Salve Echelon! Scusate ieri non ho aggiornato... ero in crisi da lettura :) Ho cominciato a leggere una saga sabato pomeriggio e BUM, mi sono letta tre libri (senza contare domenica perchè non ho potuto leggere) in tre giorni! Ora mi manca il quarto.... *sono ossessionata, lo so*
Bene, però oggi sono qui con un capitolo. Sappiate che anche se non capite bene che cavolo sta succedendo è normale, è fatto apposta. Spero che la storia vi piaccia e..... recensite :D
Buona lettura, Ronnie
Chapter 2. Death calls my name
Merda, ci mancava solo quello stupido cantante a farmi innervosire e cambiare il colore dei miei capelli!, pensò Ash, cercando di tornare calma, guardando quei piccoli angeli che dormivano. Angeli che non conoscevano nulla del mondo, di nessun mondo. Beati loro…
Sbuffò; tra qualche minuto i genitori sarebbero tornati a prendersi i loro figli e lei sarebbe potuta tornare nella sua casetta, al sicuro da tutto e da tutti. Avrebbe preso la macchina e avrebbe parcheggiato nel secondo parcheggio a destra, per poi arrivare a piedi fino al suo appartamento. Come faceva tutti i giorni.
Ma no, il destino non era d’accordo.
“Ash, c’è qualcuno che chiede di te”, la chiamò Janet, la segretaria, entrando nell’aula nel modo più silenzioso possibile, anche se aveva un viso pallido di paura e gli occhi spalancati. E da quando Jared Leto era diventato uno stupratore che spaventata le vittime facendole chiamare a sé? Sembrava veramente impaurita.
“Può anche dire al signor Leto che sto lavorando e che…”, cominciò a dire la ragazza, ma Janet scosse la testa di scatto, chiudendo gli occhi, come per estraniarsi dalla realtà che la circondava.
“Non è il signor Leto…”, sussurrò tremando, guardando i bambini appisolati intorno a loro.
“Allora resta qui con loro. Vado a vedere cosa vuole questa persona misteriosa”, le rispose Ash lasciandola lì ad annuire con un’espressione da ‘stai attenta’ sul volto.
Uscì e chiuse bene la porta, facendo girare per due volte la chiave, anche se sapeva che sarebbe stato inutile. Poi si voltò verso l’uscita e vide che, sullo stipite dell’ingresso, era appoggiata con un posa di sfida una figura nota.
“Devi scappare”, disse una voce maschile. Una voce conosciuta, molto conosciuta. L’uomo era completamente coperto da abiti neri, tranne che per un cappello completamente bianco, appoggiato in modo da coprire gli occhi e non farsi riconoscere. Sì, certo…
“Ciao Edmund”, ridacchiò lei. Era capace di mascherarsi quanto lei di trovarsi in due posti contemporaneamente. “Come stai? Male?! Spero di sì, guarda”.
“Smettila Ash!”, la rimproverò, non muovendosi di un centimetro, ma più arrabbiato che mai.
“Cos’è, ora tifi per noi? Ti seguono? Te l’avevo detto che…”, cercai di parlare, ma mi sovrastò con la sua voce.
“Stai zitta! Devi solo scappare, c’è troppo poco tempo ormai per le chiacchiere! Se vuoi lasciare la vita a questi bambini, devi scappare!”, gracchiò l’uomo davanti a lei, avanzando e alzando lo sguardo.
I suoi occhi, un tempo marroni cioccolato, erano ora di un colore indefinito, tendente al rosso marcio… marcio come la sua anima.
Ash scosse la testa. “Quindi ora fai di nuovo la spia?”, sbuffò lei, come se fosse un insulto. “Sai bene che se non mi trova farà una strage. E sai bene che se mi trova non mi farà del male. Gli servo… al contrario tuo”.
“Non toccherà nessuno, te lo giuro… scappa, ti prego!”, la supplicò Edmund avvicinandosi sempre di più e cercando le sue mani, che prontamente lei ritrasse, allontanandosi.
“Sei proprio uno stronzo”, finì la biondina, sorpassandolo mentre lui sospirava più tranquillo. Dio, se lo odiava!
E mentre i suoi capelli venivano macchiati completamente di viola, sia chiaro che tendente al nero, rendendola completamente irriconoscibile, solo una cosa le venne in mente: Spia del cazzo.
“Non così!”, scherzò Vicki, cercando di vestire Devon, che però non aveva la minima intenzione di assecondarla.
Si continuava a muovere nella piccola maglietta nera che zio Shannon gli aveva comprato, chiedendo continuamente alla madre di smetterla con lamentele infinite composte da mugolii.
Vicki rideva e lo vestiva con un gran sorriso, che alla fine convinse il figlio che non era poi così male essere vestito.
“Tomo, lo portate voi, quindi?”, chiese al marito, che stava prendendo la chitarra e uno dei suoi amplificatori per metterli in macchina, visto che al Lab se n’era rotto uno.
“Sì, a quanto pare la Connor ha dato una bella gatta da pelare a Jared”, rise Tomo ripensando alla discussione che aveva avuto con il cantante quando era tornato dall’asilo. Shannon e Tomo non erano riusciti a non ridere.
Jared era ormai un caso perso: tutte le ragazze lo volevano e un rifiuto l’aveva maledettamente ferito nell’orgoglio. Quindi avrebbe assillato quella ragazza fino a che non sarebbe riuscito ad averla. Oh, povera Ash Connor!
“Wow… avrei davvero voluto vedere la scena”, disse Vicki dando un bacio sulla guancia a Devon, per poi sistemargli bene i capelli, e guardandolo nel suo splendore, bello pulito e vestito. Lo spinse un poco e quello andò gattonando da suo padre. “Vedi di fare il bravo con papà e gli zii, okay?”.
Il bambino si voltò sentendo la voce della mamma e sorrise, per poi ritornare verso il papà, che lo prese in braccio. Continuava a fare borbottii strani, che in teoria per lui erano l’intonazione delle note.
Faceva sempre così quando andava con Tomo da Jared e Shannon, come se capisse che andava a trovarli. Certo, questa volta non sarebbe nemmeno entrato a casa di Jared.
Tomo salutò la moglie con un leggero bacio a fior di labbra e poi si diresse verso l’auto, dove poggiò Devon sul sedile apposta dietro di lui. Poi si sedette al posto di guida e cominciò il viaggio verso l’asilo.
C’era una cosa che non capita: quella dannata sensazione che la Connor aveva qualcosa di strano continuava a vagargli in testa, soprattutto dopo che Jared gli aveva raccontato che era successo.
Il cantante aveva notato, dopo averla irritata un po’, che le ciocche della ragazza avevano cambiato colore, diventando sia blu puffo (come lui aveva visto la mattina), ma anche di uno strano viola. In più dopo che era partito con l’auto era arrivato un uomo completamente vestito di nero, da fare quasi paura, con un solo cappello bianco.
Strano, troppo strano.
Certo l’uomo non poteva essere collegato per forza alla ragazza, ma i capelli… era certo di non aver visto nessuna ciocca viola in quel biondo, nemmeno per un secondo.
Allora cos’era? Perché ad un tratto i suoi capelli cambiavano colore?
“Tu hai notato niente di strano, Devon?”, chiese al figlio, che giocherellava con il solito pupazzo che mettevano in macchina. Devon alzò lo sguardo e batté le mani, sorridendo felice.
Mai prima d’ora era stato felice di essere abbandonato in giro, nemmeno dai nonni. Invece Jared aveva detto loro che era stato bene e quella mattina aveva particolarmente voglia di farsi un giro, quel piccolino.
“Se tu parlassi capirei molto meglio”, sorrise il croato, lasciando perdere le sue congetture che alla fine non avrebbero portato a nulla. Svoltò verso il parcheggio dell’asilo e sistemò lì l’auto, facendo il più in fretta possibile per arrivare puntuale alle prove.
Uscì dall’auto e andò a prendere Devon in braccio, il quale si strinse al suo collo così forte da fargli mancare il fiato. Poi chiuse la macchina e andò verso l’edificio, che sembrava irrimediabilmente più spento del giorno prima. Le giostre si muovevano lente, scricchiolando a causa del vento, le luci erano spente, sebbene era uno dei pochi giorni l’anno in cui a Los Angeles di mattina mancava il sole.
“Buongiorno…”, aprì la porta d’ingresso l’uomo, vedendo che comunque l’interno era normale, anche se non si sentiva volare una mosca.
“Oh, salve signor Milicevic”, disse svelta la segretaria del giorno prima, piombandogli davanti con un sorriso tirato. Tomo notò che aveva un ematoma sulla guancia, nascosto male sotto del trucco, ma preferì non commentare e sorridere a sua volta.
“Sono venuto a portare Devon”, disse indicando suo figlio appiccicato al suo collo, stranamente impaurito. “Ash è già qui?”.
“Oh, no, no, no, no. In verità Ash non ci sarà per alcuni giorni… ma se vuole c’è qui Natalie, una sua validissima collega”, balbettò la donna, facendogli segno di seguirla, quasi fosse nervosa.
“E’ successo qualcosa?”, chiese Tomo, coccolando suo figlio sulla schiena, che stava cominciando a singhiozzare. Troppo strano. “Calma, Devon, c’è papà”.
“No, niente… assolutamente niente!”, disse decisa la segretaria, come se qualcuno la stesse ascoltando. Li lasciò davanti a una classe simile a quella del giorno prima, sorridendo in fretta, per poi dileguarsi.
Bussò alla porta ed entrò. Seduta su una sedia, a parlare a bassa voce con un bimbo, c’era una donna più grande di Ash Connor, mora e un po’ bassina.
“Oh, muy encantada señor!”, disse la donna, sorridendogli e andandogli incontro. Pelle marrone-caramello, occhi scuri… spagnola o sudamericana, poco ma sicuro. “Yo soy Natalie, pero tu puedes llamarme Nat”.
“Scusa, ma so poco o niente di spagnolo… una traduzione momentanea?”, scherzò il croato e lei rise, anche se sembrava comunque all’attenti. Erano tutti troppo tesi quel giorno…
“Scusami, ma a volte mi faccio prendere troppo”, rispose, guardando Devon pian piano slacciarsi dal collo di suo padre, solo un po’ più tranquillo. “Le stavo dicendo che io sono Natalie, ma lei può darmi del tu e chiamarmi anche Nat”.
“Ok Nat. Lui è Devon… di solito non è così timido, anzi lo è diventato circa due minuti fa”, ridacchiò Tomo provando a guardare suo figlio, che però al tocco della donna si era di nuovo attaccato a lui.
“Oh, ma non deve avere paura… non di me”, disse la donna provando ad avvicinarsi. Lei non era la persona cattiva che il giorno prima aveva spaventato tutti, lei compresa.
“In verità prima era tutto contento di venire qui…”, borbottò l’uomo, riuscendo a liberarsi dalla presa di suo figlio, per passarlo a Natalie, che lo prese subito in braccio sussurrandogli paroline spagnole.
“Oh mi corazon, no tienes que llorar… yo soy tu amiga”, continuava a dire mentre Devon cominciava a singhiozzare. “Lei può andare, sono certa che tra qualche minuto si calmerà”.
“Tornerò a prenderlo verso le tre, va bene?”, annuì Tomo, cercando di resistere all’impulso di prendere suo figlio e trascinarlo via. Non gli piaceva quella situazione, non gli piaceva proprio per niente.
“Meglio che arrivi puntale”, lo ammonì Natalie, stringendo Devon quasi preoccupata. Ma che avevano tutti quel giorno?!
“Ehy, direi che le hai fatto davvero paura, Jared”, scherzai appena arrivato al Lab, dove Jared e Shannon mi accolsero sorridenti. Oh, finalmente qualcuno di tranquillo e sereno!
“Che intendi dire?”, chiese il cantante, confuso.
“Ash Connor si è presa delle ferie a quanto pare… e quel posto ha qualcosa di strano. Santo Signore, sembrava che tutti stessero per avere un immediato attacco di panico”, li informò alzando le spalle, come a non capire ciò che era successo.
“Bah, tutte le baby-sitter sono strane, Tomo”, ridacchiò Shannon, che indicò al suo amico la sua chitarra con le sue drumstick. “Lascia perdere la casa degli orrori, Devon sta bene. Aiutaci a suonare dai”.
“Certo, arrivo”, concluse il croato, andando a sistemare la chitarra e l’amplificatore che si era portato dietro. Sorrise e entrò in quella che per molti versi era anche casa sua. Ci aveva passato così tanto tempo lì dentro da sembrare eterno, ma mai si era stancato di quelle mura, di quei disegni o dediche campate per aria, che sporcavano il muro bianco del Laboratorio. Lì era il posto in cui era nato per stare e si sentiva davvero bene.
“Tomo?!”, lo chiamò Jared ridendo e muovendo la mano davanti alla sua. “Oddio l’abbiamo perso completamente”.
“Smettetela, stavo pensando!”, si lamentò il chitarrista sorridendo. Si stava perdendo via troppe volte, lo sapeva.
“Riproviamo Up In The Air o andiamo sul classico?”, chiese Jared, cercando i fogli con i testi. Non li usavano quasi mai, ma erano sempre lì davanti a loro per ogni inconvenienza.
“E se riproviamo qualche testo del primo album? Abbiamo appena fatto i dieci anni da quel momento, rivediamo un po’ i suoni”, propose il batterista battendo suoi piatti, per poi cominciare con Capricorn.
“In effetti si può fare, mi va di tornare ai vecchi tempi. Tomo?”, chiese il cantante, preparandosi. Era una vita che non li cantava e al VyRT era stato felicissimo di divertirsi a cantarli in playback. Non aveva la voce di una volta ma di sicuro poteva farcela egregiamente a farli di nuovo dopo dieci anni.
“Perfettamente d’accordo. Avrei tanto voluto esserci mentre li registravate”, sorrise il croato, pensando a quando era arrivato a bordo di quella pazzia.
“Già. Solon però era un ottimo chitarrista… dite che se lo richiamo torna a farci da bassista permanente? Mi ricordo che suonava anche il basso!”, ebbe un’idea Jared, guardando il suo amatissimo Blackberry.
“Secondo me appena sente la tua voce riattacca!”, lo prese in giro Shannon, ridendo con Tomo e cominciando a suonare qualcosa seriamente.
Trovarsi per terra in mezzo al fieno che ti punge ogni centimetro del tuo corpo non era l’aspettativa di vita migliore che Ash poteva di certo sognare.
Vaffanculo Edmund, pensò e ogni secondo continuava a ripeterlo nella sua mente come un mantra. Perché l’aveva seguito? Ancora non lo capiva ma aveva preferito così piuttosto che restare all’asilo e cominciare una guerra.
Avrebbe rivelato troppo a troppi e la cosa non era positiva. Sarebbe finita nei guai anche se ne fosse uscita vincente, e la cosa era parecchio improbabile.
“Dovresti solo ringraziarmi”, sbottò lui, che alla fine era nelle sue stesse condizioni. Ash lo guardò nel modo peggiore che conoscesse, senza dire una parola. Però la pensò, e fu ‘stronzo’. “In fondo ti ho salvato la vita… di nuovo”.
“In fondo l’hai fatto dopo avermela rovinata tipo un centinaio di volte… stronzo!”, esplicitò i suoi pensieri stavolta, guardandolo con un sorrisino ironico e fretto che fece rabbrividire Edmund, il quale la fissava come per scusarsi.
“Non avrei mai voluto, lo sai”, disse il ragazzo. La sua voce era diversa da come Ash la ricordava. Che gli aveva fatto?
“Non ne sono più così sicura”, sbottò lei, avvicinando le ginocchia al petto e circondandole con le braccia.
“Ti ho appena salvato la vita e ancora non mi credi? Cazzo Ash, se non me ne fregasse più niente di te non sarei venuto ad avvisarti!”, s’infuriò lui. Aveva ragione, ma poteva anche essere una bugia.
In realtà magari non sarebbe mai arrivato nessuno all’asilo e Edmund la sta portando proprio dal suo nemico.
“Sei nato come spia. Come posso fidarmi di una spia?”, domandò Ash, provando a capire dove cavolo stano andando. Di certo non erano più nella solita Los Angeles.
“Prima ti fidavi di me. Essere una spia è solo il mio lavoro… un lavoro pericoloso e con conseguenze letali ma che faccio per il bene di tutti, soprattutto per il tuo!”, gracchiò, per non urlare e non farsi sentire da nessuno. Ash si sentì male per l’offesa che gli aveva fatto, ma in fondo lo conosceva e non poteva più fidarsi come un tempo.
“Non sei sempre stato dalla nostra parte. E non si finisce mai bene quando si cambia alleati…”, cercò di parlare mentre un nodo alla gola la lasciava muta.
Il tuo amico ti ha tradito… sei sola!
“Sono sempre stato con voi! Solo che non potevo dirtelo. Non sono mai cambiato davvero, lo sai. Quello che loro fanno…”, provò a spiegarsi.
“Avrebbe potuto obbligare te a farlo di nuovo. E un’altra vita se ne sarebbe andata, come la sua. Perché Lei se n’è andata, Edmund! E’ morta e non tornerà mai indietro ed è solo colpa di gente come te che lavora all’oscuro di tutto e tutti! Gente su cui credi di poterti fidare ma in realtà commetti l’errore più grande della tua vita”, urlò senza paura Ash, per poi ammutolirsi e allontanarsi da lui, mentre un ricordo la spezzava in due… di nuovo. “E io ho sbagliato a fidarmi di uno che fa lo stesso lavoro di quello che ha ucciso una delle persone più importanti della mia vita”.
“Allora, piccola stupida… di te cosa ne facciamo?”, disse una voce maschile, lenta, come trascinata. Aveva un tono di voce basso, come se la volesse cullare, ma quell’uomo era tutt’altro che buono e dolce.
Le sue mani erano sporche di un assassinio, e i suoi vestiti erano impregnati dell’odore della morte. Le faceva venire il voltastomaco.
Ash provò a concentrarsi, per difendersi da quell’uomo orribile, ma l’unica cosa che ottenne fu un piatto rotto al suo fianco, con cui per sbaglio cadde e si tagliò anche il polso.
Dalla ferita, pian piano e gocciolando, uscì parecchio sangue, che man mano le sporcava il vestito arancione che si era messa. Piccole gocce rosse, che cadevano con una lentezza infinita si posavano su quella stoffa, rendendola dannatamente impura.
Provò a non pensare al dolore provocato dalla ceramica tagliata, che sembrava perforarle la mente e il corpo come mille foglietti di carta, e gattonò lontano dalla voce, con fatica.
Davanti a lei c’era una porta sconosciuta, in cui pensò di trovare rifugio, ma non ci arrivò mai.
Scivolò con la mano tagliata su un liquido denso che pioveva dalla maniglia della porta e scorreva sotto di essa, ritrovandosi il polso doppiamente sporco e la guancia bagnata. Ma sempre della stessa lurida e impura sostanza.
Lanciò un urlo, sperando che qualcuno arrivasse da dietro quella porta, ma sapeva che era sola e che lì dentro nessuno più respirava. Neanche uno l’avrebbe aiutata, neanche uno sarebbe venuto a salvarla.
“Oh, ora hai paura, piccoletta? Mi piace assaporare la paura prima di finire una preda”, sghignazzò quel pazzo, sempre lentamente, come se più lenta fosse la frase, più terrore avrebbe provato la bambina.
Si avvicinò a lei guardandola come se fosse un trofeo, e sul suo viso vigliacco si formò un sorriso. Aveva vinto, lui che tutto aveva sopportato, avrebbe finalmente avuto la sua vendetta.
Aveva solo bisogno di un ultima cosa: il sangue di quella creatura.
Intanto i capelli di Ash, man mano che lui arrivava più vicino, diventavano verdognoli e le sue gambe cominciarono a tremare. Rimase quindi seduta, su quel liquido dolente, sporcandosi completamente quel vestitino che con tanto amore le avevano dato. I suoi piedi non riuscivano a muoversi, il suo cervello non sapeva più donarle un pensiero ragionevole.
“Non ho paura di te”, sbottò infatti, senza credere nemmeno ad una parola di quello che aveva detto. Sua madre però le aveva sempre detto di mostrarsi forte, perché chi era debole sarebbe sempre stato una vittima.
“Non ne sei certa nemmeno tu, bambolina”, scoppiò a ridere lui, ormai cosciente di avere vinto, stavolta parlando più velocemente. Portò una mano verso di lei, facendole diventare i capelli verdi accesi. La paura cominciò a impossessarsi di lei. “Tutto il tuo corpo sa di avere una tremenda angoscia”. Accentuò ‘tremenda’e sorrise malefico.
Chiuse gli occhi, completamente spiazzata, sapendo che sarebbe finita lì, in quella stanza di sangue e morte. Lo fece così forte da farle perfino male, sussurrando solo ‘voglio andare da papà’, come ogni bambina impaurita che si rispetti.
E il suo corpo sembrò volare.
“Ringrazia di essere qui”, la osservò una donna che lei conosceva benissimo. Tutti la soprannominavano Sorrow, sebbene ovviamente non fosse il suo vero nome. Nessuno sapeva davvero come si chiamasse e Ash dubitava fortemente che qualcuno volesse conoscerla così a fondo tanto da domandarglielo.
“A volte preferirei essere morta con lei”, sbottò la ragazza, mentre il biondo dei capelli tornava insieme a qualche ciocca blu. “Almeno non dovrei rivederti. Brutte notizie?”.
“Sei sempre più simpatica, vedo”, rispose Sorrow, facendole segno di alzarsi dal fieno e andare al suo fianco. “Come è andato il viaggio?”.
“Ero su un carro per il trasporto di mucche, pieno di fottuto fieno grattapelle con lui… tu cosa ne dici?”, ribatté Ash sorpassandola. Conosceva la zona in cui l’avevano portata e molto probabilmente sapeva già anche dove Sorrow voleva condurla.
“Qualche anno addietro mi avresti ringraziato”, le fece il verso la donna, muovendo le lunghe mani smaltate di blu nei capelli neri.
“Ora non sono più la ragazza di qualche anno addietro!”, ripeté la stessa frase, quasi a prenderla in giro. Funzionò, visto che Sorrow smise di ridere e fece il broncio.
“Ti ha salvata”, rispose soltanto.
“Sapete dire solo questo ora? Siete monotoni”, cercò di rimanere calma la ragazza, mentre si puliva i vestiti da tutto quel fieno rompiscatole.
“E tu stai diventando maleducata come loro. Tua madre non avrebbe mai voluto una figlia così…”, cominciò a parlare la donna.
“Fottiti Sorrow, e non osare parlare di mia madre con me!”, urlò Ash, prima di farle un sano dito medio e sedersi pesantemente su una panchina lì vicino.
Alcune persone si voltarono a guardarla, ma non ci fece caso. Stazione del cazzo all’ora di punta! Sorrow fece un sorriso per scusarsi e lasciò correre.
“Hai finito di fare la bambina viziata? Noi dovremmo andare!”, disse innervosita Sorrow, mentre lei guardava il cielo di quel paese che anni prima aveva considerato casa sua. Un cielo blu, senza nuvole, che prometteva protezione e libertà. Sì, certo, libertà…
Rimarrai qui dentro in eterno, lurida combinaguai!
“Sorrow, faccio io”, sussurrò Edmund alla donna, che, inviperita, si voltò e se ne andò, facendo battere pesantemente i tacchi ad ogni suo passo, ma sempre con la sua grazia inaudita.
“Non devi fare nulla, se non seguirla e non rompermi le palle”, disse lei nervosa, tanto che un po’ di viola cominciò a colorare i suoi capelli.
“Stai perdendo il tuo noto autocontrollo, lo sai?”, sorrise lui, sedendosi al suo fianco e prendendo una ciocca di capelli, che pian piano ritornò bionda, mentre lei si calmava.
Maledetto lui e il suo fottuto potere che l’ammaliava!, diede in escandescenze nel suo cervello.
“E’ tanto che non venivo qui”, sussurrò più calma, sperando che lui non andasse via. Vero, era un pensiero stupido paragonato a quello che lui le aveva fatto, ma non riusciva a staccarsi dalla calma che le infondeva. Era sempre stato così, anche se lei si odiava per questo. Avrebbe preferito non vederlo mai più, invece che trovarsi in questa situazione.
Ma lui giocava su questo appositamente per mandarla fuori di testa.
“Non ti manca stare qui? Perché vorresti tornare da tutti quegli Incompleti?”, chiese, usando sempre quello stupido nome.
“Odio quando li chiamate così, smettila”, ribatté sbuffando e guardando un treno arrivare. Ormai quello su cui era stata l’ora precedente se n’era andato più veloce di come era arrivato.
“Ci sei troppo affezionata”, commentò Edmund.
“E tu non li conosci! È per questo che questo posto mi manca da morire ma non ci voglio tornare. Voi vi credete migliori di loro solo perché sapete fare i vostri stupidi giochetti”, spiegò lei, muovendo le mani per fargli capire meglio.
Un bimbo la vide e le sorrise, indicando a sua madre ciò che aveva fatto. La donna, forse riconoscendo l’oggetto delle risate del figlio, cominciò ad accelerare e superare Ash e Edmund.
Di certo non avrebbe potuto riconoscere lei, essendo troppo cresciuta dall’ultimo ricordo che i cittadini del paesino avevano, ma Edmund aveva la divisa dei nemici, sebbene avesse buttato il cappello da qualche parte.
“Anche tu sai fare questi stupidi giochetti. E non sono stupidi, Ash, possono anche uccidere!”, disse lui, piegando la testa verso di lei, notando una macchia nera sotto i suoi capelli, sulla scapola. Un tatuaggio?
“Questo non vuol dire che loro siano inferiori a noi, Edmund. Non abbiamo il diritto di giudicarli… e smettila di fissarmi così!”, gracchiò lei, per poi scoppiare a ridere. Quel discorso l’avevano fatto così tante volte da farle girare la testa e lo sguardo del ragazzo la metteva a disagio.
“So che non ti piace giudicare nessuno, quindi va bene, non li chiamerò più… come ho fatto prima”, decretò il ragazzo, sorridendole, per poi indicare la macchina. “Non l’hai fatto sul serio, vero?”.
“Perché non avrei dovuto?”, domandò Ash con un sorrisetto vincente.
“Perché è un fottuto tatuaggio vero! Sai che potrebbe farti alla pelle, quel coso?”, si stupì lui, mentre lei alzava gli occhi al cielo.
“Sì, guarda, potrebbe uccidermi sul posto!”, sbuffò ancora. “Quanto sei melodrammatico Edmund! Ci sono cose che potrebbero farmi molto più male di un fottuto tatuaggio, ora come ora”.
“Anche Lay ne aveva uno sulla gamba e alla fine…”, si fermò all’improvviso, immaginando Ash al posto di quella ragazza. No, non poteva permetterlo.
“Quello di Lay era una tortura fatta con il veleno, questo è un tatuaggio normalissimo con inchiostro sano”, spiegò la ragazza toccandosi la scapola e mostrando la mano a Edmund. “Se lei lo toccava il suo veleno ammalava qualsiasi cellula a contatto, rendendola rosso sangue. La mia mano invece è intatta, quindi non c’è pericolo”.
“Va bene, va bene, hai vinto… come sempre”, disse lui facendole comparire un sorriso fiero in faccia. “Ma ora andiamo da Sorrow. La morte ha chiamato il tuo nome e non le permetterò di rifarlo un’altra volta”.
“Sei troppo protettivo, Edmund”, sbuffò lei, alzandosi in piedi, diretta al solito rifugio.
“E tu ormai troppo incosciente di quello che sei”, rispose il ragazzo. Come tutti, lui era a conoscenza di chi la cercasse e perché. Solo lei non capiva che era speciale.
Per lui era speciale in qualsiasi cosa facesse, ma per il resto del mondo era ancora di più.
Era diversa… diversa da chiunque in qualsiasi mondo andasse.
Era unica nella sua specie.
...
Note dell'Autrice:
mmmmm.... le cose si fanno complicate :D Spero che i ricordi di Ash non vi sconvolgano *era per questo che ho messo Contenuti forti* perchè non sono le ultime e nemmeno le più forti... ANZI!
Così va la vita, in questo caso la storia ma fa niente! Spero che vi sia piaciuto il capitolo e mi farebbe davvero piacere se lasciaste un commento, così... per sapere se sto facendo le cose per bene, se vi piace... o vi fa schifo anche! LOL
Comunque vi mando un abbraccione,
Ronnie02