Il
15
Marzo 1917, a causa del sempre più crescente malcontento
popolare, lo Zar di
Russia Nicola II fu costretto ad abdicare, favorendo così la
nascita di un
governo provvisorio.
Fra le prime
decisione del nuovo governo ci fu quella di imprigionare lo Zar e la
sua
famiglia. Nicola, sua moglie e i loro cinque figli vennero
così esiliati nella
reggia di Tobolsk. Per oltre un anno la loro condizione di prigionia
risultò
tuttavia mite o comunque sopportabile. Le cose cambiarono,
però, drasticamente
con la presa di potere di Lenin. Nella primavera del 1918, i Leninisti,
giudicata Tobolsk troppo esposta ad un colpo di mano delle forze
antisovietiche,
assegnarono una nuova residenza ai prigionieri: Ekaterinburg, sulle
falde
orientali degli Urali Metalliferi, quasi al confine tra la Russia
europea e la
Siberia,
La
famiglia imperiale venne rinchiusa in un modesto edificio requisito a
un
anonimo commerciante, un certo Ipatief, e fu lì che, a poco
a poco, il confino
imperiale assunse i tratti più cupi della prigionia, fino
alla notte fra il 16
e il 17 luglio 1918. Notte che segnò la tragica fine dei
Romanov.
L’eccidio
ancora oggi rimane avvolto nel mistero. Secondo la ricostruzione
storica più
aggredita, un manipolo di soldati, guidati dal generale Jurovskij,
svegliò i
prigionieri in piena notte e li costrinse a scendere in cantina e
lì, dopo aver
letto loro un sommario capo d’accusa, iniziò a
sparare.
Uno dopo
l’altro tutti i
componenti della
famiglia imperiale caddero a terrà ed infine i loro corpi
furono dati alle
fiamme. Ma quando i resti vennero ritrovati due corpi risultarono
mancanti:
quello del piccolo Alessio, figlio minore dell’imperatore e
di una delle
figlie, forse Anastasia.
È così
che la storia dei Romanov finisce ed inizia la leggenda.
ROSA NERA
Ekaterinburg,
30 Aprile
1918
Amore
mio,
infine il giorno è giunto.
Lenin stesso ha firmato l’ordine con cui la mia famiglia deve
essere traferita.
Di nuovo.
È la terza destinazione per noi e questa volta, lo sento,
non sarà come le
altre.
Io, Olga e Tatiana, insieme alla poca servitù a cui
è stato concesso di
restarci accanto, siamo giunte con il treno ad Ekaterinburg da Tobolsk
stamattina. C'era molta gente ad aspettarci. Contadini e operai delle
vicine
miniere. Ci odiano, forse ci vogliono morti. Come posso dar loro torto?
Non
siamo forse noi, ai loro occhi, la causa di tutto?
Il disgelo è iniziato e il fango ricopre tutto il terreno.
Ho visto il fango sui
miei vestiti per la prima volta ed ho paura.
Tu lo sapevi che sarebbe finita così? È da questo
che mi volevi salvare quando
quella notte mi proponesti di fuggire?
Solo adesso lo capisco davvero, adesso che ho paura riesco a capire
cosa i tuoi
occhi mi urlavano in quella notte d'inverno.
Ma non ho cambiato idea, sono una principessa imperiale. Una
granduchessa di
Russia ed il mio posto è con la mia famiglia dovunque essa
vada, incontro a
qualunque cosa il destino ci riservi.
Non chiedere una vita più facile, chiedi di essere
una persona più forte.
È questo che una volta lessi in un libro della biblioteca
imperiale. E questo
quello che devo fare ora.
Ti amo, amore mio. Ora e per sempre.
Tua Anastasia.
La
penna stilografica
perse un po’ d’inchiostro. Anastasia
guardò la piccola macchia nera e si morse
le labbra. Non era mai stata brava. Il suo precettore l’aveva
sgridata
innumerevoli volte, la sua calligrafia non si addiceva a quella di una
giovane
del suo rango, ma ormai non aveva più importanza. Quella
lettera non l’avrebbe
letta nessuno, nemmeno lui. Ripiegò il foglio in quattro e
lo nascose nel
corsetto all'altezza del cuore. Il posto più sicuro che
conoscesse, il posto
dove anche lui sarebbe rimasto.
Si alzò dalla piccola scrivania e raggiunse sua sorella
Maria, già sdraiata sul
pavimento. Non avevano letti a sufficienza per tutti nella Dom Ipativ.
Ai suoi
genitori e a suo fratello Alessio era stata assegnata l’unica
stanza non
occupata dalle guardie, ad Anastasia e alle sue tre sorelle era rimasto
solo il
pavimento.
“Hai scritto a lui?”
La voce di Maria giunse soffocata dalle coperte. Anastasia
sospirò e si sdraiò
vicino a lei, cercando riparo dal freddo contro il corpo della sorella
maggiore. Lo avrebbe voluto avere vicino…
“Sì.”
“Dovresti solo dimenticare, Malenkaya.”*
“Smettila di chiamarmi così, non sono
più una bambina.”
“Hai ragione, sei una donna e una principessa imperiale e
come tale devi
comportarti. Lui è andato via. Ha capito prima di noi, prima
di nostro padre,
quello che ci attendeva ed ha preferito tirarsene fuori.”
Anastasia chiuse gli occhi e non replicò. Cosa poteva dirle?
Solo lei conosceva
la verità su di lui, la verità su quel ragazzo
dagli occhi blu e l’accento
straniero che era entrato a corte spacciandosi per un nobile prussiano.
Maria
sapeva solo una parte della storia, quella che lei le aveva raccontato,
una
bugia ben ricamata come una tela.
La stessa che lui aveva provato a raccontare anche a lei. La stessa
tela che
lei, invece, aveva disfatto giorno dopo giorno, fino a giungere al suo
cuore.
Sentiva i passi delle guardie rimbombare per la casa. Prigioniera.
Adesso era solo
quello. Non una duchessa, non una figlia di Russia, non una Romanov,
era solo
prigioniera. E lui non c’era. Fuggito dalla rivoluzione, da
una Russia in
rovina, forse dall’Europa ma in fondo non poteva dargli
torto, quella non era
la sua guerra.
Lui aveva l’eternità e l’avrebbe
vissuta. Anastasia si chiese se l’avrebbe
pensata o se sarebbe divenuta solo un altro ricordo sbiadito nella sua
lunga
esistenza, come già altre prima di lei. La gelosia le
provocò una fitta alla
bocca dello stomaco, ma cercò di ignorarla, scivolando pian
piano nel sonno.
Ekaterinburg,
18 maggio
1918
Amore
mio,
sto già perdendo il conto di questi giorni di prigionia, se
non ci fossero
queste lettere probabilmente lascerei perdere. Lascerei che lo scorrere
del
tempo perdesse importanza e mi farei annientare da quello che mi
circonda. Ma
no, non succederà, io so chi sono e lo sai tu.
Una volta mi dicesti che ero io quella che avevi sempre cercato. Una
rosa
all’apparenza delicata, ma che protegge se stessa con spine
acuminate. Una rosa
nera. Come quella che avevi trovato durante un tuo viaggio nel 1300 e
di cui
avevi fatto conservare i petali con un incantesimo, una rosa unica e
speciale.
Ci ho ripensato oggi, al nostro primo bacio nel roseto del giardino
imperiale.
Ci ho ripensato mentre le guardie ridevano di noi. Dello Zar e della
sua
famiglia vestiti da contadini e costretti a coltivare la terra, loro
ridevano
ed io rivivevo tutto.
Ma se mi vedessi ora, amore mio, mi chiameresti ancora la tua rosa
nera? Senza
abiti di seta, con le mani piene di graffi, il volto arrossato dal
sole.
Saresti capace di amarmi anche adesso?
Probabilmente sì.
Ho imparato a conoscerti. L’ira ti coglie facilmente e ti
scagli contro i tuoi
fratelli, contro i tuoi servitori, ma non sei volubile.
Quel giorno mi punsi con una spina e tu succhiasti via il mio sangue
prima di
baciarmi.
Assaporai il mio sangue insieme a te ed iniziai a capire.
Non eri quello che facevi credere di essere, un uomo, un nobile, un
figlio
dell’impero.
Eri tutti ed eri nessuno. Eri la mia vita e la morte. Eri
l’amore puro e la
passione. Eri tutto e l’opposto di tutto. Eri il bene per me,
ma il male per
altri.
E noi non siamo forse lo stesso? Non abbiamo ricercato il bene del
popolo
portando infine miseria? Mio padre, lo Zar, è un padre buono
e un tiranno. Ma
tu me l’hai insegnato, amore mio, il bene senza male non
esiste e le sfumature
sono quelle che rendono la vita degna di essere vissuta o nel tuo caso
l’eternità.
E ora che sono prigioniera mi chiedo, ho fatto bene a rifiutare la tua
eternità?
Non so la risposta e forse non ha più importanza.
Ti amo, amore mio. Ora e per sempre .
Tua Anastasia.
Richiuse
la lettera e la
nascose insieme alle altre, cercò di sistemarsi la gonna di
lana grezza e si
incamminò lungo il corridoio. La casa non possedeva bagni,
bisognava uscire
fuori per usare una latrina comune e i soldati non aspettavano altro
che vedere
passare le gran duchesse di Russia in processione, silenziose ed
umiliate.
Anastasia alzò il mento e camminò con passo
sicuro davanti ai guardiani armati.
Le rivolgevano parole pesanti, insulti e insinuazioni riprovevoli, ma
lei
continuava a camminare.
Non l’avrebbero vista piangere, nessuno l’aveva mai
vista piangere tranne lui.
E lui sarebbe rimasto il solo. Come era stato il solo a baciarla, a
toccare il
suo corpo, a farla sentire donna e non più la piccola
Malenkaya.
Arrivò in cortile insieme alle sue sorelle e vide suo padre,
seguito a vista da
una guardia, riempire una cariola con la legna che aveva appena
spaccato. Suo
padre, lo Zar di Russia che spaccava la legna.
Lui glielo aveva detto che tutti i regni prima o poi finiscono, ne era
stato
testimone, glielo aveva detto mentre erano stesi in una stanza del
Palazzo
d'Inverno fra lenzuola di seta, glielo aveva detto mentre erano ancora
nudi e
le baciava i capelli. Le aveva detto che sarebbe arrivata la fine e che
lui
avrebbe potuto salvarla, le aveva offerto una via di fuga, ma lei, una
figlia
di Russia, non gli aveva creduto. L’aveva zittito con un
bacio e avevano
ripreso a fare l’amore.
Ekaterinburg,
20 giugno 1918
Amore
mio,
sono successe così tante cose in queste ultime settimane ed
io ho sempre più
paura.
Mio padre è fiducioso e mi è stato insegnato che
non devo mai dubitare di lui
ma come posso? Non sei tu che, invece, mi hai insegnato a guardare
oltre? A
leggere fra le righe? A capire le sfaccettature del male e come esso si
muove?
Ti ho visto farlo con le tue vittime. Ti ho visto mentre le seducevi,
le
soggiogavi al tuo volere e ti servivi di loro, ti ho visto uccidere
quella
notte e non ho avuto paura. Non ho avuto paura della tua vera natura ma
ho
paura adesso. Non avevo paura di te, un figlio della notte, ma ho paura
di
questa rivoluzione, di questa guerra di uomini.
Non ho avuto paura di te perché ti conoscevo, sei il male,
amore mio? Non l’ho
mai pensato e quante volte mi hai urlato contro, mi hai stretto le
braccia
troppo forte per farmi capire che tu eri quello e che io non potevo
cambiarti.
Ma io non ho mai voluto cambiarti, amore mio, non ho mai voluto altro
che te,
nel bene e nel male. Non ho mai voluto altro che le tue labbra sporche
di
sangue ed il tuo cuore ferito, non ho mai voluto altro che la tua
solitudine e
la tua rabbia. Non ho mai voluto altro che i segni delle tue dita sulla
mia
carne e nella mia anima. Non volevo il male, ma anche quello era parte
della
tua esistenza.
Sono stata una sciocca? Me lo ripetevi in continuazione, andavi via e
passavo
giorni senza tue notizie e poi tornavi, entravi nella mia stanza
soggiogando i
servi, ti inginocchiavi al mio letto e mi sussurravi che stavo
sbagliando, che
era tutta colpa mia, che ero solo una ragazzina che giocava a fare la
donna,
che non capivo niente della vita ma poi mi baciavi, mi abbracciavi
iniziando a
spogliarmi e cedevi. O forse ero io a farlo perché mi amavi
ed io amavo te. Io
e te, non un nome, non una convenzione sociale, uomo e donna. Io e te.
Non c’è male nell’amore.
Ma questo che mi circonda ora non è amore ed allora il male
lo vedo. Lo vedo
nel nuovo capo delle guardie. Lo vedo nelle nuove regole imposte alla
casa. Lo
vedo nelle lettere esterne che ci fanno ricevere. Vedo il loro specchio
per
allodole in cui mio padre è cascato. Lo vedo
perché tu mi hai insegnato a
vedere. Non sono più cieca da quando ti conosco, amore mio,
ma vorrei esserlo
ancora per annientare la paura, per illudermi che questi piccoli
miglioramenti
non ci conducano alla fine. Ci sto correndo verso quella fine, lo so,
ma non
posso evitarlo come non avrei mai potuto evitare di innamorarmi di te.
E allora
sono felice perché, se la fine ha sempre un inizio, tu sei
stato il mio.
Ti amo, amore mio. Ora e per sempre.
Tua Anastasia.
Un'altra
lettera che non
sarebbe mai riuscita a spedire, un altro pezzo di carta da nascondere.
Anastasia uscì dalla stanza, l’intera famiglia era
seduta al tavolo da pranzo.
Erano soli, stranamente, non succedeva quasi mai e suo padre stringeva
fra le
mani un foglio. Alzò il viso e lei incontrò i
suoi occhi. Suo padre le sorrise,
sapeva di essere sempre stata la sua preferita. Anastasia vide allora,
sul
volto di suo padre, Zar deposto di Russia, la speranza. Si
avvicinò e prese
posto accanto a lui.
“Possiamo farcela, Malenkaya. Ci vengono a liberare. Hanno un
piano.”
Il cuore di Anastasia tremò, la speranza era
l’ultima cosa che il male ti
faceva credere d’avere.
Ekaterinburg,
16 luglio
1918
Amore
mio,
oggi è stata una giornata strana o forse sono solo io che
sto diventando pazza.
Mi manchi così tanto, sono passati tre mesi, non siamo mai
stati lontani così a
lungo e sento che questa è la mia vera morte, questa
è la mia vera prigione,
lontana da te.
Mi manchi, mi manchi, mi manchi. E sono stanca di fingere che non sia
vero. Ho
diciassette anni, sono innamorata e mi manchi. Non sono una
principessa, non
sono una prigioniera, sono solo innamorata di te e mi manchi. E vorrei
dirlo a
Maria, a Olga e Tatiana. Vorrei dir loro che ho amato, che non sono una
bambina, che so cosa vuol dire addormentarsi stretta al corpo di un
uomo, che
so cosa vuol dire sentire le sue mani sopra di me, che so cosa vuol
dire
perdere il respiro per un bacio. Che so cosa vuol dire graffiare la tua
carne
sperando di lasciarti i segni sulla schiena. Che so cosa vuole dire la
gelosia
che non ti fa dormire la notte.
Dove sei, amore mio? Sono stata io a cacciarti e vorrei che non mi
avessi
ascoltata. Ho rifiutato il tuo sangue, la tua vita eterna e ti ho
guardato
allontanarti. Ti ho sentito baciarmi e affondare i canini nel mio
collo, ma il
tuo marchio è andato via troppo presto. Sono stata io a
mandarti via, a
rivestirmi e a mettere la parola fine ad una storia che mi avrebbe
distrutta.
Che sciocca sono stata, tu non mi avresti distrutta. Tu mi hai dato
tutto
quello che una donna poteva avere. Tu mi hai dato te stesso ed io ti ho
donato
altrettanto. Ma sono stata codarda, non ho avuto il coraggio di andare
fino in fondo
ed ora… mi manchi.
E qua e adesso sta succedendo quello che temevo: le guardie non ci
hanno
guardato in faccia per tutto il giorno, bisbigliano e si agitano al
nostro passaggio
ed il mio cuore lo sa. È arrivata la fine, amore mio.
Vorrei averti qua, vorrei perdermi dentro di te, fare l’amore
fino a quando fa
male ed annullare così la paura di tutto il resto, ma tu mi
hai ascoltato, sei
andato via e ora resto sola e… mi manchi.
Ti amo, amore mio. Ora e per sempre.
Tua Anastasia.
Anastasia
ricontò le lettere,
ne aveva scritte quarantaquattro. Tutte senza indirizzo ma solo un nome
sulla
busta bianca: Niklaus.
Nascose anche quella nel corpetto del vestito, al cui interno erano
già stati
cuciti i gioielli di famiglia e si distese per dormire. Verso
l’una di notte
venne svegliata dalle guardie, urlarono ordini e nel caos generale che
ne
seguii riuscì a capire solo che dovevano essere trasferiti
un'altra volta e che
avrebbero passato il resto della notte nel seminterrato.
Anastasia guardò le sorelle alzarsi e le segui. Aveva freddo
ma non disse
niente, non si lamentò come le era stato insegnato a fare.
Entrò per prima nel seminterrato e vide suo padre arrivare
con in braccio il
piccolo Alessio, il suo fragile e delicato fratellino. Lo amava
così tanto.
Poi arrivarono le guardie, ordinarono loro di sedersi ed Anastasia si
morse la
lingua per non urlare. Sentì il sangue nella sua bocca, si
ricordò di lui ed in
qualche maniera riuscì ad esserle di conforto.
La guardia davanti a tutte le altre estrasse un foglio ed
iniziò a leggere.
“Considerato il fatto che i vostri parenti continuano
l'offensiva contro la
Russia Sovietica, il Comitato Esecutivo degli Urali ha deciso di
giustiziarvi.”
Sua madre urlò nello stesso istante in cui le baionette
vennero estratte dai foderi.
Anastasia sentì i colpi, ne riuscì a contare sei
e poi cadde a terra.
Sentiva il sangue bagnarle i vestiti, sentì altre urla e
prima di chiudere gli
occhi lo vide. Il suo volto.
La porta del seminterrato venne scagliata via, colpì un
soldato e quello cadde
a terra.
Le altre guardie si girarono ed iniziarono a sparare ma i proiettili
non
avevano effetto su di lui. In meno di dieci minuti tutti i soldati
erano morti.
Anastasia sbattè le palpebre , il dolore era insopportabile
ma lui si
inginocchiò accanto a lei prendendole la testa.
“Sei viva”, continuava a ripeterlo mentre si
tagliava il polso e lo avvicinava
alla bocca di lei. “Bevi, amore mio, andrà tutto
bene.”
“Klaus.”
“Shhh. Non parlare, amore, andrà tutto
bene.”
“Ti… amo.”
“Bevi.”
Anastasia scosse la testa, i gioielli nel suo corpetto
l’avevano protetta da
alcuni colpi prolungando la sua agonia, ma ormai era troppo tardi. Il
cuore si
stava già fermando ed il sangue di Klaus non sarebbe mai
entrato in circolo in
tempo per salvarla.
Anastasia lo guardò e sorrise. “Chi è
davvero malvagio non si fa amare come hai
fatto tu.”
“Forse”, disse lui sfiorandole piano le labbra.
“Solo forse?”
“Con te ho scoperto che nella malvagità
più oscura ci può essere un bagliore di
luce. Tu l'hai visto. E con i tuoi occhi l'ho visto anch'io. Ti amo,
Anastasia.”
Non glielo aveva mai detto. Lo sapeva, ma sentirlo, vederlo mentre
pronunciava
quelle parole…non era mai accaduto. Chiuse gli occhi, la
morte non faceva
paura. Non più.
Quando Elajia e Rebekah lo raggiunsero lo aiutarono a ripulire, presero
il
corpo di Anastasia e lo bruciarono in una foresta a qualche chilometro
di
distanza.
Klaus disegnò una croce su di un tronco d’albero,
vi depose la rosa nera che
aveva conservato per secoli e pianse.
Era stata commessa una strage quella notte e Klaus aveva pianto per la
prima e
unica volta nella sua lunga esistenza.
2011
Di
Anastasia non gli
restarono altro che le lettere che lei gli aveva scritto ed una
manciata di
gioielli. E ora uno di quei gioielli era al polso di Caroline. Klaus la
guardava ballare, ed Elajia gli si avvicinò.
“Ero sicuro che la doppelganger non fosse l’unico
tuo motivo di interesse qui a
Mistic Falls.”
“Non capisco di cosa parli , fratello,” rispose
Klaus bevendo un sorso di vino.
“Non è ovvio, della piccola Zarina di Russia. Il
tuo vero amore.” Anche Rebekah
si era avvicinata ed ora guardava Caroline con un sorriso ironico.
“C’è da
lavorare sul portamento, ma per il resto può
andare”, disse ancora prima di
allontanarsi.
Elajia strinse una mano sulla spalla del fratello. “Vorrei
solo che ricordassi
che non è lei.”
“Non serve che me lo ricordi, fratello. Nessuna
sarà mai come lei.”
*In
russo vuol dire la più
piccola. Essendo Anastasia la minore delle figlie dello Zar era questo
il suo soprannome.
Angolino autrice.
Questa
storia è stata
scritta per il contest The
Original's Family Contest (The Vampire Diaries) piazzandosi
seconda e
vincendo inoltre il premio idea.
È una storia diversa da quelle che sono abituata a scrivere,
è una storia che
ha rappresentato una bella sfida ma della quale sono particolarmente
orgogliosa.
Klaus e la sua lunga vita, Klaus deve aver avuto, nei corsi dei secoli,
qualche
grande amore che l’ha segnato. Questo è quello che
ho immaginato.
Grazie mille a Ania per il banner.
E ancora grazie alla giudica per il bellissimo giudizio.
Alla prossima storia
Con affetto
Noemi