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Autore: smile_book    11/01/2013    2 recensioni
Dalla storia:
"Ciò che mi disse mi lasciò senza parole. Per un attimo pensai che fosse uno scherzo, uno di pessimo gusto. Mi sentii cadere il mondo addosso. Harry continuava a parlare, ma io non lo ascoltavo più. Sentivo solo il dolore che mi procuravano le schegge della mia bolla infranta, che andavano a pizzicarmi la pelle, la carne, sempre più in profondità. Mi sentivo morire, volevo morire. Volevo morire al posto suo. Perché lui sarebbe morto. Perché lui aveva il cancro. Era una vittima della morte. Ed io ero una vittima indiretta, insieme ad amici e famiglia."
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Indirect Victim



Nel mondo esistono tante cose brutte, ma tu te ne accorgi solo quando capitano a te.

 
Queste erano le parole che mi facevano addormentare ogni sera, da bambina. Mia madre me le ripeteva all'infinito, forse perché sperava che ne comprendessi il vero significato, e che non aspettassi che le disgrazie capitassero a me per comprenderne la gravità.
Beh, se questo era l'intento, ci era riuscita alla grande. Da piccola, nel mio letto caldo, quando sentivo la mamma andare via dalla stanza, ad occhi chiusi, mi ripetevo che un giorno avrei cambiato le cose. Crescendo, capii che non potevo cambiarle del tutto, ma potevo renderle meno orribili: e, così, mi impegnai a fondo per farlo. Già a dodici anni, iniziai con la beneficenza, che a mano a mano che crescevo si fece più presente nella mia vita.
Ciò che però più mi aveva interessata era stata una malattia: il cancro. La odiavo. Non riuscivo a capacitarmi della scia di morte e dolore che si portava dietro.
Pensavo a quelle povere persone, bambini, ragazzi e adulti, che non potevano fare nulla, se non godersi ogni alba e ogni tramonto, sapendo che poteva essere l'ultimo che vedevano.
 Forse fu per questo, per la mia innocenza, che sono stata punita.
La verità era che non esistevano solo i malati, coloro che guardi con compassione, quelli che non potevano più vedere la luce del sole, sentire la voce dei loro cari, o provare il calore di una mano che ti accarezza.
No, non c'erano solo loro.
C'erano anche coloro che vivevano, ma avrebbero preferito non farlo.
E loro erano le vittime indirette di tutte queste disgrazie: i familiari, gli amici, gli amanti.
Io ero una di loro.
 
Era un giorno piovoso, noioso anche, un giorno qualunque, quando lo incontrai. Un ragazzo alto, con una massa di capelli ricci e castani indomabili, un sorriso mozzafiato e due occhi verdi capaci di illuminare una città di notte.
Eravamo entrambi dei volontari per la mensa dei poveri, e fu lì, mentre servivamo il cibo sorridendo a quelle persone, che ci parlammo per la prima volta.
«Oh, scusami tanto!» avevo esclamato io, dopo essergli andata addosso con un piatto e avergliene rovesciato metà contenuto addosso. Sorrisi imbarazzata e rossa come un pomodoro, incantata da quei pozzi verdi.
«Non importa. Piacere, sono Harry»
«Grace»
Quella fu la prima volta che sentii la sua voce calda e la sua parlata calma. Continuammo a parlare tutta la giornata, scoprimmo di avere entrambi diciassette anni e di avere vari amici in comune.
E così, la mia vita si capovolse del tutto. Non era più la beneficenza la mia priorità assoluta, non mi importava uscire con i miei amici se non c'era lui, preferivo restare a casa con lui a guardare un film, o solo a sentirci a telefono, piuttosto che leggere o ascoltare la musica. Era tutto diverso. Non vivevo più per gli altri, vivevo per lui.
Una sera, poi, mi disse che anche lui viveva per me.
«Ciao» disse lui ansimante. Mi aveva chiamato pochi minuti prima, dicendomi ansiosamente che doveva parlarmi. Non me l'ero fatto ripetere due volte e mi ero precipitata nel luogo stabilito per l'incontro.
«Ehi» dissi con il cuore a mille «Dovevi dirmi qualcosa?»
Sorrise, come solo lui sapeva fare «Sì, beh, è più semplice così...» lasciò in sospeso la frase e, poco a poco, si avvicinò. Molto lentamente, per essere sicuro che lo volessi anch'io, ma io non mi allontanai mai, anzi, mi avvicinai a mia volta.
Quando le nostre labbra si incontrarono sentii lo stomaco esplodermi, il cervello andare il tilt senza più riuscire a formulare una frase logica e il cuore... beh, lui era al settimo cielo. Un altro poco e sarebbe schizzato fuori dal petto. Per un attimo pensai di star avendo un attacco cardiaco, ma nonostante ciò non mi allontanai, ero felice. Preferivo mille volte morire in quel momento che rompere quella magia, interrompere quel contatto che credevo di poter solo immaginare.
Ero felice. Quella sera la mia vita diventò perfetta. E lo rimase per circa un anno.
Ero una ragazza di quasi diciotto anni, con due migliori amiche, una famiglia che mi voleva bene e un fidanzato perfetto. Ero brava a scuola, ero responsabile, dolce, gentile, carina ma, soprattutto, mi sentivo amata.
Ma nulla durava per sempre.
La mia felicità ebbe vita breve.
Perché?
Perché un giorno ricevetti un messaggio da Harry. Mi chiedeva di incontrarlo davanti alla nostra libreria preferita. Avevo capito subito che c'era qualcosa che non andava. Harry non era il tipo da messaggini, se doveva dirmi qualcosa chiamava.
Ci andai, leggermente preoccupata.
Facevo bene a preoccuparmi.
Quando lo vidi, che camminava avanti e indietro davanti all'ingresso del parco, sorrisi istintivamente, ma quando vidi la sua espressione affranta e pensierosa m'insospettii.
«Ciao Gracy... io... devo dirti una cosa» iniziò così il discorso, e per un attimo pensai che volesse lasciarmi. Non ebbi il coraggio e la prontezza di dire nulla, aspettai, muta, che continuasse.
Le parole che vennero fuori dopo non le avrei mai dimenticate, ma non le ripeterò.
Ciò che mi disse mi lasciò senza parole. Per un attimo pensai che fosse uno scherzo, uno di pessimo gusto. Mi sentii cadere il mondo addosso. Improvvisamente sentii un peso sempre più pesante crescermi sul petto, sul cuore. Un peso che sento ancora adesso. Mi sentivo come se un giocatore di rugby di duecento chili mi stesse saltando sopra, come fossi un tappeto elastico. Mi venne da vomitare. Ero shockata, così tanto che non versai nemmeno una lacrima, non in quel momento almeno. In quel momento sentii come una crepa formarsi nella mia bolla di vetro, nella mia palla di cristallo che racchiudeva la mia vita perfetta. La crepa si fece sempre più grande, fino a indebolire e distruggere tutto, con una lenta e dolorosa tortura. Restai senza fiato per un po', Harry continuava a parlare, ma io non lo ascoltavo più. Sentivo solo il dolore che mi procuravano le schegge della mia bolla infranta, che andavano a pizzicarmi la pelle, la carne, sempre più in profondità. Mi sentivo morire, volevo morire. Volevo morire al posto suo. Perché lui sarebbe morto. Perché lui aveva il cancro. Era una vittima della morte. Ed io ero una vittima indiretta, insieme ad amici e famiglia.
Lo abbracciai, interrompendolo. Fu in quel momento che lasciai passare la prima lacrima, e da lì anche la seconda e la terza, e la quarta...
Pianse anche lui. Piangemmo insieme, abbracciati, come se la forza della mia stretta intorno al suo busto, e la sua alla mia vita potesse tenerlo ancorato accanto a me, nel mondo dei vivi. Per un attimo mi sembrò quasi che la morte stessa non potesse separarci. Io lo amavo, non sarei riuscita ad andare avanti senza di lui. Non riuscivo ad immaginare la mia vita senza di lui.
Lui era la mia vita. Era il mio tutto. La forza che mi teneva ancorata al suolo, il coraggio che mi faceva alzare la mattina, il sorriso che mi faceva affrontare tutto con speranza. Io vivevo per lui. E lui per me.
Il mio primo errore fu piangere davanti a lui, e farlo, quindi, piangere.
Non avrei dovuto. Dovevo sembrare sempre forte. Sì, sembrare. Perché in realtà io non sapevo nemmeno che cosa voleva dire essere forte, ma lo avrei imparato, mi promisi. Per lui. Per Harry, il mio Harry, sarei stata forte.
I mesi successivi mi sforzai di sembrare allegra, gioiosa, di non pensare a cosa sarebbe successo a breve. Tentai di concentrarmi su altro, qualsiasi altra cosa. Piangevo la notte, quando lui non poteva vedermi.
Una volta, durante il secondo mese di agonia, pensai anche di lasciarlo. Credevo che non sarei potuta essergli d'aiuto, che avrei solo peggiorato le cose, che non gli servivo ormai.
«Se tu te ne vai, per me sarà come morire subito» furono le parole che mi disse quando gli confessai le mie paure e dubbi. Non dimenticherò mai quelle semplici parole, che mi ridarono coraggio, che mi fecero continuare a sorridere, per lui. Valevano mille "ti amo".
Ogni giorno andavo a prenderlo a casa, quando non dormivo da lui o viceversa, andavamo a scuola, poi studiavamo e infine andavamo in giro per la città, a divertirci, a dimenticare, a rilassarci, ad amarci. Lo portai sempre in un posto diverso. Quando finimmo quelli della nostra città, iniziai a farlo viaggiare. Per 'viaggiare', ovviamente, intendevo che lo portai nei paesini vicino alla nostra città, al mare, in montagna. Sempre in posti molto frequentati, così da essere sicuri che, casomai fosse successo qualcosa, avessimo avuto un ospedale vicino. Questo, però, avvenne solo finché poté. Solo i primi mesi furono davvero 'normali'.
Non litigavamo più. Avevamo imparato a non fare una questione per ogni singola cosa. Avevamo imparato ad accettare i piccoli difetti l'uno dell'altro. Forse solo allora avevo imparato davvero cosa voleva dire amare.
Non c'era giorno che passasse senza che camminassimo mano nella mano, senza che guardassimo i tramonti e il comparire delle stelle insieme. Ogni giorno mi facevo cantare una canzone. Harry aveva una bellissima voce, a soli diciassette anni avrebbe potuto sfondare, ed era questo il suo sogno nel cassetto: diventare famoso. Purtroppo non avrebbe avuto la possibilità di provarci. Non ne parlavamo molto, ma quando succedeva gli ricordavo sempre che per me lui era il miglior cantante del mondo. Se ci avesse potuto provare, ero sicura che ci sarebbe riuscito. Ci rintanavamo sempre al parco quando doveva cantarmi qualcosa, ci sedevamo a terra, vicino al lago e lui, accompagnato dalla sua chitarra, mi faceva le sue performance. Chiunque avrebbe pensato che lo facevo per farlo contento, ma soffermandosi ad osservarci un attimo di più, avrebbe capito che a me piaceva. Piaceva davvero ascoltarlo, ore ed ore, cantare, cantare per me le sue canzoni preferite o, a volte, scritte da lui.
«Ricordati sempre che tu sei la mia superstar preferita, Harry» gli dicevo sempre, come se avessi paura che potesse andarsene senza sapere che lo amavo e che avevo fiducia in lui «io sono il tuo pubblico, non ti servono paparazzi e ragazzine urlanti, tu sarai sempre una superstar»
Gli piaceva sentirselo dire. Ci scherzava anche sopra, insinuando che sarei stata gelosa se fosse diventato famoso. E dovevo ammettere che sì, lo sarei stata, e anche tanto.
Lui scherzava, sorrideva, parlava, viveva, anche più di me. E mai, mai una volta, l'avevo sentito deprimersi, lamentarsi, disperarsi, o anche solo dire che non era giusto tutto quello. Sarebbe stato normalissimo, nessuno avrebbe potuto biasimarlo. Ma lui non lo faceva, non si arrendeva, lottava, con il sorriso sulle labbra. Era lui a dare forza a noi, quando sarebbe dovuto essere il contrario.
Spesso io la mattina arrivavo da lui con gli occhi rossi e cerchiati, ma sorridevo e cercavo di nasconderlo, e anche se lui se ne accorgeva non diceva nulla, nonostante ci restasse male.
In quei sei mesi vissi con lui. Stetti con lui più che potei. Anche quando lo trasferirono all'ospedale, andavo ogni giorno da lui, dopo scuola, studiavo seduta sul letto accanto a lui, gli portavo del cibo, qualche pensierino ogni tanto. Ascoltavamo la musica, guardavamo film, strappalacrime e horror. La mia intenzione era cercare di vivere come se nulla fosse.
A scuola tutti avevano notato la sua assenza fisica, e la mia mentale. Non mi importava. Forse ero diventata asociale, e i miei voti erano peggiorati, ma erano gli ultimi dei miei problemi. Sarei stata promossa ugualmente, in quanto avevo avuto un'ottima media per tutto l'anno. Così non ci pensavo, stavo sempre e solo con lui, Harry. Perché era con lui che volevo stare, per sempre.
Con il tempo quasi mi abituai a quella situazione, e a volte mi dimenticavo che il tempo scorreva, e che la clessidra stava per terminare il suo ultimo giro.
Fu un giorno di maggio, quando ormai le sue condizioni erano peggiorate molto, che lo vidi piangere, singhiozzare, per la prima volta dopo cinque mesi.
Stavo arrivando dalla scuola, con delle ciambelle in mano ed un dvd, con il sorriso sulla faccia, eccitata all'idea di vederlo di nuovo, di baciarlo e di dirgli che lo amavo fino allo sfinimento.
Ma, quando mi vide l'infermiera, che ormai si era abituata alla mia presenza, mi avvertì delle condizioni psicologiche di Harry.
«Vattene!» mi gridò quando entrai. Ci rimasi male, no di più, sentii qualcosa spezzarsi dentro di me, ma mi feci coraggio e mi avvicinai ancora di più «Vai via, Gracy, non voglio che tu mi veda così..»
Non lo ascoltai, e con un espressione dolce mi avvicinai al letto. Tentò di coprirsi il viso, di nascondersi alla mia vista. Non aveva più i capelli. Quei ricci con cui tanto amavo giocare erano spariti. Ma a me piaceva lo stesso. Era bellissimo. E lo amavo. E non mi importava della sua testa bianca.
Gli allontanai delicatamente le mani dal volto, e lo guardai. Fui io a dare forza a lui, quella volta. Ci provai con tutta me stessa. Lo guardai intensamente «Harry, sei bellissimo lo stesso. E non lo dico per dire. Per me tu sei perfetto, con o senza capelli. Perché io non guardo solo l'aspetto esteriore. Io ti conosco, meglio di chiunque altro. E ti amo. Amo tutto di te. Quindi, non piangere, perché per me sei perfetto, e devi esserlo anche per te stesso»
Quella fu la prima e l'ultima volta che lo vidi con le lacrime agli occhi. Mi baciò e mi ripeté tutto il tempo che mi amava. Guardammo il film e mangiammo le ciambelle, accucciati sul letto, uno stretto all'altra, cercando di essere uniti come non mai.
E desiderai che quel momento non finisse mai. Non sarei mai tornata indietro, perché quei sei mesi erano stati i migliori della mia vita, delle nostre vite. Avevamo imparato ad amarci davvero, con o senza i capelli, con o senza il tempo dalla nostra parte. Avevamo imparato cosa significava essere completamente, follemente e veramente dipendenti da una persona, voler dare tutto, anche la stessa vita, per quest'ultima. Ad ogni suo sorriso, io sorridevo, e ad ogni sua lacrima, io piangevo.
Festeggiammo il suo diciottesimo compleanno all'ospedale. Mi occupai di tutto io. Era una specie di festa a sorpresa. Quando quel giorno tornai da scuola, portai con me alcuni dei suoi amici più intimi, che sentiva ancora, le mie due migliori amiche e i loro fidanzati, e il cibo e la musica, e i regali. Eravamo pochi, ed in una sala d'ospedale, ma non contava. Nulla contava, se non l'amore che ciascuno di noi provava per quel ragazzo riccio che ci aveva cambiato la vita.
 
Fu così che arrivò il fatidico giorno. La scuola ormai era finita da una settimana, e io passavo giorno e notte in quell'ospedale.
Poi, una notte, mentre dormivamo stretti l'uno all'altro, Harry si svegliò. Svegliò anche me, mi guardò con amore, ed io feci lo stesso. Aveva gli occhi assonnati, ma sprigionavano la stessa luce di quando era sveglio e vigile. Ed era spaventato, anche se cercava di nasconderlo, e piangeva, anche se provava a trattenere le lacrime. Avevo capito tutto. Era arrivato il momento. Io non ci provai nemmeno a trattenere i pianti e i singhiozzi, o a fingere di essere forte. No, quella notte no. Quella notte non dovevo essere forte, dovevo solo essere innamorata.
Ci baciammo a lungo. Fu un bacio umido, a causa delle nostre lacrime, disperato, passionale, ma carico d'amore. Amore vero, amore immortale, un amore così potente e forte che non sarebbe stato spezzato nemmeno dalla morte. Harry sarebbe sempre stato parte di me, avrebbe vissuto nel mio cuore, per sempre.
«Ti amo» dicemmo all'unisono. Erano le uniche parole che mi sembravano sensate in quel momento.
«Ricordati che io sarò sempre qui, con te, nel tuo cuore» disse, per poi posare una mano sul mio petto. Usò gli ultimi minuti che gli restavano per cantarmi una canzone. Non l'aveva scritta lui, ma era in assoluto la nostra preferita da quando avevamo saputo. Era, in un certo senso, la nostra canzone: Angels Among Us, degli Alabama.
Quando finì di cantare, ci baciammo, un'ultima volta, con passione.
Ci guardammo sorridendo e piangendo, finché ad un tratto vidi la luce abbandonare quegli occhi verdi, ed un suono sordo fece capolino nella stanza. Harry era lì, davanti a me, ma non c'era più. Le infermiere accorsero.
Mi trascinarono a forza via. Ma io non volevo andare via. Volevo restare con lui, per sempre. Per quando fossi preparata a quel giorno piansi, gridai, mi dimenai come una posseduta, tirai calci al vuoto, mi buttai per terra. Piansi ogni lacrima che avevo in corpo, gridai finché non mi andò via la voce. Chiamarono la sicurezza per portarmi fuori dall'ospedale. I miei genitori mi riportarono a casa, quelli di Harry erano distrutti quanto me, così come sua sorella maggiore. I nostri amici soffrivano. Ci chiamavamo solo per piangere insieme. Ma col tempo tutti si ripresero. Solo io restai ancorata al ricordo dei suoi occhi, delle sue labbra, della sua voce. Della nostra ultima notte insieme.
Non mangiavo, non parlavo, non vivevo. Tutti provavano a tirarmi su, ma la verità era che sapevano anche loro che nulla mi avrebbe potuta far sentire meglio. Solo una cosa, una cosa impossibile: lui. Ma era irraggiungibile.
L'estate la passai chiusa in casa, a piangere.
Quando ricominciò la scuola sembrava andare tutto bene. Studiavo e prendevo bei voti, certo, ma era tutta un'illusione. Lo studio mi distraeva molto, e lo usavo per scacciare i pensieri, ma la realtà era che mi sentivo morire dentro ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Perché pensavo a lui. Lui popolava i miei sogni e mi tormentava di giorno. Lo vedevo ogni volta che chiudevo gli occhi, lo pensavo ogni secondo della mia vita, sentendomi in colpa se non lo facevo.
Ed è ancora così.
Avevo imparato che quando da piccola desideravo poter morire al posto degli altri per prendermi tutta la sofferenza sbagliavo. Per alleviare davvero il dolore nel mondo, avrei dovuto rimpiazzare le famiglie, gli amici, gli amori delle vittime. In quel modo, avrei potuto prendermi io le sofferenze ed il dolore.

 
Sono passati dieci anni.
Adesso sto "bene", ma una parte di me è morta con lui.
Nonostante tutto, sono andata avanti, per modo di dire. Lui è sempre stato con me, ad aiutarmi e guidarmi verso il mio destino.
E' solo grazie a lui e al suo amore che oggi ho realizzato il mio sogno. Diventare medico. E non un medico qualunque, io ero specializzata in una sezione particolare: la sezione dedicata ai tumori.
Ho l'opportunità di provare a cambiare le cose, o quantomeno accompagnare nel loro viaggio finale i miei pazienti, prepararli, raccontargli la mia storia, affinché si sentano meglio.
Lo faccio per lui. Perché il suo ricordo possa vivere sempre con me, perché lui possa non essere morto per nulla. Io sono ancora qui, sono una vittima eterna del cancro, una vittima indiretta, e continuo la mia vita, in attesa del momento in cui potrò raggiungerlo.
Adesso posso aiutare quelli come lui. Quelli segnati dal destino, quelli che un destino non ce l'hanno proprio in fondo. E non potrei chiedere di meglio. In questo modo io partecipo alle loro vite, soffro con loro, e accumulo storie da raccontare. Ogni mio paziente, adesso morto, vive dentro di me, insieme alla sua storia.
Ed è tutto per lui, per Harry.
E' così che ho chiamato il bambino che ho adottato. Ha quattro anni, un cespuglio scuro in testa e due occhi smeraldo. E' identico a colui che avrei voluto fosse il padre.
Ho imparato a pensare a lui senza piangere, senza la tristezza e il vuoto, ma con gioia. Ritengo una fortuna essere stata amata da Harry, e mi reputo fortunata come nessun altro ad aver vissuto un amore come il nostro, che ancora adesso vive, nel mio cuore, indistruttibile, forse più forte di prima. Sta solo aspettando di essere ripescato. Di tornare dal suo destinatario.
Aspetta di tornare a casa, da Harry.
Perché noi siamo innamorati, e nemmeno una malattia come il cancro può distruggere il nostro amore. Noi siamo vittime, legate dalla sofferenza. Solo che la nostra è una sofferenza diversa.
Perché io non sono una vittima del cancro, sono una vittima indiretta.







*Angolo autrice*


hooolaaa. c: 
un po' triste come cosa, lo so.. bhe, che posso dire mi ispirava. e poi ce l'avevo da non so quanto tempo, e volevo postarla.
che ne dite? 
me la immaginavo.. diversa. disicuro speravo venisse meglio, ma dovremo accontentarci. ewe
ditemi che ne pensate, le critiche sono ben accette. lol
okay, basta sono stanca. lol
ciao e grazie per aver letto,
Livia. c:
 
 
  
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