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Autore: Breatheunderwater    15/01/2013    2 recensioni
Il padre l'aveva avvertito, l'aveva messo in guardia.
Gerard spaventato e traumatizzato avevo seguito le preghiere urlate del padre ma.. inevitabilmente, la strada del proprio destino è da percorrere.
[Ispirata a una leggenda giapponese, all'interno trovate il link]
Genere: Horror, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà solo di loro stessi; questa storia è stata scritta senza alcun scopo di lucro.


Note (IMPORTANTE):

Salve!
Eccomi con una piccola OS!
Prima di tutto devo dirvi che è ispirata questa leggenda giapponese:

http://www.ilbazardimari.net/leggende-orientali-mujina/
Vi lascio il link così potete leggerla.. secondo me però è meglio se leggete prima la mai OS così non vi spoilerate il finale! (Ma va? LoL)
Ovviamente c'è molto e c'è poco di mio..
Ho voluto scriverla perché la leggenda mi piace molto e, al tempo in cui la lessi la prima volta, mi aveva colpita e turbata in particolar modo. Poi, un giorno, non so bene perché, mi è venuta la brillante (si fa per dire) idea di sbatterci dentro Gerard!
Spero apprezziate e chi vi angosciate un poco xD e niente..

Buona Lettura!




Erano già le nove di sera e il buio pesto era attenuato solo dalle luci artificiali dei lampioni: riflettevano il giallo spento sulle strade dando un po' di visibilità e poca sicurezza.
Gerard Arthur Way a quell'ora era ancora in ufficio.
Il lavoro l'aveva trattenuto più del solito e aveva dovuto disobbedire, inconsapevolmente, all'ordine che gli era stato imposto tanto tempo fa dal padre: “non camminare per le strade quando le undici sono ormai passate”.
Era stato un avvertimento dato senza alcun fondamento, questo era il pensiero di Gerard ma, al tempo, era solo un bambino e l'impeto con cui il padre gli aveva stretto le mani tra le sue ossute e senza forza, il terrore dipinto sul volto e la voce alta, l'avevano spaventato. Forse sarebbe meglio dire che l'avevano traumatizzato.
Infatti da quel giorno, il 30 Ottobre del 1991, Gerard non aveva mai fatto tardi, non aveva mai infranto l'intimidazione del padre.
Preferiva non uscire piuttosto che subirsi l'ansia che lo assaliva e lo sguardo feroce del padre che lo giudicava.
Poi otto anni trascorsero senza che nessuno ci facesse troppo caso. Il padre era sempre stato malaticcio e smilzo e, la sua malattia che non faceva da orologio, non mostrava agli altri che il tempo stava facendo il suo corso e il malessere stava vincendo quella maratona.
“Non te lo dimenticare..” – furono le ultime parole del padre sul letto d'ospedale, era il 7 Luglio del 1999.
E Gerard non l'aveva mia dimenticato, ci pensava sempre: ogni mattina quando ringraziava l'esistenza della luce e ogni sera quando il suo orario di lavoro si concludeva alle quattro di pomeriggio.
Qualcuno l'aveva preso per pazzo, altri per un disadattato.. altri non lo prendevano, se ne fregavano.
A lui non importava, aveva la sua piccola cerchia di amici e a lui bastava così. Era felice nella sua piccola bolla di vita.
Però non tutto fila liscio, c'è sempre qualcosa, qualche fattore che ti fa deviare verso la strada che è a te predestinata. Non puoi sfuggirgli.
Il caso di Gerard ne è una prova, ha tentato di racchiudere la sua vita in una sub-unità e di seguirla fino alla fine ma, ahimè, ci si distrae spesso. È nella natura umano e non c'è eccezione neanche per il povero Gerard.
Il suo destino era giunto, il suo destino doveva compiersi.

Aveva le cuffie alle orecchie, sparavano punk anni '70, canticchiava qualche canzone, teneva il tempo con la mano libera dalla penna e corrugava la fronte concentrato.
La luce dello studio era talmente forte che neanche quella lo riscosse e gli fece capire che fuori era buio. I colleghi se ne erano già andati, l'aveva salutato ma lui non li aveva sentiti e, loro, conoscendolo avevano deciso, proprio quel giorno, di non disturbarlo. Avevano avvertito la guardia che, a tempo debito, l'avrebbe sbattuto fuori.
“Gerard! È tardi” – gli disse la guardia avvicinandosi ma non ricevendo risposta. Quando fu abbastanza vicino gli sfilò una cuffia e lo osservò alzare il volto e sorridergli.
“È tardi” – ripeté la guardia, Gerard lo guardò confuso non capendo cosa la guardia volesse dirgli.
“Come?” – chiese allora spegnendo l'mp3.
“Sono le undici e mezza, è tardi. Torna a casa,ti conviene chiamare un taxi che fuori non c'è anima viva” – Gerard sbiancò.
Rimase immobile sulla sedia, la penna in bilico tra due dita, lo sguardo vuoto e la musica in un solo orecchio.
“Ehi, tutto bene?” – cercò di chiamarlo ma il ragazzo non rispondeva, gli agitò una mano davanti alla faccia ma non ebbe alcune reazione; infine gli poggiò un mano sulla spalla e lo vide sobbalzare impaurito.
Gli occhio tornarono a brillare e le mani iniziarono a tremare.
“No, la prego.. mi lasci dormire qua” – chiese, pregò Gerard al custode. Quest'ultimo inarcò un sopracciglio e lo fissò qualche istante per cercare di capire se stesse scherzando o fosse realmente serio.
Gerard però non scherzava, era fin troppo serio e, l'ansia iniziava a salire dalla bocca dello stomaco sino alla gola, iniziando ad ostruirla.
Fissò il custode con sguardo speranzoso e disperato, nel vano tentativo di persuaderlo dal suo obbligo. In fondo, cosa avrebbe fatto di male se avesse dormito lì?
“Gerard, è tardi e devo chiudere” – rispose questo senza alcuna preoccupazione se non quella della sua stessa incolumità; vista la reazione e le pupille dilatate credeva che si fosse ingerito chissà quale droga e chissà quale reazione poteva scaturire in lui.
Tutti sapevano delle stranezze di Gerard e del suo voler rimanere in solitudine, di non voler essere toccato; tutte cose che, sicuramente, avevano segnato la sua persona e che, tutti gli estranei, facevano bene a tenere alla larga.
Chi voleva stare in compagnia di uno schizzato che ha il terrore di uscire di notte?
“V-va bene..” – riuscì a dire Gerard dopo essersi ripreso e aver abbassato lo sguardo sulle sue ginocchia, ora strette dalle sue grandi mani.
“Mh” – mugugnò il custode aspettando che si alzasse e se andasse.
“Un attimo, sistemo la borsa ed esco” – rispose a quella domanda non esplicitata, sembrava più rilassato e il suo tono pareva essere tornato sicuro come suo solito.
Le maschere erano un gioco da ragazzi per uno come Gerard, uno costretto, fin da piccolo, a difendersi, nascondersi e fingere per vivere all'interno di una società malata come quella odierna.
Con sguardo perso raccolse le sue cose e le gettò, senza curarsi dell'ordine, dentro la sua tracolla; si alzò, infilò il cappotto con movimenti meccanici e si sentì quasi pronto.
“Sicuro?” – chiese il custode.
“Eh?” – fu la risposta di rimando di Gerard non avendo, evidentemente, ascoltato neanche una parola di quel signore.
“Ti ho chiesto se vuoi che ti chiami un taxi” – ripeté stranito e iniziando, seriamente, a spaventarsi.
“Ah, no grazie. Vado, buon lavoro” – rispose sbrigativo il ragazzo, superò il custode, uscì dalla stanza e, finalmente, si rese effettivamente conto dell'oscurità della notte.
Le scale erano a mala pena illuminate da delle lampade al neon, alcune lampeggiavano fastidiosamente, altre erano rotte chissà da quanto tempo ormai.
Iniziò a scendere le scale piano, pensando a come affrontare l'esterno. Afferrò il cellulare e notò che la linea scarseggiava e che la batteria era praticamente a terra, si affrettò nel cercare il numero della agenzia dei taxi e premette il tasto verde per far partire la chiamata.
“Pronto?” – rispose una voce femminile dopo il primo squillo.
“Si, salve vorrei un taxi al-” – un rumore fastidioso, proveniente dal microfono, costrinse Gerard ad allontanare il telefono dall'orecchio e ad osservare lo schermo nero e scheggiato.
Rabbrividì pensando che era tutto un complotto e che, forse, il suo destino stava per compiersi, come una volta aveva letto in un libro: “al destino non si sfugge”.
Premette violentemente e ripetutamente il tasto di accensione ma il cellulare non dava alcun segno di vita, alla fine, arreso, sbuffò frustrato e lo gettò nella borsa.
Riprese a scendere le scale ancora più disperato di prima, non sapeva cosa fare; il telefono era fuori uso e nessuno l'avrebbe potuto aiutare.
Pensò che sarebbe potuto tornare indietro, dalla guardia, e spiegargli dell'incidente col cellulare e chiedere di usare il telefono dell'ufficio.
Sorrise pensando a quanto potesse essere geniale la sua trovata, si voltò di scatto, pronto a risalire le scale ma, quello che si trovò davanti, non fece che annullare quel principio di felicità dal suo volto.
Il buio più totale si espandeva a due centimetri dai suoi piedi, rimase immobile a fissare davanti a sé il nulla. Gli occhi spalancati, come quando cerchi di muoverti nel buio, il corpo rigido e il fiato sospeso.
Immobile, paralizzato non riusciva a prendere una decisione sul da farsi. La lampada al neon sopra la sua testa lampeggiava ad intervalli sempre più frequenti e la luce iniziava ad affievolirsi e, Gerard, non poteva non domandarsi cosa sarebbe successo da lì a poco, quando il buio avrebbe raggiunto anche il suo corpo.
Percepiva qualcosa, di fronte a sé c'era qualcuno che lo fissava, proprio come lui stava fissando l'oscurità.
Alzò lentamente un braccio senza neanche rendersene conto, l'indice disteso sfiorò l'oscurità e mille brividi percorsero il corpo di Gerard.
Sudava freddo e si malediceva per non riuscire a non muovere un solo muscolo con la sua volontà. La bocca asciutta, ingoiò a vuoto e sbatté un paio di volte le palpebre poi qualcosa lo risvegliò dallo stato catatonico in cui era caduto.
Un leggero soffio gli mosse i ciuffi neri che gli erano caduti sul viso, sbatte le palpebre non capendo da dove o da chi provenisse.
Pochi secondi dopo un altro soffio gli colpì il viso, questa volta con più forza tanto da spaventarlo così tanto da riprendere coscienza del proprio corpo.
Quasi gli si drizzarono i capelli, si girò si scatto e corse via non rendendosi conto della mano nera che usciva dall'oscurità e cercava di raggiungerlo.
Corse veloce, saltò tre o quattro scalini alla volta fino ad arrivare al parcheggio.
Corse per tutto quello spazio ormai deserto, non si girò mai, neanche quando dei passi bagnati rimbombavano nell'edificio vuoto e una voce soave lo chiamava.
In prossimità del cancello lanciò la borsa dall'altra parte e fece un salto aggrappandosi alla ringhiera, si sollevò e scavalcò. Non aveva il tempo e la pazienza di aprirlo e di richiuderlo, il suo istinto di sopravvivenza gli diceva che non avrebbe fatto in tempo.
Solo quando fu fuori, in strada, si voltò per osservare il parcheggio dall'esterno e lo trovò vuoto.
Nessuno a chiamarlo, nessuno a inseguirlo, nessuna sensazione strana. Ora rimaneva solo il battito particolarmente accelerato del suo cuore, il sudore freddo e una paura fottuta di non farcela.
Si calò il cappuccio della felpa in testa, si strinse nel cappotto e avvolse in un disperato abbraccio la tracolla; iniziò a incamminarsi verso casa e passo spedito, frugò nelle tasche e controllò il cellulare che trovò rotto. Provò disperatamente a riaccenderlo ma non dava alcun segno di vita, in un picco di frustrazione lo scaraventò al suolo; non si fermò, continuò dritto verso l'unica meta possibile: casa.
Dopo essersi guardato attorno e constatato che le strade erano completamente deserte e che la notte sembrava più cupa del solito, abbassò la testa e continuò a camminare osservandosi i piedi.
Venti minuti circa e sarebbe arrivato a casa, continuava a ripetersi come un mantra.
Mentre passava vicino al parco pubblico un rumore, come quello di un ramo spezzato, attirò la sua attenzione; alzò la testa di scatto e la volse verso l'entrata del parco, un leggero vento si alzò smuovendo le foglie da terra e, in lontananza, iniziavano a sentirsi dei versi.
Non capiva cosa fossero, sembravano quelli di una donna: cosa faceva una donna a quell'ora della notte in un parco? Si chiese Gerard che, preso da fin troppa premura, si avvicinò all'entrata; il cancello era aperto e non si preoccupò di domandarsi del perché.
Entrò cauto e camminò lungo il sentiero tracciato, man mano che si addentrava quei versi divenivano sempre più chiari e forti: singhiozzi. Un pianto forte e disperato di una donna, pensava.
Accelerò il passo pensando che qualcuno stesse male e avesse bisogno del suo aiuto; improvvisamente il sentiero svoltava a destra e le luci si facevano sempre più fioche, si ritrovò in mezzo a dell'erba che superava la sua figura di qualche centimetro.
Era sul punto di prendere i piedi e fare marcia indietro quando, di colpo, di nuovo, il pianto di una donna catturò la sua attenzione. Scostò l'erba e quello che vide davanti a sé gli strinse il cuore e lo stupì: il pianto era di un ragazzo.
Era vestito con abiti leggeri, estivi che gli lasciavano scoperte le braccia tatuate, il viso coperto dalle proprie mani, i capelli neri e leggermente lunghi che ricadevano davanti e il corpo scosso dai singhiozzi.
Stava seduto su una pietra ai piedi di un laghetto, l'acqua era limpida e rifletteva i raggi della luna che filtravano dai pochi e radi alberi.
Gerard, preoccupato, si avvicinò cauto e, a pochi passi da quella figura, parlò.
“Ehi, tutto ok?” – provò a chiedere ma non ricevette alcuna risposta.
Si avvicinò fino ad essere ai piedi della pietra nella quale il ragazzo era seduto.
“Ehi.. tranquillo, se mi dici cosa ti è successo posso aiutarti.. non ti farò del male, puoi fidarti” – disse cercando di scorgere il suo volto attraverso i capelli e le mani ma, non vi riuscì.
Era preoccupato e provava un senso di protezione nei confronti di quel ragazzo così minuto e indifeso.
Una leggera folata di vento gli fece ricordare che erano in pieno autunno e il freddo si faceva sentire, senza pensarci troppo si sfilo il cappotto e lo adagiò sulle spalle del ragazzo che, per pochi secondi, smise di singhiozzare.
“Allora? Ti prego, dimmi cosa è successo.. ti aiuterò, fidati di me” – continuò la sua supplica quasi disperata ma ancora non ottenne alcuna risposta.
“Ti prego, ascoltami” – disse disperato mentre azzardava e poggiava una mano sulla spalla del ragazzo.
Il ragazzo smise di piangere, sollevò il viso e fece scivolare le mani lungo i fianchi.
Gerard, a quella visione, trattenne il respiro e una sensazione di terrore lo invase. Non era come la precedente, come quando si sentiva seguito nel parcheggio, era peggio; sentiva che nulla era più in suo potere, che la sua vita era finita e che, la visione davanti ai suoi occhi, non era altro se non il presagio della morte.
Stava sudando freddo, tremava per la paura mentre non riusciva a staccare gli occhi da quel viso senza occhi, naso, labbra, orecchie, niente di niente.
Si riscosse quando le mani, bianche come il marmo, del ragazzo si tesero al suo volto e, allora, in uno scatto di adrenalina, si alzò e corse via da quel parco, via dalla morte.
Uscì dal parco e tutti i lampioni erano spenti, la città era caduta nel buio più totale; continuò a correre non preoccupandosi di cosa ci fosse davanti, doveva correre, doveva fuggire.
Con i denti stretti, le mani chiuse a pugno e un dolore al petto, Gerard continuava ad andare dritto senza mai osare voltarsi.
Ad un certo punto, superata una strada in pendenza, scorse una luce fioca in fondo alla strada; decise di prenderla come punto di riferimento, l'unico.
Corse sempre più veloce, con sempre più sforzo finché quella luce non prese forma e senso: era l'insegna di un negozio di giocatoli.
La porta era aperta, il suono del campanellino gli rimbombo nella testa e si getto, di peso, su una sedia posta di fronte al bancone.
“Ehi amico, tutto bene?” – la voce squillante di un ragazzo gli fece sollevare la testa. Era basso e magro, capelli di media lunghezza, occhi in un misto tra verde ed ambra, e un sorriso che avrebbe potuto illuminare l'intera città caduta in quel malsano buio.
“Io.. p-parco.. stavo.. a-iuto..” – provò a spiegare Gerard ma l'affanno e la sensazione di terrore che ancora lo avvolgevano non gli permettevano di esprimersi.
“Tranquillo amico, io sono Frank! Ora ti porto un bicchiere d'acqua” – disse il ragazzo mostrandogli un sorriso rassicurante. Gerard si lasciò cullare da quella nuova aria di serenità e rispose con un semplice cenno del capo.
L'acqua arrivò poco dopo, fresca e dissetante; beveva a piccoli sorsi in silenzio e, ogni tanto, lanciava qualche occhiata a quel viso fin troppo delicato per un ragazzo, e attraente.
“Allora.. mi vuoi dire cosa ti è successo?” – chiese Frank mentre si alzava le maniche del golfo e lasciava scoperte le braccia ricche di tatuaggi.
Gerard stava a testa bassa, gli occhi puntati sul bicchiere di vetro ormai vuoto e la paura ancora presente.
“È stato terribile, ero terrorizzato!” – iniziò a dire.
“E da cosa?” – domandò Frank con un tono preoccupato.
“Non so se posso dirlo..” – sussurrò Gerard.
“Mi dispiace..” – soffiò Frank e, Gerard, non capì a cosa si stesse riferendo, se alla sua sconosciuta vicenda oppure a chissà che cosa.
Sospirò e sollevò il viso per incontrare quello di Frank con un aria dispiaciuta; intravvide i tatuaggi ma non ci fece caso. Sorrise e cerco di rassicurarlo poggiando una mano sulla sua.
“Sai, mi piaci!” – esclamò d'un tratto Frank tornando sorridente come pochi minuti prima, Gerard sorrise di rimando, più rilassato e a suo agio.
“E credo di sapere cosa hai visto!” – continuò sempre più entusiasta.
“Ah si?” – domandò Gerard quasi divertito.
“Si!” – rispose Frank mentre sollevava entrambe le mani al volto, le sfregò su questo e poi urlò: “QUESTO”.



Fine.

  
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