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Autore: nameless colour    12/01/2013    5 recensioni
Classica one shoot scritta in compagnia di buoni amici ed una tazza di latte e caffè. Ispirata da alcune quotes del film Paris, Je t'aime
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Dal testo:
Qualche volta ce ne stavamo sul divano di casa mia guardando Harry ti presento Sally nonostante conoscessimo entrambi i copioni a memoria. Arrivavamo sempre allo stesso punto e pretendeva che gli dedicassi il solito monologo guardandomi ogni volta con un’espressione diversa.
Folle, felice, divertito, innamorato.
Arrivati alla parte del “Quando ti rendi conto che vuoi passare il resto della tua vita con una persona, vuoi che il resto della tua vita inizi il prima possibile,” la sua domanda era la medesima in tutte le occasioni.
«Quando vuoi che inizi la tua vita?»
La mia risposta non poteva che essere una.
«Il prima possibile.»
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Ci sono volte in cui la vita ti chiama per un cambiamento. Una transizione. Come le stagioni.
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Dedicata a te che la leggerai.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La nostra primavera è stata meravigliosa.

 

Non sono in grado di ricordare l’esatto momento in cui mi sono innamorato di lui, ma il mio cuore è ancora costellato di ricordi.

Come quella volta in cui eravamo stesi sul tappeto blu di casa sua – quante ne avrà viste, quel tappeto? – ed improvvisamente avevamo iniziato a discutere. Non ricordo bene di cosa, né come mai arrivammo a tanto, ma ci ritrovammo in piedi l’uno di fronte all’altro e con gli occhi imporporati da lacrime pallide.

Io ero sulla difensiva e lui mi stava urlando contro qualcosa, qualcosa che suonava come Non farlo mai più e Mi dispiace. Forse era un’altra litigata su New York e la sua vita, o forse era colpa della mia paura di non riuscire a rientrare nella tela del suo sogno. Avevo questa sorta di…terrore – ingiustificato – di essere dimenticato e sostituito come si fa con la vecchia pila di un orologio.

«Smettila di fingere che ti interessi, Blaine, quando il tuo è solo egoismo.»

 

Mi disse, con una rabbia non quantificabile negli occhi. Come uno scalatore che si aggrappa alla sua vetta con le unghie e con i denti. Non era nei miei piani rovinare quella che era l’aspirazione di una vita, non era nei miei piani neanche dover arrivare a tanto.

 

«Sai una cosa, Kurt? » Iniziai col piede sbagliato ed avevo la sensazione che la frase non sarebbe finita meglio, «Il problema è uno solo, e non riguarda me! Il mio sogno sei tu. Il tuo è New York. E New York evidentemente non sono io.» Riesco a focalizzare le sue mani tremanti anche a distanza di tempo; tanti piccoli fotogrammi mi ritornano in mente quasi come se questi dieci anni non fossero passati affatto.

 

«Non dire così, Blaine… ti prego. Sai bene che ti stai sbagliando, parli così perché sei accec-»

 

Non riuscii a farlo finire perché sentivo del fuoco scoppiettarmi nel cuore.

 

«Sì che è così! Ho cambiato la mia vita per te, Kurt. Cos’altro mi stai chiedendo? Di lasciarti andare e di fingere che tutto andrà per il verso giusto? Sai bene come andrà a finire, perché questa storia finirà.» Le parole mi uscirono incontrollate e Dio, in quel momento più che mai avrei voluto riuscire a rimangiarmi tutto.

 

«Cosa dovrei fare? Restare bloccato in una città che non mi ha dato nulla e con persone che mi rendono costantemente la vita un inferno?»

 

«Ci sono io. Ci sono io… Kurt, io lo farei, dannazione.» Probabilmente fu la volta in cui mi resi conto che no, non tutti sarebbero disposti a ricambiare ciò che noi faremmo per loro. Anche se la persona in questione è la ragione prima della tua esistenza.

 

«Blaine, mi stai chiedendo di restare?» Duro, deciso, diretto. Le sue parole furono secche, ma probabilmente nulla avrebbe potuto addolcire quello sciroppo.

 

«Ti sto chiedendo di essere presente. Quando te ne andrai voglio avere ricordi nostri, non di te che parli della tua vita senza di me. L’ultima cosa che voglio è tapparti le ali. Solo… fammi questo regalo, adesso. Puoi?» Sono ancora grato a me stesso per l’aver misurato tanto bene le parole, perché so che sarebbe bastato un nonnulla per uscirne devastato. Il suo sguardo sembrò addolcirsi e forse qualche lacrima stava viaggiando lungo quelle isole. Forse aveva capito, aveva capito davvero.

 

«Posso. E lo farò. E scusa, scusami, se non sono stato in grado di capirlo da solo. Forse a volte la mia ambizione supera la norma.»

 

«C’è una sola cosa di te, Kurt Hummel, che non superi la norma?» Gli chiesi, con gli occhi ancora inumiditi dalle lacrime.

 

«Il mio amore per te non è di sicuro tra queste.» Mi conferma, per poi riprendere a parlare. «Adesso mi regali un sorriso?»

Gli regalai un sorriso in grado di accecare il sole.

Dopo questo chiarimento la nostra vita riprese perfettamente nella norma. Continuavamo a stenderci sulla moquette blu di camera sua, io sdraiato con la sua testa sull’addome. Ci ritrovavamo  a discutere del cinismo di Tabitha che un po’ mi ricordava il suo e di Vinny del Jersey Shore che frequentava il college causandogli il timore di vedermi un giorno in tv con una felpa leopardata.

Andavamo al cinema e gli tenevo la mano sulle impolverate sedute di velluto rosso mentre lui mi allungava i popcorn. Lasciava che gli accarezzassi le gote noncurante delle mie dita untuose di burro e sale; mi baciava con passione e con timore, come le prime volte. Lasciava che lo accompagnassi a casa a piedi e che lo portassi fin sotto la veranda; mi salutava con un bacio sulla guancia ed io mi sentivo felice. Uscivamo il venerdì sera per andare da Breadstix e ci sentivamo come protagonisti di un film, lui e la sua insalata ed io con il mio pollo. Lo stuzzicavo mentre lo addentavo e lui con la sua aria un po’ altezzosa mi liquidava con uno sguardo che conoscevo fin troppo bene; mi faceva tenere il vassoio e lui prendeva un fazzoletto perché sapeva che avrei pasticciato tutto. Lasciava che pagassi il conto la metà delle volte e la metà delle volte andavamo al Lima Bean dove mi offriva un cappuccino medio accompagnato dal solito cupcake al cioccolato. Dopo qualche sorso lui aveva i baffi di latte ed io glieli cancellavo con il pollice per poi baciarmelo. Gli sorridevo così come si sorride ad un grande amore e lui ricambiava donandomi un sorriso largo quanto l’equatore. Quando facevamo l’amore voleva restare al buio ed io glielo concedevo; gli stringevo le mani mentre mi mugugnava “fai piano” con le labbra poggiate sul mio collo. La mia schiena era madida di sudore, sempre, ed impazzivo per il modo in cui le sue mani scivolavano per poi tornare su a stringermi i capelli. Lui amava quando gli cospargevo il corpo di baci ed amava un po’ meno quando gli dicevo di ricordarmi un atlante geografico, tanti erano i segni che gli avevo lasciato. La sua pelle era in grado di brillare al buio ma mi diceva di sentirsi nudo anche da vestito perché i miei occhi gli mettevano quasi soggezione. Una volta volle tenere i calzini e gli dissi di sì perché ero io a sentirmi in soggezione innamorandomi del suo corpo nudo.

Ad oggi dico che è stata la miglior cosa che potesse capitarmi e per quanto lo ami so che lui è in grado di dire lo stesso.

Qualche volta ce ne stavamo sul divano di casa mia guardando Harry ti presento Sally nonostante conoscessimo entrambi i copioni a memoria. Arrivavamo sempre allo stesso punto e pretendeva che gli dedicassi il solito monologo guardandomi ogni volta con un’espressione diversa.

Folle, felice, divertito, innamorato.

Arrivati alla parte del “Quando ti rendi conto che vuoi passare il resto della tua vita con una persona, vuoi che il resto della tua vita inizi il prima possibile,” la sua domanda era la medesima in tutte le occasioni.

«Quando vuoi che inizi la tua vita?»

La mia risposta non poteva che essere una.

«Il prima possibile.»

Era il nostro inizio, la nostra primavera. Ed è stata meravigliosa.
 

Ma l’estate è finita.
 

I primi tempi a New York non furono affatto facili ed ho odiato il fatto che fosse stata l’unica cosa andata secondo i piani; dopo il diploma ci siamo regalati l’un l’altro l’illusione di poter sopravvivere a ciò che ci avrebbe devastati. Frequentavo ancora quella veranda nei tiepidi pomeriggi di giugno, quando il sole non è né debole né insopportabile, ed allora mi sdraiavo sul prato cosparso di margherite piuttosto che sul tappeto blu. Mi parlava delle volte in cui avrebbe potuto ospitarmi e di quelle in cui sarebbe tornato ed io mi innamoravo sempre un po’ di più di quella passione che animava le sue parole. Poi ad un tratto si fermava, mi fissava, e mi stampava un bacio sulle labbra. Tremavo al contatto.

Man mano che i giorni se ne andavano, le certezze perdevano forma ed il sole di agosto pendeva oramai sul mio collo. Bruciava.

Quando andammo in aeroporto per salutarci mi disse che sarebbe sceso per Halloween; quella di trascorrerlo insieme era una tradizione e si sa, le tradizioni vanno rispettate.

Non scese per Halloween. Non scese neanche per il Ringraziamento. Ma andai da lui nel mese di novembre. L’appartamento che condivideva con Rachel era carino, ma troppo grande e dispersivo e mi faceva sentire in una costante situazione di angoscia.

Avevamo sognato di uscire insieme la sera e di andare in giro in limousine per la Grande Mela, alzandoci e sporgendoci fuori la cappotta con un bicchiere di champagne sentendoci vivi, con il vento che ci scompiglia i capelli e ci sfiora i pensieri urlando a squarciagola un verso di qualche canzone; avevamo sognato di andare a fare colazione tutte le mattine in quei piccoli bar che si trovano per la città, quelli che anche se non hai mai frequentato un po’ ti fanno sentire a casa. Sarebbe stato bello prendere il menu tra le mani e sentirne il profumo pensando a chi prima di noi l’ha sfiorato. Volevamo andare al Central Park per accarezzare la statua di Balto e fotografarci lungo il ponte sul ruscello e poi fingere di perderci tra gli alberi; volevo portare del pane da casa per far mangiare gli scoiattoli e speravamo di andare a Times Square per smarrirci tra la gente con la consapevolezza che ci saremo prima o poi ritrovati.

Io e lui non facemmo mai nulla di quello che avevamo programmato. Non riuscimmo neanche a prenderci il nostro tempo perché Kurt era sfinito. Io avevo la scuola e non potei trattenermi quanto avrei preferito, ma anche se fossi rimasto la situazione non sarebbe potuta migliorare. Delle occhiaie violacee gli contornavano gli occhi e le costole facevano capolino sotto le camicie e le maglie che indossava. Ero preoccupato ma diceva di stare bene, ed il suo tono non ammetteva repliche. Tornai all’aeroporto senza alcun giuramento ma con qualche promessa infranta. I suoi occhi erano lividi ed arrossati, si passò una mano sugli occhi per scacciare qualche lacrima che lo tradiva e poi ci salutammo. Una sola cosa mi disse.

«Vuoi farmi un regalo?»

Capii in un istante; conoscevo Kurt bene quanto le mie tasche.

Fu in quel momento che risi come un anno prima. Con un sorriso che poteva accecare il sole.

Passò un altro anno. Finii il liceo e Kurt poté venire per la cerimonia del diploma; due anni prima gli prestai il mio fazzoletto di stoffa per far sì che si asciugasse le lacrime ed in un momento di commozione me l’ha restituito. Lo aveva conservato per tutto il tempo.

Andai alla Julliard. Fui scelto al primo provino nonostante la drama division fosse la prediletta di molti; non presi un appartamento come i miei genitori avevano voluto. Scelsi di restare nei dormitori perché i corsi spesso finivano tardi e proprio non mi andava di tornare da solo nel gelo di quattro mura. Con Kurt fu una questione a parte. Spesso restavo a dormire da lui, sentivo che qualcosa stava mutando. Il fatto che fossimo più vicini fu una medicina. Ci fu un cambiamento.

E lui lo accettò, certo. Si era spostato dall’appartamento che condivideva con Rachel in uno non distante dal Lincoln Center. E gli ho presentato i miei amici, i miei genitori. Ho ascoltato i suoi dubbi, le sue canzoni, le sue speranze, i suoi desideri, la sua musica. Lui ha ascoltato i miei. Il mio italiano, il mio tedesco, un po’ di Russo che avevo imparato tra i dormitori. Gli avevo regalato un walkman. Lui mi aveva regalato un cuscino. Ed un giorno, mi ha baciato. E mi sembrò come la prima volta. Il tempo passava, ci salutava, e tutto sembrava così semplice, così libero, così nuovo, così speciale. Andavamo al cinema, andavamo a ballare, a fare shopping; abbiamo riso, lui ha pianto, abbiamo nuotato, fumato, ci siamo fatti la barba assieme, urlava; a volte senza motivo, altre volte sì. Sì, a volte sì. L’ho portato in accademia, ho studiato per i miei esami, l’ho ascoltato cantre, le sue speranze, i suoi desideri, la sua musica. Lui ha ascoltato me. Eravamo uniti, così uniti, sempre così uniti. Andavamo al cinema, a nuotare, abbiamo riso. Urlava, a volte per un motivo, ed altre volte senza. Il tempo passava, il tempo volava. Lo portavo alla Julliard. Ho studiato per i miei esami. Lui ascoltava il mio italiano, tedesco, il mio russo che stava migliorando, il mio nuovo francese. Ho studiato per i miei esami. Urlava, a volte lo facevo anche io. Il tempo passava senza che ce ne accorgessimo. Urlava senza motivo. Ho studiato per i miei esami, i miei esami, i miei esami. Il tempo passava e lui urlava, urlava, urlava. Io andavo al cinema.[2]

Non so ad oggi se possa parlare di evoluzione, ma tutto inizia per finire. Avrei giurato che non fosse il nostro caso, che fossimo sani, ma io non lo sono mai veramente stato. Kurt era la mia forza, e lui stava per cedere.

Le liti stavano diventando troppo frequenti e stavo odiando il fatto di averlo così vicino. I suoi amici ci toglievano del tempo ed i miei corsi erano estenuanti. E quando gli proposi di andarcene, di prenderci una pausa, lui rifiutò. Ancora una volta New York aveva la meglio su di me. E non mi so spiegare perché. Non mi so spiegare perché ci stavamo perdendo e perché questa cosa fu quasi del tutto indolore per lui. Quella città stava diventando una malessere. Era diventato l’ombra di se stesso, stanco, con un senso di insoddisfazione che sembrava essersi impadronito di lui. Era malato, e New York era la sua malattia.

Una mattina dopo aver fatto l’amore presi la schiuma da barba e gli sporcai un po’ il naso, un po’ i capelli. Non riuscii mai a comprendere veramente il motivo della sua rabbia. Lo stress e gli impegni stavano prendendo il sopravvento e non avevamo la pazienza di aspettare che finisse, né la nostra storia era così poco importante da poterla trascinare vita natural durante. Capii che non potevamo più andare avanti e che ci sarebbe stato davvero poco da fare. Ne discutemmo, lui ne uscì distrutto, ma forse io di più. Mi mancavano le sue risposte, la sua acidità. Il suo profumo, i suoi occhi.

La sua pelle, la sua purezza. Mi mancava la persona che ero quando stavamo insieme e mi mancava la persona che era lui quando stava con me anni prima.

La notte in cui ci lasciammo sognai, per la prima volta dopo mesi. Un sogno dipinto di pollo e insalata, baffi di latte e dolcetti al cioccolato, calzini e segni sul collo.

Pensai che dopotutto il nostro amore non era diminuito, non era aumentato.

Ci sono volte in cui la vita ti chiama per un cambiamento. Una transizione. Come le stagioni.[3]

La nostra estate era terminata.
 

 

 

Ed abbiamo perso

l’autunno.

 

Mi sveglio nel torpore del piumone in una giornata piena di neve e respiri. Mi sfioro il mento per poi strofinarmi gli occhi e passo la mia mano sulla barba di quattro giorni che mi pizzica un po’ i polpastrelli; è sempre un trauma doversi alzare dal letto per consegnarsi al freddo di una mattina così gelida e bianca, ma un po’ mi rassereno pensando che ho il solito cappuccino medio che mi aspetta. Il solito di una vita… e sono ancora convinto che le tradizioni vadano rispettate.

Dopo la laurea, per quanto mi sarebbe piaciuto restare nei dormitori – Dio, era il mio ambiente – ho dovuto trasferirmi nell’appartamento dei miei incubi. Mura bianche e fredde, soffitti imbiancati – mi mancano da morire le stelline di plastica fluorescenti di casa di Kurt – e nessun tappeto blu. I ragazzi del corso di teatro mi aspettano a mezzogiorno alla Trentaquattresima Strada e credo sia il caso mi dia una mossa, considerando che la mia abitudine di andare a letto tardi e svegliarmi dopo qualcosa come dodici ore non è mai passata.

Sì, è una tradizione.

Dovrei radermi, ma non lo faccio. È una decina d’anni che io e la schiuma da barba abbiamo un rapporto abbastanza ostile e cerco di farlo abbastanza discontinuamente. Chissà perché. Evito e mi dirigo in cucina a fare colazione ed i miei movimenti sembrano quasi robotici ai miei stessi occhi; sono gli stessi da cinque anni. Cinque anni in cui la mia vita è andata avanti ma mi sembra di vivere bloccato nel passato. Mi manca qualcuno che mi svegli con un  bacio mentre dormo, che mi abbracci quando ne ho bisogno, qualcuno con cui litigare quando è il caso… e sarebbe estremamente facile trovare questo qualcuno se non avesse, nella mia mente, dei tratti abbastanza nitidi.

Apro l’anta del mobile in cucina e tiro fuori una ciotola con una confezione di cereali ed apro il frigorifero per prendere una busta di latte. Verso i cereali nella scodella e subito dopo il latte, poi accendo la tv già sintonizzata sul notiziario delle dieci. Per qualche secondo seguo la voce della telecronista giusto per far un po’ ammorbidire i cereali ed inizio ad immergere il cucchiaio per mangiare. Qualche goccia di latte subito inizia a colarmi verso il mento per poi cadere sul tavolo; qualcuno mi avrebbe porto un vassoio e magari mi avrebbe asciugato il mento con il pollice per poi baciarselo. Così, a modo mio.

Il tempo di sparecchiare e penso di dirigermi in caffetteria ed infatti, una mezz’ora dopo aver fatto colazione, sono riuscito ad arrivare quasi in orario.

La ricerca del bar adatto è stata veramente difficile. Alcuni erano troppo rustici con l’aria unta di panini alla pancetta già dalle otto del mattino, altri troppo grigi e metallici.

Alla fine della mia ricerca, dopo qualche mese e qualche pellegrinaggio, sono riuscito a trovare quello perfetto, quello in cui, quando sfiori il menu, senti il profumo di chi l’ha accarezzato prima di te.

Non posso dire di non essere soddisfatto della mia vita, quella che ho condotto negli ultimi anni. Sono stato al Central Park a passeggiare sul ponte, quello del ruscello, ed ho dato da mangiare il mio pane agli scoiattoli; sono andato alla statua di Balto e l’ho accarezzata, poi mi sono perso tra gli alberi. Una sera ero ubriaco ed ho preso una limousine. Così, perché mi andava. Ho riempito il calice di cristallo di champagne ed ho aperto la cappotta per sporgermi. L’aria mi violentava i polmoni e lacrime calde mi scendevano lungo le guance mentre cantavo a squarciagola qualche verso di Keep Holding On. Andavo ogni sabato a Times Square e mi perdevo tra la folla.

Potevo spuntare tutte le caselle nella mia lista dei desideri, ma non c’era nessuno a cercarmi, né io dovevo trovare qualcuno.

I miei sogni ed i miei ideali si sono realizzati, ma… che farne se non hai nessuno con cui condividerli?

Rimando questi pensieri a dopo perché be’, si sta facendo tardi ed il mio cappuccino non aspetta.

Entro nel locale e subito il profumo dei chicchi di caffè mi inonda le narici. Mi sento quasi al Lima Bean, manca solo l’altra metà.

Mi metto in fila per aspettare il mio turno e quando arriva, Jessy mi regala il solito sorriso che sa di mamma. Il primo buongiorno è il suo. Mi da la mia ordinazione e ci salutiamo come se ci conoscessimo da anni. Devo ancora posare la banconota di resto nel portafogli mentre con l’altra mano tengo il bicchiere di caffè. Spero di non pasticciare perché ho indossato l’ultima camicia del guardaroba e… neanche a farlo apposta, imbatto in un uomo che subito impreca al contatto del liquido scuro e bollente contro la sua pelle lattea. Un “dannazione” sfugge dalle labbra di questi.

Faccio per scusarmi ma non riesco neanche a terminare la frase che incontro uno sguardo che mio malgrado, conosco bene.

«Kurt.»

«Blaine?»

 

La mia è una certezza, la sua esitazione. Un po’ come se avesse rimosso il mio ricordo dai suoi pensieri. Ci sediamo mentre consumiamo le nostre ordinazioni, lui il latte macchiato – come da tradizione, sì – ed io ciò che resta del mio cappuccino medio. Iniziamo a parlare come due vecchi amici più che come due ex – devo ancora assimilare questa sillaba – fidanzati. Lui mi parla dei suoi amici, delle sue storie, della sua vita, del suo lavoro. Io gli parlo degli amici che ho perso, delle storie che non ho avuto, della mia vita che sembra sfuggirmi di mano e del mio lavoro che è l’unica cosa cui son legato. Ad un certo punto ci fermiamo, e temo che voglia sfiorarmi come quell’estate del diploma in cui mi baciò sul suo prato ricoperto di margherite.

 

«Ho un tappeto blu nel mio appartamento.»

 

Non sono in grado di calibrare la mia reazione, non so neanche focalizzare la sua espressione mentre parla, ma non riesce a smuovere nulla.

 

«Riesco ancora a farmi colare l’olio del pollo giù per il mento mentre lo mangio.»

 

Qualche lacrima combatte contro la mia forza di volontà e sembra strano che riesca a controllarmi. Dieci anni fa non sarebbe stato così.

Io e Kurt continuiamo a parlare per un’altra ora e mezza prima che entrambi dobbiamo andare. Mi chiede del mio russo, del mio francese, del mio italiano, della mia abitudine di andare al cinema. Gli chiedo se si ricorda di quella volta in cui ci siamo fatti la barba assieme e lui mi risponde di sì perché insomma, sono ricordi, e vanno conservati. Proprio come il mio fazzoletto.

 

Siamo cambiati. Sia io che Kurt, siamo cambiati. Non riesce più a farmi venire la pelle d’oca con uno sguardo, non riesce a farmi svolazzare le farfalle nello stomaco per uno sfioramento fortuito. Ma il mio cuore si scioglie diventando un barattolo di miele quando lo vedo ed ascolto la sua voce.

Sono ancora innamorato di Kurt e sono piuttosto sicuro che anche lui lo sia di me. Solo, in un forma diversa. Il luccichio nei suoi occhi è scomparso così come il mio vizio di portarmi la mano dietro la nuca. Siamo due persone diverse, e per tutto questo tempo sono stato innamorato dell’idea di amarlo. Perché essere innamorati e provare amore sono due cose diverse. L’innamoramento  passa, l’amore resta, resta sempre. Amerò Kurt fino al mio ultimo respiro e sarà l’ultima immagine che vedrò prima di spirare. Ma non è questo il giorno. Non è questo il tempo. L’innamoramento sta per salutarmi insieme alla sua figura che si dirige all’uscita. L’amore resterà come l’impronta dei baffi di latte che tutt’ora fanno capolino sulle sue labbra, ma che non ho il coraggio di asciugare. Ci sorridiamo e credo che anche lui abbia capito. È il primo ad alzarsi, prendendo il suo cappotto doppiopetto mentre io ho il solito piumino a tenermi caldo.

 

«Blaine?»

 

Ancora una domanda.

 

«Sì, Kurt?»

 

Credo di aver capito. L’ho sempre capito.

 

«Un ultimo regalo.»

 

Gli regalai un sorriso in grado di accecare il sole.
 



[1] [2] [3] :citazioni dal film Paris, Je t’aime che ho riveduto ed arrangiato per esigenze di trama. Ovvio che i protagonisti non si sono spostati da Brooklin al Lincoln Center, né tantomeno Kurt e Blaine potevano spostarsi per i distretti di Parigi.

***

Spazio dell'autrice: whoa. OS scritta su ispirazione di un post su tumblr in compagnia della dolcezza di lithi, parte integrante di tutta la storia. 
Colgo l'occasione per ringraziarla e mandarle un abbraccio stretto.

E  a  Teto, cui devo pagare lo psicologo per gli scompensi mentali che le ho causato.
 

Spero possiate aver gradito, un bacio, Anna.

  
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