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Autore: Agapanto Blu    15/01/2013    4 recensioni
Jacy è una ragazza come poche.
Acida, sarcastica, cinica fino al midollo, disillusa, privata da un incidente di parti del suo corpo che prima dava per scontate: le mani.
Incastrata in una vita che la sta soffocando, cerca solo un appiglio cui aggrapparsi senza dita per riprendere il controllo della sua vita, ora affidata quasi completamente alla madre e al fratello.
Un ragazzo, bello come un Angelo e crudele come il Diavolo nelle apparenze, destabilizzerà completamente il suo precario equilibrio.
A volte, cadere può servire a rialzarsi definitivamente...
***
Bianco.
Bianco, bianco, bianco.
Sopra, sotto, ovunque.
Tanto bianco. Troppo.
Una voce, spaventata, che mi chiama.
Il dolore, acuto e bruciante.
Infine il nero, che inghiotte tutto nella sua gelida voragine.

***
"Seconda Classificata Parimerito" al Contest: RED
La storia è in realtà composta da cinque capitoli, tutti in una pagina sola.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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RED
15. Bianco: “Everything will be alright if you keep me next to you 
You don't know about me but I bet you want to”
“Tutto andrà bene se mi tieni accanto a te. Non sai nulla di me, ma scommetto che vuoi saperlo.”




 
 
IL MIO ANGELO DELL'APOCALISSE
Capitolo I

 
Bianco.
Bianco, bianco, bianco.
Sopra, sotto, ovunque.
Tanto bianco. Troppo.
Una voce, spaventata, che mi chiama.
Il dolore, acuto e bruciante.
Infine il nero, che inghiotte tutto nella sua gelida voragine.
 
Sobbalzo e spalanco gli occhi, terrorizzata. Davanti alla mia mente sconvolta si para l’immagine del soffitto celeste di camera mia, appena illuminato dalla luce dell’alba. Le mani mi fanno male da impazzire, bruciano come se fossero state immerse nella lava bollente. Chiudo gli occhi e piango, senza muovermi di un millimetro dalla mia posizione supina nel letto.
Perché questo dolore non può trovare una guarigione.
Perché è frutto della mia mente.
Perché non c’è niente, lì, che possa farmi male.
Dopo parecchi minuti, prendo un respiro profondo e, facendo forza sugli addominali, mi tiro a sedere lasciando che le lenzuola mi scivolino mollemente dal petto in grembo. Osservo la matassa azzurro chiaro che si trova sulle mie cosce e copre i miei polsi e desidero di poter restare così per sempre.
Il trillo insistente della mia sveglia, però, manda in pezzi i miei sogni ad occhi aperti, costringendomi ad alzarmi in piedi con un sospiro.
Con gli avambracci, sposto le coperte abbastanza da gettare le gambe giù dal letto. A questo punto, è impossibile continuare a negare l’evidenza così sollevo i polsi e li osservo attentamente.
Non ho mani, due moncherini lucidi le sostituiscono.
Una lacrima solca la mia guancia, ma la asciugo con rabbia usando una delle appendici e poi spengo la sveglia per alzarmi in piedi, diretta al bagno.
Nessuna porta, in questa casa, è mai chiusa così posso entrare ovunque senza dover stare a faticare in dolorose operazioni.
I miei moncherini infatti fanno male in due momenti: al mattino, quando il mio corpo si rende conto che qualcosa non va nel verso giusto dal polso in poi, e ogni volta che ci faccio forza sopra, perciò devo stare attenta.
Faccio la doccia alla sera, con l’aiuto di mamma perché non riesco a prendere il bagnoschiuma, e al mattino mi limito a vestirmi mentre aspetto che Jonathan, il mio fratellone, mi raggiunga per aiutarmi a lavare i denti.
Non abbiamo soldi per delle protesi, quegli affari costano un occhio della testa.
Infilo la maglia rossa con fatica e allo stesso modo riesco a calzare i jeans poi aspetto, rinunciando in partenza all’idea di provare a tirare la zip o chiudere il bottone da sola. Aspettando Jonathan, che si lava nel secondo bagno –quello di servizio, tanto per farmi sentire ancora più in colpa per come la mia sola presenza sconvolga la mia famiglia–, mi guardo allo specchio.
Non sono una brutta ragazza: ho capelli rossi e indecisi tra il liscio e il riccio che mi cadono ondulati sulle spalle e fino a metà schiena, occhi di uno strano castano misto a rame, un naso piccolo e leggermente all’insù in mezzo ad un viso ovale dall’incarnato chiaro il cui unico tocco di colore sono le labbra perennemente rosse. Mi piacciono solo quelle di me, trovo molto bello l’Arco di Cupido dalla linea definita ma sottile, quasi geometrica, e la carnosità non eccessiva. Peccato solo per l’arsura di questi ultimi giorni. Ho diciannove anni, sto per uscire dal liceo, ma il mio futuro mi appare sempre più incerto ad ogni passo che faccio verso di esso.
Alzo gli occhi verso il riflesso della porta cogliendovi un movimento e un piccolo sorriso mi increspa le labbra nel trovarvi Jonathan, appoggiato contro uno stipite e intento ad osservarmi.
Sorride, malizioso.
“Che vuoi fare, Jacy?” mi chiede storpiando affettuosamente il mio nome –Jace–, “Quella maglia ti fa il seno più grande di almeno una taglia!”
Lo guardo, sgomenta. Per dire una cosa del genere, dovrebbe aver controllato bene la mia taglia ma non può averlo fatto, no?! In fondo, è… Cavolo, è Jonathan! Può averlo fatto eccome!
“Pervertito!” esclamo alla fine, l’unica cosa che il mio cervello è in grado di elaborare.
Il mio caro fratello, un armadio provvisto di gambe e con capelli e occhi uguali ai miei, entra in bagno con il sorriso che si smalizia sempre più a mano a mano che la tenerezza entra nel suo sguardo. Arriva da me e mi accarezza il capo senza osarsi ad abbracciarmi, sapendo che ho difficoltà a tollerare il contatto fisico da quando ho perso le mani.
“Qualcuno ha fatto un brutto sogno…” mi sussurra, addolcito.
Arrossisco: mannaggia a lui che mi conosce!
Jonathan ha tre anni in più di me, è praticamente a metà dal college, ma invece di stare al campus si fa ogni mattina un’ora di treno per andare a scuola e ogni sera un’altra per tornare a casa pur di non lasciarmi: ai miei occhi, lo ammetto, è quasi il mio salvatore. Nonché l’ultimo uomo rimasto nella mia vita da quando nostro padre è morto sette mesi fa, nell’incidente che mi ha portato via le mani. Jonathan e nostra madre, Lydia, non erano con noi e non avevano subìto conseguenze, per fortuna, ma anche la loro vita era stata stravolta irrimediabilmente.
Mi riscuoto nel sentire mio fratello sollevarmi la zip dei jeans e chiudermi con gentilezza il bottone, evitando accuratamente di sfiorare la mia pelle o la biancheria intima che indosso.
“Adesso basta brutti pensieri, va bene Jacy? Solo belli!” mi ordina, sorridendo, prima di prepararmi lo spazzolino, “E adesso mostrami le zanne, noiosaura!”
Obbedisco ma mi tolgo lo sfizio di tirargli un ‘pugno’ nello stomaco. Forte.
 
***
 
Scendo dall’auto quando mia madre mi apre la portiera –perché ovviamente non mi è permesso provare a fare neanche quello– e mi lascio aiutare, con espressione vacua, ad infilare le bretelle dello zaino.
È da mia madre che abbiamo preso occhi e capelli, io e Jonathan, ma lei è molto bassa a differenza nostra ed è decisamente meno forte di papà. Jonathan ha preso da lui il coraggio per affrontare le difficoltà e, da quando nostro padre è morto, mio fratello è una ventata d’anima per la famiglia. Sole, io e mamma non avremmo mai avuto la forza di andare avanti e anche dopo tanto tempo lei non sembra molto allegra.
Mi sforzo di ricordare, mentre la osservo allontanarsi lungo la strada, ma non riesco a riportare alla mente una volta in cui lei abbia sorriso per davvero dalla morte di papà.
Con un sospiro, mi volto ed entro in scuola. Ci siamo trasferiti dopo l’incidente e io mi sono ritrovata a dovermi ambientare in una nuova città/scuola/vita con due moncherini al posto delle mani.
In sostanza, non è andata granché bene, tanto per usare un eufemismo.
Tengo le braccia lungo i fianchi tentando di usare le maniche per coprire il più possibile i moncherini ma sono comunque sotto gli occhi di tutti.
Sospiro e mi affretto ad entrare nell’edificio. A questo punto, mi avvio per il corridoio rosa –qui i corridoi hanno i nomi dei colori, cosa che mi fa pensare sempre all’ospedale!– per raggiungere l’aula 39, quella dove si terrà la mia prima lezione del giorno: musica.
Sì, lo so, sembra una battuta sarcastica di pessimo gusto. Perché devo farla se tanto non posso suonare nulla?! Non posso semplicemente saltarla?!
“Ma è per farti sentire come gli altri.” dice mia madre.
Sì, certo! Come gli altri fenomeni da baraccone, al massimo, ma visto che non ce ne sono…!, penso, arrabbiata con lei che sembra non riuscire a capire e a reagire, mentre cammino a testa bassa sufficientemente vicina al muro. ‘Sufficientemente’ ovvero: abbastanza da non farmi notare, non troppo da dar fastidio ai ragazzi che armeggiano con gli armadietti.
Sto ancora pensando al comportamento di mia madre, sempre immersa in un passato che non può tornare e determinata a passare ogni suo minuto a prendersi cura della figlia disabile per non dover pensare al marito che ha perso, quando sento qualcosa bloccarmi la caviglia.
Sento l’equilibrio andare a farsi benedire e in un secondo sto cadendo a terra di faccia.
Istintivamente allungo le braccia per cercare di attutire la caduta ma non ho mani per reggermi e riesco appena a stringere i denti, preparata all’impatto, prima che avvenga la ‘collisione’.
Dolore. Dio, che dolore.
I moncherini sbattono con forza contro il pavimento freddo e scosse incandescenti mi corrono fino al centro del cervello con violenza inaudita, se non altro stordendomi a sufficienza da non farmi sentire appieno il dolore della parte destra del mio viso che fa la stessa misera fine. I polmoni si schiacciano per terra ed espiro di colpo lasciandomi sfuggire un gemito.
Sono confusa. Che è successo?
Vedo tanti piedi, alcuni rallentano o si fermano a guardare ma la maggior parte non fa nemmeno quello e continua la sua vita senza degnarmi di un’occhiata. Nessuno, comunque, si avvicina ad aiutarmi.
A fatica riesco a sollevarmi sugli avambracci e scuoto la testa per riprendermi dall’intontimento.
In questo momento sento dei colpetti alla caviglia che mi ha tradita e giro il busto e la testa per capire cosa stia succedendo.
Un biondino della mia età, con i capelli corti e gli occhi verdi, mi fissa dall’alto in basso con un sopracciglio aggrottato e le labbra strette in una linea di disappunto.
 
 
 
 
 

IL MIO ANGELO DELL'APOCALISSE
Capitolo II

 
Un angelo?! E che ci fa qui?!
“Ehi.” mi dice, sempre gelido, quasi annoiato, “Sta’ attenta la prossima volta: hai rischiato di farmi male al piede.”
Ah beh, se non altro si sta…No, aspetta: ha detto ‘farmi male’?! Rettifico: è un angelo, sì, ma dell’Apocalisse! A fatica, tiro le ginocchia al petto e mi rannicchio mentre la mia testa continua a pensare: mi ha fatto lo sgambetto, lo ha fatto apposta… Riesco a tirarmi in piedi sacrificando per un attimo la regola del ‘non reggerti sui moncherini!’ poi mi chino, riesco a infilarmi di nuovo le bretelle dello zaino e mi giro verso il tipo.
Adesso che sono lucida, noto che alle sue spalle stanno una mezza dozzina di ragazzi tra cui Heath Race, il capitano della squadra di football nonché rinomato spezza-cuori e incubo di sfigati e secchioni: se non sei della sua cerchia, faresti meglio a girargli alla larga, a meno che tu non sia in cerca di guai. Guai grossi come i suoi pugni.
Riporto l’attenzione sul ragazzo e noto che ha uno sguardo…strano. Anche se, a dire il vero, l’aria di superiorità è ancora lì attorno a lui. Cavolo, se non mi avesse appena fatto lo sgambetto e accusata di avergli quasi fatto male al piede, penserei che sia vuoto...e che vorrebbe qualsiasi cosa tranne essere qui. Stupidaggini di una ragazza confusa, eh?
“Perché?” gli chiedo, “Cosa ti ho fatto?”
Lui scrolla le spalle, ma gli occhi non cambiano né brillano.
“Mi andava.” replica, apatico.
“Allora sei uno stronzo, lo sai?” ribatto io a mia volta ma restando calma.
Non farti mettere i piedi in testa da nessuno, Jace. Tu sei tosta, cocciuta e determinata. Com’è che dite voi giovani? ‘Sei una ragazza con le palle!’ anche se spero che non sia vero!: papà mi diceva sempre così e poi scoppiavamo a ridere. A volte interveniva Jonathan e aggiungeva che al massimo quello con gli attributi era lui. Da quando papà è morto, mio fratello continua a ripetermi la prima frase, in ogni momento. Non mi permette mai di dimenticarla.
E io non voglio farlo.
Il biondino sgrana gli occhi, questa volta davvero sorpreso. Evviva, l’ho smosso! Ora sì che posso continuare la giornata felice!
Il mio avversario però torna presto annoiato e mi guarda con sufficienza.
“E che vorresti farmi?” mi chiede, senza intonazioni, “Vuoi tirarmi uno schiaffo?”
Ca…o! Lui ha appena tirato uno schiaffo a me, maledizione!
Sento gli occhi bruciare per le lacrime ma mi mordo la lingua, anche perché sento gli amici di ‘sto maleducato ridere dietro di lui. No, maledizione! Non darò loro la soddisfazione di vedermi piangere, né a lui quella di avere l’ultima parola!
Restando –spero!– impassibile, lo fisso negli occhi…e gli tiro una ginocchiata nei cari, vecchi gioielli di famiglia.
Lui sgrana gli occhi e sbuffa pesantemente mentre si piega su se stesso tenendosi il punto colpito.
“Non mi servono le mani per farti male.” gli dico, finalmente guardandolo io dall’alto in basso.
Mi pare di cogliere un guizzo nel suo sguardo ma non resto a farci caso perché mi volto e me ne vado, procedendo impettita lungo il corridoio. Almeno fino alla curva.
Da oltre l’angolo in poi, corro.
 
***
 
Salto l’ora di musica e non me ne frega niente. Mi nascondo nell’aula vuota in fondo al corridoio bianco al terzo piano e, con la schiena contro il muro accanto alla porta, mi lascio scivolare seduta per poter scoppiare a piangere, con le ginocchia strette al petto e il viso sepolto nelle braccia.
Ma che ho fatto di male alla gente?!
Singhiozzo per un po’ poi però mi costringo a riprendermi e tiro su con il naso –tanto non posso usare nemmeno i fazzoletti– e mi ripeto le parole di Jonathan e papà.
Poso la nuca contro il muro e alzo gli occhi al soffitto.
“Non ce la faccio da sola!” piagnucolo, rivolta a papà, “Non so fare niente!”
“Beh, le botte, le tiri bene…” mi sento rispondere da qualcuno.
Sobbalzo e salto in piedi voltandomi verso la porta che qualcuno ha aperto in questo momento.
Sgrano gli occhi nel riconoscere l’angelo dell’Apocalisse.
“Sempre che ti interessi saperlo.” conclude, continuando a guardarmi negli occhi.
Tiene una mano sulla porta, l’altra sullo stipite e resta fuori dall’aula senza nemmeno provare ad entrare. Mio malgrado, apprezzo la sua distanza.
“Cosa vuoi ancora?!” gli chiedo, secca, asciugandomi gli occhi con i polsi incurante delle stilettate.
Lo so, a volte il mio orgoglio supera leggermente il buon senso, ma sto cercando di migliorare...sì, come no.
A sorpresa, lui fruga nella propria tasca e ne tira fuori un fazzoletto di stoffa che mi porge.
Lo guardo, sorpresa, ma lui si limita a restare fermo.
“È pulito.” mi rassicura.
“E come lo prendo, secondo te?!” chiedo, secca. Le previsioni del tempo danno acidità e sarcasmo a pioggia per le prossime ore, è allerta meteo, signori e signore.
Lui fissa prima il fazzoletto poi i miei moncherini e mi pare che sia arrossito anche se l’espressione è sempre gelida. Alla fine, rialza lo sguardo su di me.
“Se entro, mi castri?” mi chiede.
“Ah, non so, dipende da quanto male ti farà il piede!” replico. Continua l’allerta meteo, gentili telespettatori, e si prevedono forti peggioramenti nei prossimi minuti.
Lui sospira ma entra.
Oh, beh, se vuole fare l’eunuco in un harem, affari suoi. Castrato lui, contenta io.
Sto per sputare una frase parecchio cattiva ma non ci riesco perché la sua mano fasciata dal fazzoletto –non facciamo scherzi: se arriva a pelle contro pelle, lo castro sul serio, giuro!– mi tampona le guance e asciuga i miei occhi, con delicatezza assoluta.
Resto ferma, come un’idiota, solo perché sono sorpresa dal suo gesto. Quando mi riprendo, tento il bis del gesto di poco fa ma lui salta all’indietro appena in tempo.
“Ma che fai?!” mi chiede, palesemente sorpreso.
Sorpreso, tu?! Imbecille della malora, e io?!
“Chi ti credi di essere?!” gli urlo contro, furiosa, “Prima mi umili davanti a tutti e poi vieni ad asciugarmi il viso?! Cosa sei, uno schizofrenico che soffre di personalità multipla?!”
Lui indurisce il viso. Si sta arrabbiando e io sono sola in un’aula vuota con lui, fantastico!
“Non mi sembra il caso di insultare!” replica, sempre gelido ma è chiaro che si sta sforzando per mantenere il controllo.
“Ah no?!” chiedo. Non vorrei dire, ma le previsioni oggi ci hanno preso in pieno. Vuoi un ombrello contro il sarcasmo, angioletto? Scordatelo!
Lui stringe i pugni tanto da far tremare tutte le braccia e per un momento penso che stia per picchiarmi. E invece si volta, raggiunge il mio zaino e ci ficca dentro il suo fazzoletto prima di dirigersi verso la porta. Sulla soglia, si volta e mi fulmina un’ultima volta.
“E comunque, ero qui solo per scusarmi!” ringhia e poi se ne va, sbattendo la porta.
E io resto lì, imbambolata e confusa, preda del piccolo e insignificante dubbio che forse stava dicendo la verità…
Ma perché gli uomini devono essere così complicati?!
 
***
 
Ok, sono passati otto giorni dalla mia figuraccia per colpa dell’angelo dell’Apocalisse e quel pazzo sembra dotato della capacità di sparire e riapparire nel nulla, sempre tra i miei piedi però!
Non lo vedo per ore e poi, all’improvviso, mi accorgo che mi ha pedinata in corridoio o che mi fissa dall’altro lato dell’aula o che mi tiene d’occhio mentre salgo in macchina con mia madre. Perfino Jonathan se n’è accorto e si sta rapidamente innervosendo, ogni giorno mi chiede se il tipo mi sta ancora alle calcagna e la sua ultima trovata –dopo che quella di rivolgersi alla polizia è stata mandata in fumo da mia madre: non ha ancora fatto niente, non possiamo denunciarlo!– è quella di chiamare i suoi amici del college, ragazzi che sembrano molto più delle porte che degli esseri umani, e aspettarlo fuori da scuola per fargli passare la voglia di venirmi dietro.
Ammetto che qualche volta ho pensato di dirgli che volevo che lo facesse ma poi mi sono sempre trattenuta. Dopotutto, non mi ha più nemmeno parlato però quei pochi che mi rompevano le scatole di solito hanno improvvisamente smesso di avvicinarsi e io non riesco a fare a meno di chiedermi se il motivo è da associare al mio pedinatore personale. Il suo fazzoletto è nella mia tasca e penso che ci resterà: non l’ho usato ma non riesco a toglierlo.
Sospiro ma esco dalla porta della scuola a testa bassa, gli occhi puntati per terra e i moncherini infilati nelle tasche per difendermi dal freddo e dalla pioggia battente. Piove che pare il secondo Diluvio Universale, proprio oggi che mia madre deve restare al lavoro e io devo tornare a casa a piedi. Ultimamente lei è strana, si comporta in modo diverso dal solito e sembra avere la testa da un’altra parte tanto che questa mattina mi ha dimenticata a casa. C’è mancato poco che lei e Jonathan iniziassero ad urlarsi contro. Non mi dispiace stare un po’ più da sola e muovermi senza ‘la scorta’, a dire il vero: mi sento un po’ più libera del solito, ma il freddo c’è e si sente.
Cammino cercando di ignorare gli sguardi delle persone e scivolo di strada in strada divertendomi ad osservare il mio riflesso distorto nelle pozzanghere agitate dalle increspature. Dieci minuti, forse un quarto d’ora ma non so –non porto orologi per ovvi motivi e non ho un cellulare ma un cercapersone…– e arrivo a casa. Salgo i gradini fino a raggiungere la porta… e mi blocco.
È chiusa. A chiave.
Oddio e adesso come faccio?! Mi guardo attorno, ansiosa, e vedo il vaso di plastica in cui mia madre nasconde le chiavi di riserva. Allungo il braccio e provo a infilare il moncherino dentro ma non riesco ad afferrarle, allora prendo direttamente il contenitore tre le braccia e lo giro ma ha il collo stretto e le chiavi non escono.
“No, ti prego, ti prego!” piagnucolo sballottandolo, “No, per favore!”
Ma per l’amor del cielo, mamma! Come hai potuto farmi una cosa del genere?!
“Non puoi esserti dimenticata, maledizione!” sbotto, ma mi pungono gli occhi.
Faccio un passo indietro e lo sbatto a terra sperando che si spacchi ma quello si limita a rimbalzare. Tanto non avrei potuto usare le chiavi, senza aiuto.
Mi schiaccio gli occhi con i moncherini prima ancora di iniziare a piangere, cercando di impedirmi questo crollo di dignità, poi prendo un respiro profondo e lancio ancora un’occhiata alla porta.
Allora, calmati Jace, ok? Andrà bene, sei solo rimasta fuori casa…con una pioggia torrenziale, tua madre irreperibile e tuo fratello lontano fino alle sette di sera. Beh, non male per una giornata sola.
E tanto per peggiorare la situazione, mi sto inzuppando tutta.
Prendo un respiro profondo e mi calmo. Pensa, Jace! Ok, ehm… Devo tornare a scuola e far chiamare mia madre o Jonathan, questa è la prassi.
Sospiro ma mi volto e riparto, sotto la pioggia. A metà strada, comincio a piangere senza riuscire a trattenermi.
Non…non riesco a crederci! Mia madre si è dimenticata e… Non dico che voglio che mi stia sempre appiccicata, diamine! Ha la sua vita e lo capisco ma… Da sola io non posso fare un sacco di cose e sapere che lei se n’è dimenticata così facilmente…fa male. Parecchio male.
Mi asciugo ancora gli occhi, con forza, e tirare fuori i moncherini dalle tasche fa cadere il fazzoletto dell’angelo. Guardo il pezzo di stoffa cadere in una pozzanghera e mi piego subito per riprenderlo.
“No, ti prego, no!” esclamo, esausta e esasperata.
Provo e riprovo ma non faccio altro che immergere il pezzo di stoffa ancora di più nell’acqua lurida e intanto gli occhi mi si appannano.
Ad un tratto, delle dita gentili lo raccolgono per me e io non riesco a non pensare: Non anche lui!
 
 
 
 

IL MIO ANGELO DELL'APOCALISSE
Capitolo III

 
Ok. Non sollevo gli occhi, va bene? Mi alzo, ringrazio a testa bassa e corro via, chiaro?!
Mi rialzo in piedi mentre le dita strizzano il fazzoletto con attenzione, tengo gli occhi sulle sue mani e non sul viso e mi mordo il labbro inferiore mentre una fitta di nostalgia mi prende nel vedere quelle dieci cosette muoversi così libere e tranquille mentre io non ne ho più neanche una.
“Mi dispiace…” commenta la voce mentre le dita mi porgono di nuovo la stoffa, “Così non sembra molto un gesto educato, vero?”
Non rispondo, non voglio, me ne sono successe troppe oggi. C’è un attimo di silenzio, in cui spero che se ne vada eppure so che non lo farà, perché ancora mi porge il fazzoletto.
Maledizione, Jace! Prendilo! Basta questo e lui se ne andrà!
Ma sono paralizzata.
“Lo hai tenuto.” Una constatazione, la sua, nulla più.
Annuisco perché sono senza voce, anche se non so com’è possibile.
“Ma tu stai tremando!” esclama il mio personale angelo dell’Apocalisse e dalla voce sembra davvero confuso, “Diavolo, ma che ci fai fuori tutta bagnata?!”
La parola Diavolo associata al nome con cui lo chiamo mentalmente mi strappa una risatina isterica ma ancora mi costringo a tenere gli occhi fissi sulle sue mani, che ora stringono il fazzoletto come se fosse colpa sua –povero piccolo innocente!– se io sono una pazza di prim’ordine.
“Adesso basta!” esclama lui e d’un tratto la sua mano scatta verso di me.
Mi sta…afferrando per un braccio?! Perché?!
Alzo la testa e incrocio solo i suoi capelli biondi e le sue spalle –nonché, lo ammetto, un lato B niente male!– mentre continua, imperterrito, a trascinarmi verso una villetta bianca. Lui non mi guarda, semplicemente arriva alla porta e la apre con naturalezza. Entro e un piacevole tepore mi raggiunge facendomi effettivamente notare il gelo che ho addosso: sono fradicia, zuppa fino alla biancheria intima. La porta si chiude alle mie spalle e a questo punto non posso evitare di voltarmi e guardarlo: il mio angelo dell’Apocalisse è fradicio quanto me e i capelli biondi che gli si sono appiccicati alla fronte lasciano scivolare qualche goccia lungo il naso aquilino e sugli zigomi alti. Gli occhi verdi sono fissi su di me. Non sbatte nemmeno le palpebre e mi fissa in viso come se mi stesse analizzando. D’istinto, mi asciugo sotto gli occhi e poi riprendo a guardarlo.
“Niente più lacrime?” mi chiede, abbozzando un sorriso gentile che tuttavia non mi mette molto a mio agio: nella mente ho fisso il nostro primo incontro.
Scuoto la testa e lui si avvicina lentamente ma i suoi occhi fuggono un momento al mio abbigliamento e gli sfugge una smorfia.
Ehi! Sono appena mezza affogata e ho avuto una giornata maledetta: se ti azzardi a fare anche solo una piccolissima battuta, io ti…!
“Sei fradicia.” commenta guadagnandosi il nuovo soprannome di Capitan-Ovvio, “Vieni.”
 
***
 
Seduta sul letto a una piazza, al centro di una camera dalle pareti bianche e moquette fiordaliso, non riesco a pensare a nulla se non: è troppo ordinata per essere di un ragazzo. Al liceo, la camera di Jonathan sembrava un campo di battaglia, ora che lui è grande un po’ meno ma non è certo ordinata.
La porta della camera si apre e il mio misterioso…salvatore?, stalker? –Non saprei, a dire il vero…–, entra con degli abiti tra le braccia che mi porge senza farmi alzare dal letto. Sono dei pantaloni blu di una tuta da ginnastica e una maglietta bianca tre volte più grande di me.
“Non sono un abito di gala” ammette sotto il mio sguardo sorpreso, “ma sono le cose più piccole che ho da prestarti, le altre ti starebbero enormi.”
Guardo ancora gli abiti e arrossisco: è stato gentilissimo con me e io non gli ho neanche rivolto una parola! Avendo abbassato lo sguardo, però, noto un’altra cosa.
“Oddio, ti sto inzuppando il letto!” esclamo saltando in piedi giù dal materasso, “Mi dispiace!”
Lui, a sorpresa, sorride.
“Allora ce l’hai ancora, la lingua!” ghigna.
Ok, io sono buona e cara ma non provocatemi. Mai!
“E tu ce le hai ancora le parti basse?” replico, sarcastica e offesa, ma lui, invece di offendersi, alza le braccia in segno di resa.
“Colpito e affondato!” cede poi riabbassa le braccia e mi guarda, imbarazzato e contrito, “Scusa, davvero. Mi sono comportato da stronzo.”
“Questo l’avevo già detto io.” commento sollevando un sopracciglio, come fa sempre lui.
“Vero. ” annuisce poi mi fissa negli occhi, serio come non l’ho mai visto, “Non ti ho fatto lo sgambetto.”
“Come, scusa?!” chiedo, con tanto d’occhi. Non l’ha fatto?!
“Ti sei inciampata nella tracolla del mio zaino, lo avevo appoggiato per terra.” mi spiega poi, prevedendo le mie domande, aggiunge, “Lo so che quello che ti ho detto ti ha ferita e, credimi, me ne sono pentito nell’esatto istante in cui mi è uscito dalle labbra” e a quella parola i miei occhi fuggono sulle dirette interessate, “ma io…dovevo farlo.”
Lo guardo, confusa. Perché doveva?! Perché mi ha fatto credere di averlo fatto apposta?!
“Hai presente Heath? Sai che è capitano della squadra di football?” mi chiede lui e poi, quando gli annuisco, sospira prima di spiegarmi, “Sono entrato in squadra due settimane fa, quando mi sono trasferito, ma c’è un problema: se non sei della cerchia di Heath, nello spogliatoio lui e gli altri ti pestano finché non capisci che quello non è lo sport adatto a te…oppure ti unisci a lui.”
“E per entrare nella sua cerchia, devi dimostrare di essere della sua stessa pasta.” concludo per lui, sgomenta.
Il ragazzo annuisce.
Non è possibile. Heath è un idiota ma…
Ma perché lui dovrebbe mentire?, si intromette una vocina, In effetti, Heath era presente quando lui ti ha trattata male…
“Mi sei capitata davanti proprio quando quei bestioni sono venuti a darmi l’ultimatum.” continua, ignaro dei miei pensieri, “Sei caduta, ho avuto paura e ho finto di aver fatto tutto di testa mia. Mi sono sentito un verme. Ad essere sincero, sono stato quasi sollevato quando mi hai colpito: pensavo proprio di meritarmelo!”
Mi mordo il labbro inferiore. Oh, al Diavolo!
“Scuse accettate.” concedo, “Ma è l’ultima volta!”
Sorride e mi mozza il fiato –cavolo!– ma poi si volta e fa per uscire.
Ok, grazie per la gentilezza ma…
“Ehi!” lo chiamo, lui si volta sorpreso e io arrossisco ma continuo, “Ho bisogno di…due mani.”
Lui sgrana gli occhi e io abbasso i miei sui jeans e la maglietta che indosso. Quando rialzo lo sguardo, è rosso come un peperone ma si avvicina, deglutendo.
“Ehm, io…” balbetta e io arrossisco ancora di più ma gli indico con un moncherino il bottone.
“Ecco… Da sola non…” esito. Andiamo, ma come faccio a dirglielo?!
Lui non mi costringe a finire la frase ma allunga le mani, tremanti, verso quella zona del mio corpo così intima. Io lo guardo in viso e lo vedo, con mia sorpresa, chiudere gli occhi mentre mi aiuta toccandomi il meno possibile.
Mi sbottona e abbassa la zip dei jeans, poi mi dà una mano a sfilarli e a infilare i pantaloni della tuta. A questo punto, mi volto e lui, da dietro e seguendo alla lettera le mie istruzioni, mi aiuta a togliermi la maglietta fradicia per farmi indossare la sua asciutta. Una volta terminate le operazioni, mi volto verso di lui e, forse per la prima volta da mesi, sorrido.
Lui ricambia il mio gesto di nuovo a suo agio ma poi rialza lo sguardo sulla mia testa e si morde il labbro inferiore.
“Con la testa bagnata rischi di prenderti un raffreddore, mi sa. Meglio se mi segui.”
Gli vado dietro, docile, e lui mi porta nel bagno accanto alla sua stanza. Lo osservo spostare il tappeto accanto alla vasca e prendere un asciugamano prima di voltarsi verso di me e farmi cenno di inginocchiarmi a terra.
“Non vorrai asciugarteli così?” mi chiede, notando la mia reticenza.
Alla fine, mi arrendo e gli obbedisco così mi ritrovo inginocchiata con la testa sulla vasca, l’acqua calda sulla nuca e le sue dita che mi sciolgono i nodi tra i capelli con dolcezza. Chiudo gli occhi, beandomi della sensazione che quel contatto mi dà. È totalmente diverso da quando lo fanno mia madre o Jonathan, è molto più dolce.
Dopo pochi minuti, sono in piedi davanti allo specchio e osservo il mio nuovo amico usare il phon per asciugarmi i capelli ma con una maldestra gentilezza e una smorfia sul viso.
“Mi spiace.” sbotta dopo un po’, “Non sono pratico con questi affari!”
Ghigno.
“Nemmeno mio fratello è capace di asciugarli come si deve!” ammetto ridendo, “Fa sempre dei disastri e io finisco col sembrare un leone!”
Lui mi guarda, sorridente, nel riflesso dello specchio.
“Hai un fratello?” mi chiede, di nuovo nei suoi panni di Capitan-Ovvio.
Ma se ti ho detto che mi asciuga male i capelli, vuol dire che esiste, no?!
Annuisco.
“Jonathan.” spiego, sorridendo, “È più grande, va al college, però è sempre pronto a prendersi cura di me: è geloso e protettivo come un fidanzato possessivo!”
Il mio angioletto sorride.
“Vi volete bene, eh?” mi chiede.
Annuisco.
“Ma tu dovresti stare attento…” mi concedo di dirgli.
“Perché?!” mi chiede, sorpreso.
“A furia di pedinarmi, sei finito in cima alla sua lista nera!” rido, “Fossi in te non andrei troppo in giro da solo: potrebbe saltare fuori da un cespuglio per aggredirti!”
Il biondino scoppia a ridere.
“Me lo ricorderò!” dice.
E io mi ricorderò questo suono e la luce sul tuo viso…
Il tempo in bagno finisce e torniamo in camera. Ci sdraiamo sul suo letto, sopra ad un plaid, e osserviamo la pioggia che cade fuori dalla finestra. Un po’ parliamo, ma non tanto. Pensiamo, ascoltiamo, entriamo in confidenza con il silenzio.
“Heath?” chiedo dopo un po’, ricordandomi di lui.
“L’ho mandato a quel paese dopo che mi hai cacciato dall’aula vuota.” mi risponde, apparentemente tranquillo, “Gli ho detto che era un idiota e un vigliacco e che con lui non volevo avere niente a che fare.”
Lo guardo, confusa, sollevando il viso.
“Non l’ha presa gran che bene ma per ora non mi ha ancora toccato.” mi rassicura, “Immagino stia aspettando l’allenamento di domani, sai per risolvere la cosa negli spogliatoi davanti a tutti.”
Lo guardo ma lui si ostina a fissare il soffitto e non incrocia i miei occhi.
“Hai paura?” gli chiedo.
“Da matti!” ammette sorridendo e, finalmente, mi guarda, “Ma sto facendo la cosa giusta, vero?”
Annuisco.
Mi mordo la lingua, insicura, ma alla fine mi decido e mi sdraio più vicina a lui. Poso la testa sulla sua spalla, con esitazione, e sorrido quando lui allunga il braccio a cingermi le spalle e porta la mano dell’altro sul proprio petto.
Mi guarda e io guardo lui mentre, lentamente, in me cresce una certezza.
Tra me e lui non sta nascendo una semplice amicizia.
C’è qualcosa, un piccolo qualcosa, di più.
E non potrei esserne più felice…, penso chiudendo gli occhi e lasciandomi cullare dal suo respiro.
 
 
 
 
 

IL MIO ANGELO DELL'APOCALISSE
Capitolo IV

 
Bianco.
Bianco, bianco, bianco.
Sopra, sotto, ovunque.
Tanto bianco. Troppo.
Una voce, spaventata, che mi chiama.
Il dolore, acuto e bruciante.
Il nero, che inghiotte tutto nella sua gelida voragine.
Ma questa volta cambia qualcosa, perché non è in una immobilità gelida che finisce il mio incubo. Questa volta, ci sono un dondolio tiepido e una voce morbida a riportarmi alla vita.
 
Apro gli occhi, sorpresa, e li alzo.
Il mio angelo dell’Apocalisse è girato su un lato e si tiene la testa sollevata con la mano destra mentre con l’altra mi sposta i capelli dal viso. Ha gli occhi fissi nei miei, spaventati quasi.
“Va tutto bene?” mi chiede, “Stavi urlando.”
Annuisco, stringendo i denti sulla lingua per soffocare il dolore dei moncherini. Non devo esserci riuscita perché lui mi chiede: “Che succede?”
“Male.” mormoro solo, “Però adesso passa.”
Lui abbassa gli occhi sulle braccia, che ho stretto al petto, e mi lascia andare per allungare le mani verso i miei polsi. Mi irrigidisco, d’istinto, ma lo lascio fare e, anche quando lui mi lancia un’occhiata che è una richiesta, annuisco per lasciare che continui.
Le sue dita, leggerissime, sfiorano i miei monconi e io chiudo gli occhi e gemo.
Non fa male, quando mi tocca lui no, e non è per il dolore che il respiro mi accelera: è per la sensazione di gioia profonda che mi dà l’essere toccata da lui proprio lì, in quei punti che sono la mia vergogna, e vedere che non si ritrae, che non lo ripugno, che mi esplora solo con la curiosità ingenua e pacata di un bambino. Scosse profonde e calde partono dal mio cuore e vanno al cervello…o è il contrario? Non lo so, ma è bellissimo.
Riapro gli occhi e mi ritrovo i suoi davanti.
“Mi vuoi dire come è successo?” mi chiede, dolce e non invadente, più curioso di capire me che i miei arti.
Abbasso lo sguardo ma, chissà perché, voglio parlarne.
“Vivevamo in un paesino in montagna.” gli racconto, “Mio padre era una guida e io e mio fratello siamo cresciuti tra rocce, sentieri e neve praticamente perenne. Un giorno, io e mio padre siamo andati a fare una camminata, come ogni Domenica. Mia madre e mio fratello non sono venuti, lui stava male e così non poteva uscire. Ero così contenta: solo io e papà.” esito pensando alle immagini confuse di allora, “Non ricordo bene, ma ho impressa nella mente l’onda bianca che correva giù per il crinale. Candida come solo la neve sa essere, così luminosa e brillante da essere accecante, così veloce e potente da far tremare tutto quanto con il suo rombo e la sua forza. È stato come essere investita da un camion lanciato in discesa a tutta velocità.”
Sento le sue braccia spostarsi attorno al mio corpo e stringermi la vita per spingermi ad accoccolarmi contro il suo petto –non che io faccia storie!–.
“Quando mi svegliai, il giorno dopo, ero in ospedale e le mie mani erano nere.” spiegai, persa nei ricordi, “Assiderate, in cancrena...morte, insomma. Me le amputarono il giorno dopo, volevano aspettare per essere certi che reggessi l’anestesia. Mentre mi operavano, i soccorritori trovarono mio padre. Era il terzo giorno di ricerche e ci riportarono il suo cadavere congelato. Mia madre non riuscì a farsene una ragione e ci trasferimmo lontano dalla neve e dal ghiaccio, dove il passato, secondo lei, avrebbe fatto meno male.”
Il mio angelo mi stringe con più forza.
“Mi dispiace…” sussurra, al mio orecchio.
“Fa niente. Io so che il passato non può tornare.” sussurro poi aggrotto la fronte, “Come ti chiami?”
Lo sento ridere e il mio viso trema contro il suo petto strappandomi un sorriso.
“Daniel.” mi risponde, “Daniel Joyce. E tu?”
“Jacinda Ferris.” sussurro, “Ma puoi chiamarmi Jace, i miei amici mi chiamavano così.”
“Jace…” mormora e io penso che non ci sia niente di più bello della sua voce che sussurra il mio nome e si incastra nella matassa dei miei capelli, “Sei bella, Jace. Più di quanto tu ti renda conto. L’ho pensato sin dal primo momento in cui ti ho vista.”
Arrossisco.
“La prima volta che ti ho visto ho pensato fossi un angelo. Poi hai aperto bocca e ho dovuto aggiungere ‘dell’Apocalisse’ altrimenti non esprimeva bene il concetto.” ammetto, leggera, facendolo ridere di nuovo.
“Me lo sono meritato.” ammette poi lo sento girarsi verso le proprie spalle, “Ha smesso di piovere.”
Sollevo la testa dal suo petto e noto che fuori fa quasi buio.
“Oddio!” esclamo tirandomi a sedere, “Che ora è?!”
Lui si volta verso il comodino e solo ora noto che c’è una sveglia.
“Le otto di sera?!” esclama, come fosse una domanda, mentre salta in piedi e si volta verso di me, “Tua madre sarà in pena!”
Ma va’?! Bentornato, Capitan-Ovvio!
“Il cercapersone!” esclamo, “Nella tasca!”
In un attimo, Daniel mi porge l’oggettino che scopro, con orrore, essersi spento dopo la lavata fuori programma. Proviamo a riaccenderlo e al terzo tentativo questo mi segnala tre chiamate senza risposta da mia madre e ventitré –dico, ventitré!– da mio fratello.
“Maledizione!” mi lascio sfuggire e alzo lo sguardo su Daniel, che mi fissa, “Mia madre ha chiamato mio fratello: gli sarà venuto un infarto, o un embolo, o una sincope! Forse tutto insieme!”
Daniel mi tende la mano.
“Ti accompagno a casa” mi dice nel notare la mia espressione confusa, “così spiego a tuo fratello la situazione e mi scuso per la paura che si è preso.”
Scrollo le spalle, fingendo che la premura non mi tocchi come invece sta facendo.
“Ti staccherà la testa dal collo ma…contento tu!” scherzo, attirandomi un’occhiataccia da Daniel.
“Ma non avevamo superato la fase delle frecciatine?” mi chiede.
Al che, fingo di pensarci e poi, con una smorfia, rispondo: “Naaaah!”
 
***
 
Oh. Mio. Dio. C’è. La. Polizia. Davanti. A. Casa. Mia. … Oh mio Dio!
Daniel, che mi cammina accanto e regge l’ombrello sotto cui stiamo entrambi, commenta con un fischio e senza riuscire a trattenermi gli mollo una gomitata nelle costole.
“Violenta!” mi sussurra nelle orecchie ma poi si interrompe quando arriviamo abbastanza vicini da sentire gli strepiti di mio fratello che dà a mia madre dell’irresponsabile sotto gli sguardi allibiti degli agenti di polizia, incerti sul da farsi.
“Oh no…” mormoro, conscia che questa sera la litigata che rimandano da giorni si sfogherà irrimediabilmente, prima di lanciarmi di corsa verso di loro per interrompere la scenata, “Jonathan!”
Lui si volta immediatamente, dimentico di nostra madre –che mi fissa sbalordita, a dire il vero–, e quando mi vede mi corre incontro, a metà tra il sollevato e il furioso.
“Jacy!” esclama abbracciandomi con tanta forza che penso abbia intenzione di distruggermi le ossa per giocarci a Mahjong. Ovviamente, è un attimo perché si stacca subito per afferrarmi per le spalle e scrollarmi notevolmente. “Ma che ti è saltato in mente?! Ti ho chiamata un migliaio di volte!”
“È colpa mia.” sento dire alle mie spalle – Daniel Joyce è un ragazzo coraggioso, signore e signori: diamogliene atto. Nessun altro si prenderebbe le responsabilità rischiando di attirarsi le ire di mio fratello, siamo sinceri!– e mi volto nel momento in cui anche Jonathan lo fa.
Daniel è in piedi con i miei vestiti appoggiati ad un braccio e non fissa me ma mio fratello.
“Mi dispiace.” dice, serio, “Ho visto Jace che camminava per strada sotto la pioggia e l’ho fatta venire a casa mia perché si asciugasse ma poi ci siamo addormentati entrambi e non ci siamo resi conto del tempo che passava. L’acqua aveva reso inutilizzabile il suo cercapersone, perciò non è colpa sua.”
Però! Alla faccia dell’angelo dell’Apocalisse, questo qui potrebbe fare l’avvocato del Diavolo! Ehi, Daniel, che ne dici di dirgli anche che sei il tipo che mi pedina da una settimana a questa parte, così ti manda all’ospedale per direttissima?
Jonathan lo squadra con attenzione e in particolare fulmina i miei vestiti tra le sue mani.
“Erano bagnati e non voleva che io stessi male.” gli sussurro a bassa voce immaginando i suoi pensieri, “Non mi ha toccata, baciata, violentata e non abbiamo sco…”
“Ho afferrato il concetto, grazie!” esclama lui tappandosi le orecchie con le mani poi rialza lo sguardo su Daniel, “Grazie anche a te, allora.”
Lui annuisce poi guarda me.
“Allora, a domani, Jace.” mi dice.
Annuisco e poi, ignorando tutto il caos attorno a me, lo guardo andarsene a casa sotto la pioggia rada che ancora scende dal cielo.
Grazie, Daniel Joyce, per aver incrinato la mia solitudine., penso.
 
***
 
Sdraiata sul mio letto, di schiena e con le mani intrecciate sulla pancia, aspetto.
Se chiudo gli occhi, vedo di nuovo il viso di Daniel ad un soffio dal mio; ma se li apro, non riesco a fingere di non sentire le urla di mia madre e mio fratello che litigano furiosamente, come da un’ora e mezza a questa parte hanno fatto ininterrottamente. Siamo alle battute finali, lo so, perché le frasi di entrambi sono sempre più cattive.
“Ho sbagliato, lo so, scusa! Ma se tu non te ne fossi andato a quel maledetto college…!”
“Non me ne frega niente delle tue scuse, mamma, e non tirarmi in mezzo!”
“Non urlare, Jonathan!”
“No, Cristo, io urlo quanto mi pare! Hai lasciato Jacy chiusa fuori di casa per ore e con la pioggia che c’era! Dio, mamma! Fa’ quello che vuoi, costruisciti una nuova vita, ma non farlo a discapito della sua! Dannazione, in tutti questi mesi le sei stata appiccicata e non l’hai fatta respirare solo perché starle accanto ti impediva di pensare al fatto che sei rimasta sola e papà è morto, ma non puoi disinteressarti così, dal nulla, perché le cose sono cambiate! Non mi interessa quanto cazzo ti fa godere il tuo bel medico sulla scrivania del suo studio e nemmeno lo voglio sapere! Ma, porco Giuda, non ti azzardare a far soffrire mia sorella per un fottuto orgasmo!”
Chiudo gli occhi. È sempre così, sempre così vengo a sapere le cose, io.
Sento Jonathan salire le scale a passo pesante e passare davanti alla mia stanza per entrare in camera sua. Sbattendo la porta, ovviamente.
Mi mordo il labbro inferiore ma poi, con uno sforzo, mi tiro a sedere e mi alzo dal letto per uscire in corridoio e andare a bussare alla sua porta. Silenzio ostinato da parte sua.
“Sono Jacy.” dico solo, quando capisco che non mi farà entrare semplicemente sulla fiducia.
La porta si apre praticamente subito e io entro richiudendomela alle spalle appena in tempo per vedere mio fratello che torna a sedersi pesantemente sul suo letto. Sospiro e mi metto al suo fianco, guardando il pavimento ad imitazione di quello che fa lui, ma senza tenermi la testa tra le mani.
“Da quanto lo sai?” chiedo, piano.
“Tre giorni.” mi risponde, laconico, “Me l’ha detto appena l’hanno fatto la prima volta.”
Oddio. Mia madre e un altro uomo, uno che non è papà. E per stare con lui si è dimenticata di me.
Una lacrima mi scende dalla guancia e lui, vedendola, prova a scusarsi.
“Jacy, avrei voluto dirtelo ma non sapevo come l’avresti presa e così…”
“Jonathan,” lo interrompo, decisa a ignorare anche questo colpo per fare almeno in modo di sdebitarmi con Daniel, “ho bisogno che tu mi faccia un favore, domani pomeriggio…”
 
 
 
 
 

IL MIO ANGELO DELL'APOCALISSE
Capitolo V

 
Pantaloni della tuta che mi sono infilata da sola, maglietta un po’ grande ma che ho infilato da sola, scarpe da ginnastica senza stringhe né velcro infilate a forza da sola e un enorme sorriso sul volto mentre cammino verso scuola masticando una gomma che pulisca i denti. Ehi, lo so che non è granché ma al mattino ho deciso che mi accontenterò di questo: a pranzo e cena ci sarà mamma, Jonathan andrà al college e non tornerà più indietro se non nel fine settimana –gliel’ho imposto!– e per il resto troverò il modo di imparare ad arrangiarmi da sola. Sono stufa di pesare sulle persone e voglio imparare ad essere autonoma, ormai è ora che lo faccia. Papà è morto da mesi: devo lasciarlo andare e imparare a vivere la mia vita anche senza le mani. Posso provarci, voglio provarci.
A scuola, mi guardo attorno senza cercare di passare inosservata. Alcuni mi guardano e io sorrido loro, due ragazze ricambiano addirittura il mio gesto e se non mi sbaglio sono in classe con me durante musica: potrei provare a sedermi vicino a loro…
“Un cambio radicale!” mi sento dire da una voce gioviale alle mie spalle, “La pioggia ti ha schiarito le idee?”
Mi volto, sorridente, e incrocio il viso luminoso di Daniel.
“Ho pensato che magari dovrei essere un po’ più gentile.” replico alzando le spalle poi gli porgo un moncherino.
Lui mi guarda, confuso.
“Il mio fazzoletto, prego!” pretendo, scherzosa, “Ieri hai fatto finta di niente e te lo sei tenuto! Lo rivoglio, grazie!”
Scoppiamo a ridere subito.
Allora, io stavo scherzando, per questo resto davvero sorpresa quando lui me lo porge davvero.
“Stavo cercando una scusa per ridartelo comunque.” ammette, rosso in viso.
“Te la fai con la monca, Joyce?”
Io mi volto, irritata già solo perché ho riconosciuto la voce, e alle spalle di Daniel –che si è voltato– vedo Heath e un paio di ragazzi del football. Ma quelli non hanno nient’altro da fare?!
“Si chiama Jacinda!” ringhia Daniel –protettivo, eh?– fulminandolo con un’occhiataccia, “Ed è una persona mille volte migliore di te!”
“Uhhh!” ride Heath, fingendosi spaventato, poi ci supera ed va verso la scuola dandoci le spalle, “Ci vediamo negli spogliatoi, Joyce!”
Mi volto in tempo per vedere Daniel, i denti stretti e i pugni chiusi, impallidire leggermente. Cosa cavolo ha visto in quegli spogliatoi la settimana scorsa?!
La domanda mi si deve leggere in faccia perché lui mi guarda, sospira e si sforza di fare un sorriso.
“Sono dei cretini!” mi dice.
“Non ho mai sostenuto il contrario, anzi sono decisamente a favore di questa linea di pensiero.” commento, tranquilla, mentre insieme –e sottolineo insieme!– entriamo in scuola.
Sulla porta della mia classe, Daniel si piega su di me e mi sussurra un: “Andrà tutto bene.”
Oh, ma io lo so che andrà tutto bene, caro il mio angioletto Apocalittico, sei tu che non hai idea di quello che succederà là dentro!
 
***
 
Dalle gradinate, sembra facile correre sul campo d’erba verde, il gioco sembra banale e noioso e gli scontri tra ragazzi che corrono in direzione diversa sembrano accidentali. Ma dopo un po’, anche dalle gradinate ci si rende conto che tutti gli scontri e tutti i falli vengono fatti sempre sullo stesso giocatore.
Resisti Daniel… Ancora un po’, per favore…, penso per tutto il tempo.
Quando l’allenamento finisce, il mio angioletto ha preso talmente tanti colpi accidentali che mi sorprende che sia ancora in piedi. Non mi ha vista, ma in fondo io non ho fatto nulla per farmi notare e lui aveva altro a cui pensare. Adesso, lo guardo entrare negli spogliatoi a testa bassa, per ultimo come se bastasse a cambiare le cose.
Un piccolo sorriso mi sale alle labbra mentre mi alzo in piedi a mia volta e, imbacuccata nella giacca, scendo dalle gradinate per raggiungere un paio di amici.
 
***
 
Il coach ha chiamato i ragazzi nel suo ufficio, probabilmente per far loro una lavata di capo per il gioco davvero poco pulito, e così io faccio in tempo ad aprire la porta posteriore –che ha il maniglione anti-panico, per fortuna!– e poi nascondermi nel bagno di fronte allo spogliatoio maschile prima che gli energumeni sudati e puzzolenti mi becchino. Appoggio l’orecchio alla porta, rassegnata al fatto che per un po’ non potrò farmi vedere e perciò non potrò godermi la scena.
La prima voce a raggiungermi è quella di Heath.
“Ehi, cavalier servente!” ride e può ringraziare il cielo che non abbia più le mani sennò in questo preciso istante lo starei strangolando con immenso piacere, “Hai cambiato idea?”
“Non c’è niente su cui cambiare idea!” replica Daniel, diventato molto più combattivo che al nostro primo incontro, e me lo immagino stringere i pugni.
“Oh, accidenti! E io che speravo potessimo essere amici…!” Oh, sì, Heath, e ti crediamo tutti!
“Amicizia e disgusto non vanno d’accordo, a casa mia.” è la replica, coraggiosa, di Daniel.
Aggrotto la fronte quando sento un suono strano, qualcosa che sbatte contro un arnese di metallo e oggetti che tintinnano. Che diamine succede di là?!
“Attento a quello che dici, amico!” ringhia Heath.
“Attento anche tu, amico!” interviene un’altra voce che riconosco subito e mi fa sorridere.
Puntuale come un orologio svizzero!, penso mentre, finalmente, esco dal mio nascondiglio.
La porta degli spogliatoi ora è letteralmente bloccata per via di una decina di ragazzi un po’ più che ventenni davvero enormi che stanno sulla soglia con aria minacciosa e fissano i giocatori all’interno –che a confronto sembrano bambini dell’asilo che si azzuffano per delle caramelle, devo dirlo!–.
“Ehi!” esclama qualcuno, direi spaventato, mentre mi avvicino all’entrata, “Non potete venire qui!”
“Fossi in te mi preoccuperei di più di non farmi perdere la pazienza, piccoletto!” lo redarguisce il portavoce dei nuovi arrivati, un energumeno rosso di cui vado molto orgogliosa, “Piuttosto, sei tu Heath Race, vero?”
Oh, come vorrei poter vedere la faccia di Heath in questo momento!
Immagino che non abbia risposto perché gli ospiti si stanno muovendo verso l’interno della stanza con palese minaccia.
“Jacy.” mi sento chiamare e i ‘picchiatori’ mi lasciano spazio per entrare, tutti lanciandomi discrete occhiate divertite per questa commedia fatta a discapito di Heath.
Quando mi vede, il capitano sbianca e Daniel, che Race ha afferrato per la maglia sul petto e tiene attaccato al muro, sgrana gli occhi ancora di più: aver riconosciuto mio fratello deve averlo sorpreso ma io sono proprio il suo colpo di grazia.
“È quello Race?” mi chiede mio fratello, cingendomi le spalle con un braccio, quando gli arrivo accanto.
Ovviamente, annuisco e lui si volta verso un Heath sempre più nervoso.
“Allora sei tu il bastardo che ha dato a mia sorella della monca.” Jonathan marca bene il legame di parentela e la sua voce, seppur calma, sembra voler dire: adesso te ne do tante che domattina per alzarti dal letto ci vorrà il montacarichi!
Heath lascia andare Daniel, evidentemente preoccupato dalla piega che la situazione sta prendendo, e indietreggia con le mani in alto.
“Era per scherzare!” si difende e io mi ritrovo ad alzare un sopracciglio con scetticismo.
“Ah davvero?” chiede Jonathan, fintamente sorpreso, prima di voltarsi verso di me, “Ti fa ridere?”
Lo guardo e, con tanto di labbro tremulo in fuori, scuoto la testa.
“Per niente!” mugugno, sembrando in tutto e per tutto una bambina piccola.
“Perfetto!” dichiara Jonathan per poi farsi da parte e lasciare un minuscolo corridoio tra i suoi compagni che permette di uscire dagli spogliatoi, “Allora facciamo un gioco: adesso tu ti allontani dall’amico di mia sorella dopodiché io conterò fino a cinque poi inizierò a scherzare molto con chiunque sia ancora qui, chiaro? Uno… Due…”
Prima del tre, Heath e i suoi erano già fuori e dentro erano rimasti sì e no sette ragazzi, troppo confusi per reagire prontamente.
“Gli vai dietro?” chiedo a mio fratello, “Solo per essere sicuri che non ritentino il colpo…”
“Tranquilla, sorellina!” ghigna lui mentre i suoi amici del college si piegano in due per le risate commentando la fuga dei palloni gonfiati, “Vedrai che ci penseranno quattro o cinque volte prima di rialzare la cresta!”
Sorrido.
“Grazie, fratellone.” sussurro, grata ma lui mi fa cenno di lasciar perdere con la mano e poi si avvia fuori con i suoi compagni, che hanno il treno a breve.
Prendo un respiro profondo e mi volto: Daniel mi fissa, sbalordito ma con un sorriso che lentamente gli fiorisce sulle labbra, e gli altri sei mi ringraziano appena prima di andarsene velocemente.
“Certo che sei piena di sorprese, eh?” mi dice il mio angelo, quando restiamo soli, “Per un attimo ho pensato che fosse venuto a picchiare me!”
Sorrido, immaginando la scena, e intanto mi avvicino per sedermi sulla panca di legno che sta alle sue spalle. Mi accomodo piano chiudendo gli occhi e lui si mette vicino a me così piego la testa per appoggiarla sulla sua spalla, istintivamente.
Quando le sue braccia mi stringono la vita con delicatezza e la sua guancia si posa sulla mia nuca, mi lascio scappare un paio di lacrime, commossa.
“Ehi?” mi sussurra Daniel notandole, “Shhh… Va tutto bene, Jace…”
Per un po’, mi godo la sensazione che mi dà sentire la sua voce che mi rassicura poi lui parla.
“Jace?”
“Sì?”
“Io non voglio essere tuo amico, come ha detto tuo fratello…”
Sgrano gli occhi e raddrizzo la testa, di scatto. Cosa…?
“Ascoltami!” mi supplica prendendomi il viso tra le mani, “Io non voglio essere tuo amico perché so già che non mi basterebbe. Se vuoi che ti stia vicino, devi però rassegnarti al fatto che ci proverò con te. E più di una volta, se necessario!”
Immobile, assimilo le sue parole e resto in silenzio a lungo.
“Non sarà facile…” sussurro alla fine, immaginando la vita complicata che ci stiamo scegliendo e le difficoltà che nasceranno dal provare a stare insieme.
Lui sorride, furbo.
“Ehi!” ridacchia facendomi appoggiare di nuovo a lui, “Tutto andrà bene se mi tieni accanto a te.
Mi mordo il labbro inferiore, esitante.
“Io non so nulla di te…” mi lascio sfuggire ma, proprio mentre me ne sto pentendo, lui ride facendomi tremare contro il suo petto.
“Vero, non sai nulla di me,” ammette facendomi alzare la testa per costringermi a guardarlo dritto negli occhi, “ma scommetto che vuoi saperlo.
Scoppio a ridere, senza potermi trattenere, perché –mannaggia a lui!– ha assolutamente, dannatamente, ragione!
Dopo un po’ ci alziamo per andarcene prima che ci chiudano dentro ma io lo fermo sulla soglia.
“Daniel?”
“Sì?”
“Devo tirarti un’altra ginocchiata nel basso ventre per convincerti a baciarmi?” chiedo, fintamente innocente.
Lui scoppia a ridere ma obbedisce immediatamente.
Ecco, questo sì che è l’inizio perfetto per la storia d’amore di una monca e di un angelo dell’Apocalisse!
  
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