii e le mandai un bacio, e lei l’afferrò, portandosi anche il mio cuore.
 
 
Dopo il racconto del mio piacevole incontro, Rob era decisamente più fremente di me all’idea di rivedere Hope di nuovo e non potevo certo biasimarlo.
Vedere la nostra bambina saltargli addosso e chiamarlo papà come se fosse la parola più importante del mondo, bastò a rimettere insieme i pezzi perduti nel mio cuore.
Per un paio di giorni potevo cercare di concentrarmi sul fatto che eravamo insieme e non preoccuparmi di altro, anche se era maledettamente difficile.
Hope chiamava me o Rob per ogni minima cosa, proprio come se per lei nulla fosse cambiato in quel mese e mezzo: nel suo piccolo mondo andava tutto bene, noi eravamo tornati e tutto era tornato al posto giusto.
Mi resi sempre più conto che avrei dovuto dirle la verità, quella più comprensibile per lei, il prima possibile.
Nonostante il clima di tensione per la buffa situazione, la giornata passò in armonia e decisamente troppo velocemente.
Avevamo portato ad Hope una montagna di regali e lei si era limitata a dire che avremmo potuto scartarli a casa nostra così non ci sarebbe stato bisogno poi di spostarli da un posto all’altro; fu la prima di molte occasioni mancate per dirle quel briciolo di verità che mi ero ripromessa di confessarle.
La sera arrivò troppo presto e Hope si era accoccolata sul petto di Rob, pronta a dormire.
“Mami, mi fai il latte coi biscotti?”
“Certo, tesoro mio.”
Quando Donna rispose per me, a freddarla ci pensò la bambina stessa.
“No, ho detto mamma. Mami, me lo fai tu?”
“Sì, amore… Te lo faccio io…”
Le diedi un bacio sul nasino e uno veloce a Rob.
Mi concessi una rapida occhiata a Donna e, nonostante l’astio di mia figlia, sembrò così intenta a guardarla tra le braccia di Rob, così persa nei suoi pensieri che per un momento sperai quasi che stesse pensando di lasciar perdere tutto e lasciarla tornare a casa con noi.
Ma sapevo che non poteva essere così semplice; scossi il capo prima di dirigermi nella cucina, nonostante non sapessi dove fosse tutto.
Era assurdo. Dovevo preparare un semplice biberon di latte e biscotti a mia figlia e non sapevo dove mettere le mani.
Keira fu la mia salvezza. Aveva sentito Hope dall’altra stanza e mi aiutò volentieri.
“Lei deve essere brava mamma” disse mentre aspettavo che il latte si riscaldasse.
Le sorrisi ma non riuscii a rispondere a quella affermazione se non con un’altra domanda. “Lei come sta?”
E sperai che da quella donna dagli occhi scuri e grandi come il mare avrei auto una risposta sincera.
“Tumaini non felice qui. Sono da poco qui ma vedo che lei non felice. Lei contato i giorni su calendario, aspettava vicino telefono ogni lunedì e venerdì, ieri riso per la prima volta davvero quando ha visto lei.”
Lo sapevo.
“Io capisco Donna. Quando genitori abbandonano o muoiono tu pensi sempre come poteva essere se non era successo. Lei vuole dare Tumaini questa possibilità e non capisce che tutte vite sono diverse e che non puoi decidere vita di altri.”
La guardavo attentamente e mi sembrò di vederla commuoversi ma non potevo esserne certa. Per un secondo lasciai ogni pensiero concentrato su di me e fui trasportata dalla voglia di sapere la storia di quella donna, ma non era né il momento né il luogo.
“Io ho detto Donna: lascia stare bambina, lascia andare, tu non sei meglio per lei. Ma lei non ascolta. Pensa di fare torto a sorella e vuole fare… emm… mend… Non so come dice…”
“Ammenda?”
“Sì! Quello. Vuole perdono. Lei davvero ama Hope, lo vedi. Ma sappiamo che non è meglio per lei. Dottori dicono che bambina è piccola, che dimentica prima o poi. Io dico di no. Quei occhi non dimenticano e anche se memorie sfocano, cuore sta sempre fermo. E cuore di Tumaini è fermo. Batte solo con voi. E Donna non capisce e vuole solo tenerla tutta lei. Vuole chiamare avvocato e chiedere restrizione, non so. Non conosco vostra legge.”
Lei poteva non conoscere la legge ma io avevo ben capito quelle che erano le intenzioni di Donna e se lo cose si fossero messe male sarebbe riuscita nel suo intento con un parere di uno psicologo. Bastava semplicemente appurare che la bambina non dovesse più vedere me e Rob per lasciare che si dimenticasse di noi facilmente.
Se pensava di riuscirsi, però, aveva decisamente sbagliato bersaglio.
Fui sollevata dai miei pensieri da Keira stessa che mi passava il biberon ormai caldo.
“Tu sei brava mamma. Fai cosa giusta per tua figlia.”
Le sorrisi, la ringraziai di cuore e tornammo in salotto insieme.
Hope prese il suo biberon e si accucciò ancora di più tra le braccia di Rob.
“Amore, vuoi andare a nanna, che dici?” le sussurrò Rob e lei annuì.
“Solo se resti a raccontammi una stolia però!”
“Va bene, una sola però, okay?”
Annuì ancora. “Tanto domani tonniamo a casa e me ne racconti tutte le volte che voglio.”
Ecco, era giunto il momento e questa volta non potevamo più evitare.
Keira capì senza che ci fosse bisogno di parlare e trascinò Donna con sé in cucina.
“Tesoro, domani non torniamo a casa.”
Questa volta fu Rob a parlare e gliene fui grata perché io davvero non avrei sopportato altre conversazioni del genere.
“Pecchè…?” sussurrò Hope, allontanando il biberon dalla sua bocca.
“Vedi, devi stare qui un altro po’. Non lo abbiamo deciso noi e lo so che è difficile per te capirlo, ma devi farlo finché mamma e papà non aggiustano un po’ di cose…”
“Voi volete solo viaggiale senza di me! Aveva lagione Donna quando diceva che non mi volevate più!”
“Cosa? Tesoro, no! Non è così!”
Se avessi potuto avere quella stronza tra le mani in quel momento, l’avrei uccisa senza rimorsi.
“Sì, invece! Voi volete liberavvi di me!”
“No, amore, no…”
“No! Avevi detto che tonnavo con voi! State solo lompendo le plomesse! Siete dei bugiardi! Bugiardi!”
Gettò a terra il biberon e Mr. Rabbit e carica di rabbia scese dalle gambe di Rob e corse sopra.
Restammo in silenzio per diversi minuti, ognuno perso nei proprio pensieri, finché non ritenemmo opportuno andare da lei a controllare come stesse e a cercare di farle capire come stessero davvero le cose, ma alle scale non ci arrivammo mai, catturati nell’attenzione dalla voce di Donna proveniente dalla cucina.
Non riuscimmo a capire se stesse parlando da sola, o al telefono o con Keira dal momento in cui non vi era risposta a nessuna delle sue parole. Era un monologo interiore espresso ad alta voce.
“Non si può andare avanti così… Non si può. Lei non dimenticherà mai in questo modo, vedendoli ogni giorno.”
Tremai.
“Penso di non avere scelta… Anche se farà male… ho preso la mia decisione.”
E quelle parole furono come un fulmine che squarciava il cielo in due metà imperfette e mi lasciava nella metà sbagliata; la metà in cui non avrei più rivisto la mia bambina.
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Okay, precisiamo che non siamo né avvocati, né giudici, né esperte di legge e bla bla, quindi se le cose non vanno davvero così (cioè al 90% HAHAHA) concedeteci questa licenza letteraria. Insomma, io so che la morte presunta, in Italia, è dichiarata 10 anni dopo la scomparsa, (e se non sbaglio ora il termine si è abbassato anche a 5 anni) e solo 2 anni per fenomeni naturali, e bla bla... Ma la legge inglese e statunitense proprio non so, quindi ho preferito mettere in mezzo il processo di mediazione che comunque dovrebbe essere valido in una ipotetica situazione del genere... Spero di non aver scritto troppe stronzatine in ogni caso haha
Mh, penso non ci sia altro da chiarire su questo capitolo. 
Ah! La storia di Hope e tutto quello che c'è dietro. Credeteci: abbiamo passato ore e ore a telefono e su whatsapp a cercare di trovare qualcosa di meno complicato e improbabile ma ogni volta spuntava un "Però così non sarebbe possibile perchè..." ecc ecc... Quindi questa storia è venuta fuori davvero per miracolo, insomma... HAHAHA Boh, visto che è una FF, tutto può accadere, no? u.u Anche che ci sia un lieto fine... huahua 
Detto questo... Mi raccomando, mangiate tutte le schifezze della calza oggi perchè da domani DIETA! AHAHAHA ceeeerto... crediamoci.... 
Voglio proprio vedere quante partiranno con questo intento e abbandoneranno dopo pranzo AHAHAHA (io sarò una di queste, già lo so ahaha)
Vabbè, la smetto LOL 
Buona fortuna con i chili di troppo u.u 
E se non ne avete, andate amabilmente a quel paese, grazie u.u 
Un bacio, buona serata e buon rientro a scuola per chi deve rientrare! (noi no, muhauahuha) 
Che cattive stasera u.u hahaha  
A presto con l'ultimo capitolo!
Cloe&Fio xx


   
 
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