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Autore: roxy92    07/01/2013    2 recensioni
Chi ha sbirciato la fic che ho cancellato prima avrà una vaga idea di come scrivo. Mi piacciono le cose che non piacciono alla massa, trattate in modo non ordinario. Io lo so che me le cerco, ma ognuno, quando libera la fantasia, produce i risultati più disparati. Il mio è questo.
Dal prologo:
"Quando non ricordi il tuo passato, è come se un macigno fosse sempre in procinto di caderti addosso. Ce l’hai sospeso sopra alla testa, trattenuto da un filo sottile. Il terrore che il presente sfumi come il tempo trascorso è una morsa che attanaglia lo stomaco e a tratti non fa respirare.
Se sei abbastanza forte, ore, giorni, minuti e secondi, ti scivolano addosso come se il tempo non esistesse. Le tue mani sembrano vuote ai sentimenti e ti ritrovi sempre a stringere il niente. Non hai nulla per cui vivere e nulla per cui morire."
Io mi metto alla prova nel disperato tentativo di creare qualcosa che superi almeno le più basse aspettative... Qualcuno di voi mi da una mano e mi dice che ne pensa? Anche sapere se è meglio lasciar stare... Se ne avete il coraggio, buona lettura. :)
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Piccolo, Un po' tutti
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il suo cuore batteva. Da tanto tempo non lo srntiva così forte. Quando era cucciolo e si tuffava in acqua per catturare i pesci, lo udiva rimbombare negli orecchi. Era il tamburo che sanciva il passo fiero della sua forza, il ritmo indomabile a cui la sua brama di potere cresceva. Niente poteva resistergli, non c'era nulla che gli fosse superiore. Tutti lo temevano e lo ammiravano. Così doveva essere. La fiamma che distrugge e purifica trova nello stesso bruciare la sua ragion d'essere. In quella loro terra fredda, arida e inospitale, il nome di Haldir era diventato il fuoco che dilaniava ogni cosa, un potere troppo grande che andava imbrigliato. La magia: quella doveva essere la cura. Le parole seducenti del suo re l'avevano convinto: separa da te la tua parte malvagia. Donale vita propria. Poi, dominala, e sarai ancora più invincibile.

Così era stato, ma gli era stato anche imposto un giogo. L'artefice dell'incantesimo avrebbe per sempre avuto il controllo di quella nuova creatura: così il suo re aveva preso possesso della sua forza. Lui, da ragazzino ingenuo qual era, si era lasciato abbindolare da parole seducenti. Fesso, c'era cascato. Crescendo aveva capito cosa significasse avere un padrone e un guinzaglio. S'era fatto torvo, più scaltro. Aveva iniziato a studiare la magia da se stesso. Aveva compreso di non poter sciogliere l'incantesimo da solo: doveva uccidere chi aveva compiuto l'incantesimo, ma poi sarebbe morto lui stesso.

Non aveva mai avuto un motivo valido, fino a quel momento. Mentre sollevava quel bastardo da terra per il collo, sentiva quella cosa ritornare in lui, parte di se, libero di nuovo, come quando era ragazzo. Sorrise e assaporò cosa significasse essere completo. Liberò la stretta sul collo del bastardo e gli permise di toccare terra coi propri piedi. Poi, lo immobilizzò in una stretta erculea. Iniziò a far crescere la propria aura.

“Tu sei pazzo.”

Rise a quell'insinuazione da parte dell'avversario.

“Sì, lo sono. Lo sono sempre stato.”

Strinse più forte e iniziò a librarsi in volo.

La folgore della sua aura bruciava la carne impura del suo avversario, tanto da farlo urlare. Scottava anche la propria.

“Andremo dai miei allievi che hai massacrato e gli chiederemo perdono insieme.”

Il re continuava a dimenarsi e l'avrebbe fatto ancora per poco. Haldir chiuse gli occhi, beandosi di quella ritrovata forza. Aveva impiegato pochi attimi per aver ragione del suo avversario e per tornare da chi amava ci avrebbe messo ancora meno.

Non era mai stato capace di sorridere, eppure, chissà perchè, nell'ultimo istante della sua vita era in grado di farlo.

Sfinito, Piccolo si decise ad uscire da quella stanza. Fiero, cerco di non mostrare quella debolezza. Lungo il tragitto, trovo Gohan ad aspettralo. Il bambino si affiancò a lui, silenzioso.

“Come stai?”

Il namecciano tese le labbra in una piega dura. A ben pochi avrebbe permesso quella confidenza.

“Bene.”

Troncò subito il discorso. A lungo, si sarebbe portato dietro il peso della propria incapacità.

Con quale coraggio avrebbe raccontato a Galen la verità? C'erano troppi aspetti di quel rapporto allieva-maestro che gli erano oscuri. Lei e Haldir erano anche padre e figlia, fratello e sorella. Avrebbe scommesso che, se fosse passato del tempo e lui e Galen non si fossero mai incontrati, quel legame sarebbe evoluto in molto di più. C'era un filo inscindibile tra le loro anime, dettato non tanto dai sentimenti ma dall'eredità di sangue che si portavano appresso. L'aveva capito nel momento esatto in cui si era reso conto del reale stato di Haldir: ciò che Haldir era diventato, sarebbe ciò che sarebbe capitato a Galen, se lei fosse stata abbandonata, priva di una guida saggia che la indirizzasse.

Il potere che cresceva in lei era troppo grande e una mente esperta avrebbe potuto approfittarne. Un simile potere andava sigillato.

Piccolo entrò nella sua stanza che si stava svegliando. Pregò Gohan di uscire e, rimasti soli, provò a sedersi vicino a lei, sul letto. Il materasso si abbassò sotto il suo peso. Sperava in una sua parola, attendeva qualsiasi cosa che spezzasse quel silenzio. La ragazza pareva avere gli occhi vuoti, sembrava una maschera rotta in pezzi. Le carezzò appena i capelli e la mano gli rimase sospesa a mezz'aria, mentre lei si portava con la testa sul ginocchio piegato. Sembrava così piccola mentre gli stringeva il torace con le mani. Non osò interrompere quel pianto liberatorio. Galen non era ancora una maschera in frantumi.

Per un attimo spiazzato, non seppe che fare mentre lei si aggrappava alla sua maglia. Ogni volta che singhiozzava sommessa, era come se il suo stesso corpo vibrasse per un colpo potente. La sollevò fino ad incontrare i suoi occhi rossi di lacrime e le permise di nascondere la fronte all'incavo del suo collo. Nessuno oltre lui aveva il diritto di essere testimone di quella debolezza.

Passò molto tempo prima che lei si allontanasse e si tergesse le ciglia con le dita.

La mattina li colse ancora abbracciati, il braccio di Piccolo adagiato sul suo fianco, a disegnare il profilo del suo corpo femmineo. Galen si era girata lentamente verso di lui, attenta a non disturbare il suo riposo mentre indugiava per la prima volta con le dita sul contorno duro delle sue labbra. Non aveva avuto il coraggio di contaminarle con le proprie. Si era liberata con una lentezza inaudita. Avrebbe voluto sfiorarlo ancora una volta, ma non ne ebbe il coraggio. Posò veloce i piedi a terra e si affacciò alla finestra. Portò le mani sul davanzale di marmo della finestra aperta e i raggi del sole investirono a pieno la sua figura. Piccolo si svegliò mentre quell'esplosione della luce bianca dell'alba avvolgeva la ragazza. Non gli era mai parsa così donna e lontana da lui come in quel momento. La chioma dorata e dai riflessi del fuoco riluceva ancora di più e lo sguardo di Galen era lontano. Si portò alle sue spalle con la certezza di essere stato udito. Era sicuro che i pensieri di Galen fossero tornati a ricordi che non gli appartenevano, persi in episodi di cui lui non faceva parte. Intrecciò le dita fra i suoi capelli con la foga di un possesso che oltre alla sua anima bramava anche il suo corpo. Sospirò nel trattenersi. Non sarebbe stato facile abbattere tutte le mura che ancora la circondavano.

 

“Stai andando via?”

Dende sbattè più volte le palpebre mentre lei, seduta con una gamba penzoloni nel vuoto, aggiustava il gambale di cuoio dell'altra. Nei giorni successivi alla morte di Haldir aveva recuperato in tutto e per tutto il modo di vestire della sua gente. Assomigliava parecchio a quello di antichi guerrieri e il giovane namecciano, pur scoprendosi parecchie volte sul punto di riderle dietro tanto lo trovava buffo, aveva preferito tacere. Aveva una sorta di timore nei suoi confronti e il carattere taciturno e ombroso di lei certo non aiutava. Si rendeva però chiaramente conto della tristezza che la sconvolgeva e aveva il timore che Galen potesse fare qualche colpo di testa. Piccolo, anche se non lo dava a vedere, la controllava in ogni momento. In un certo senso, insomma, se l'aspettava. Quando vide l'amico rincasare con la faccia scura e l'aura a pezzi, il supremo non ebbe dubbi nell'indovinare la causa.

Con tutto il tatto possibile tentò di indagare, ma anche a lui fu riservata una porta sbattuta in faccia.

Piccolo aveva preso a calci uno dei pesi con cui era solito allenarsi. Era furibondo. Ancora non credeva possibile che lei avesse deciso di sparire così, senza lasciare un messaggio di dove potesse essersi cacciata, neppure la minima traccia. Aveva provato ad instaurare un dialogo con lei, ma non era facile comunicare quando l'altro era ostile a farlo. Di riposare per quella notte non ci sarebbe stato verso. A passo deciso raggiunse la stanza dello spirito e del tempo. Se non altro, avrebbe sfogato la rabbia in allenamento.

 

 

La luce dell'alba lo colse che ancora lottava contro una copia di se stesso. Aveva la tuta stracciata in più punti ed era grondante di sudore. Era furioso e ancora confuso. All'inizio non si rese conto dei passi che calpestavano la sabbia scintillante per i primi raggi del giorno nascente. Quando aprì gli occhi, una lunga ombra filiforme si apprestava nella sua direzione. Il namecciano deglutì. Faticò a trattenere preoccupazione e rabbia.

“Dove sei stata?”

Tuonò, senza voltarsi, nell'attesa che la ragazza si portasse al suo fianco. Non riuscendo a sopportare quella lentezza, conscio della sua naturale rapidità, si girò di scatto e l'afferrò per l'avambraccio.

“Dove-sei-stata?”

Sibilò ancora, con le labbra a pochi centimetri dalla sua fronte. Non reggeva più anche il fatto che lei rifiutasse di incrociare il suo sguardo. Se avesse ceduto il passo al vecchio se stesso, le avrebbe sciolto la lingua a suon di schiaffi. Invece, la lasciò andare. Solo in quei giorni, che aveva avuto a che fare con qualcuno che amava e non parlava mai, si rendeva conto di quanto fosse insostenibile, a volte, il silenzio.

La lasciò andare con stizza, col cuore ancora colmo di rabbia. Perchè non glielo diceva chiaramente quanto era debole e incapace di proteggerla, di renderla felice? Perchè non gli risparmiava quel supplizio, rivelandogli una volta per tutte che se ne voleva andare?

“Volevo recuperare il corpo del maestro, per concedergli una degna sepoltura.”

Leggermente più calmo, il namecciano si concesse di credere a quelle parole.

“Che bisogno c'era di fare tutto da sola?”

La bionda rispose mesta.

“Per noi è così. Solo ai membri del clan è concesso sapere e vedere dove i compagni riposano.”

All'improvviso, la sua voce assunse una nota diversa.

“Io detesto quel posto e non volevo che tu mi vedessi ancora in quella condizione.”

Piccolo non capì il senso dell'ultima frase. Più calmo, la obbligò a spiegare.

“In quale condizione?”

La arpionò di per la spalla prima che gli sfuggisse di nuovo. Non gli fu facile convincerla a mostrargli il volto.

“Più fragile e inutile di una donna umana.”

Piccolo l'attirò a sé deciso. L'abbracciò con trasporto e le cinse la vita. Non le diede il tempo di obiettare mentre la sollevava in volo, nuovamente diretti verso il palazzo del supremo.

Non l'avrebbe lasciata più sola. In un modo o nell'altro, l'avrebbe guarita. L'avrebbe protetta sempre, anche da se stessa.

  
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