Il Mistero Della Pietra Azzurra (Nadia Dal
Mare Blu)
Voglio (ancora) vederti danzare
Il mercoledì
mattina il cielo è più azzurro.
Così l’aveva salutato
un giorno di tanti anni prima. Erano in sesta, o in settima, non avrebbe saputo
dirlo. Non diede spiegazioni, e lui poté solo immaginare i suoi pensieri. Forse
perché si poteva alzare più tardi, quando il sole era già alto. O forse proprio
perché poteva permettersi di svegliarsi presto per vedere l’alba, e tornare poi
a dormire più tardi.
Non aveva
aggiunto altro, e lui era rimasto a fissarla, mentre lo precedeva entrando a
scuola. La tracolla marrone con solo i libri delle lezioni pomeridiane1, i capelli neri fino alle spalle, e quella
sua andatura sognante ed evanescente, come se lei appartenesse ad un mondo
diverso da questo...
* * *
- L’ultimo
sabato di giugno c’è la festa delle prime per la fine definitiva della scuola,
in quel locale dove prendono sempre le scolaresche… ehm… Cielo, mi sono
dimenticata il nome!
Nadia si sedette
nel posto vuoto accanto a Jean, durante l’intervallo
mattutino di uno degli ultimi giorni di scuola, le gambe allungate sotto il
banco, abbandonata contro lo schienale.
Lui annuì;
evidentemente lo stavano decidendo in quel momento e Nadia si era
opportunamente intrufolata tra gli organizzatori.
- Ci vieni con
me, – riprese Nadia – o vuoi provare a chiederlo a
qualcun’altra… E’ l’ultima festa…
- No, no… Non ho
nessuna intenzione particolare… Facciamo come al
solito.
- Ok, allora vado a confermare la nostra presenza.
Sgusciò fuori dal banco con quella flessuosità e quell’eleganza
che soltanto lei in tutta la scuola aveva. Sembrava avere piena padronanza del
suo corpo, una tale confidenza da rendere armonioso anche il gesto più banale.
Jean restò a guardarla mentre
tornava al lato opposto dell’aula e scambiava due parole con i rappresentati di
tutte le classi prime; si sedette su un banco, ascoltando tutti gli altri
particolari da sapere; si ravviò i capelli dietro le orecchie, iniziando a
dondolare le gambe a penzoloni; qualcuno fece una battuta e lei scoppiò a
ridere, portandosi una mano alla bocca.
Solo quando
suonò la campana della fine della ricreazione, Jean
si accorse di non essersi perso un solo suo movimento, totalmente dimentico del
libro di inglese che lo aspettava per l’ennesimo ultimo disperato ripasso.
Per loro era
normale fare coppia fissa. Si conoscevano fin da tempi immemori, amici
d’infanzia e compagni di classe; nulla si era mai messo fra loro, nemmeno il
muro che divideva due aule diverse. Quando erano iniziate le feste con i
coetanei, un po’ perché era naturale, un po’ per vincere l’imbarazzo, avevano
iniziato a frequentarle insieme. Col tempo avevano finito col formare una
specie di coppia, con l’unica differenza rispetto alle altre di non avere
l’abitudine di sparire a metà festa per una sano e intimo
scambio di baci.
Le uniche
circostanze vagamente simili erano tutte imputabili al caro vecchio gioco della
bottiglia, all’epoca dei loro ingenui – ma non troppo – dodici anni. Un
semplicissimo bacio a stampo, che Nadia gli aveva dato dopo essersi alzata con
naturalezza dal cerchio che formavano con gli altri ragazzini, come se lo
stesse baciando sulla guancia. Lui, imbarazzato più da quella pubblica
manifestazione della loro confidenza che del bacio in sé; lei, che lo aveva fatto
senza nessuna malizia, come se quel gesto avesse esclusivamente per loro tutt’altro significato.
Poi, quando
erano più grandi, era capitato altre volte; l’iniziativa sempre di Nadia, era
solo un modo di salutarsi dopo un periodo di vacanze o di ringraziarsi per un
regalo.
Inoltre Jean non aveva più cotte dai primi anni di scuola, quando
non si pensava certo di frequentare l’oggetto dei propri pensieri, ma bastava
guardarlo, regalargli una gomma colorata e ridere alle sue battute. Nadia,
invece, pur apprezzando vivamente ogni ragazzo carino le capitasse
sott’occhio, non riusciva mai a trovare un buon motivo per innamorarsi, erano
sempre su due lunghezze d’onda diverse.
Ma soprattutto erano
amici. Insieme stavano bene, si sentivano a loro agio; potevano, parlare,
scherzare, confidarsi. Avevano un’ottima intesa e tutto quello che facevano
insieme sembrava sempre più divertente, o meno triste, o meglio riuscito.
Così, volenti o
nolenti, avevano finito col formare una coppia.
Il sole
pomeridiano splendeva allegro sulla Parigi di fine maggio, costringendo gli
studenti che stavano uscendo da scuola a cercare le strade più in ombra. Nadia
si portò subito una mano sulla fronte per ripararsi gli occhi, mentre riferiva
a Jean gli ultimi dettagli della festa di fine anno.
- Sperando che
tutti abbiano da festeggiare, dopo gli esami… – concluse la ragazza, mentre
l’entusiasmo calava visibilmente.
- Stai tranquilla,
se c’è qualcuno a rischio non sei tu! Non hai mai preso nemmeno una insufficienza!
- Infatti non è per me che mi preoccupo… Pensa che tristezza
se noi fossimo lì a divertirci mentre altri sono a casa in lacrime!!
- Decisamente
deprimente… - confermò.
Nadia sbadigliò
coprendosi la bocca con una mano, mentre l’altro braccio si allungava flessuoso
sopra la sua testa con l’intento di stiracchiare tutto il corpo.
- Andiamo in
piscina un giorno di questi?
- Ma abbiamo
- Vattene al
diavolo! Io lì non ci entro, è più sporco di un pozzo nero!!
- Infatti scherzavo… - precisò – Facciamo sabato questo? Così
facciamo via tutto il giorno.
Nadia annuì, i
capelli sottili seguirono docili il movimento della testa.
- Tanto non è
una giornata che determinerà l’esito del mio esame!
- Guarda che il
mio progetto di fare la secchiata domenica fin dalle otto del mattino è ancora
valido…
- Ah… Che bello…
- commentò con manifesto sarcasmo – Beh, allora fermati direttamente a dormire
da me! Ai nonnini non darà fastidio. Credo… Dai, passa da me che glielo
chiediamo!
- Perché dovrei
esserci anch’io?
- Così possiamo
organizzarci in un’altra maniera…
- Non abbiamo
tante opzioni, o disturbo o non disturbo…
- E allora passa
da me per un thè! – concluse spiccia.
- Nadia…
- Che c’è
ancora?
- La stazione della metro è di qua…
Erano ad un
incrocio e Jean stava indicando la strada a sinistra,
mentre Nadia, di due passi avanti a lui, stava tirando dritto.
- Visto, sei
stressante! – provò a giustificarsi.
- No, sei tu che
sei perennemente stordita!
- Ora sono
offesa! – protestò fermandosi lì dov’era.
Jean si voltò sospirando – Dai, che perdiamo la metro!
- Sono offesa lo
stesso! – continuò a prenderlo in giro.
Senza preavviso,
lui le afferrò la mano e prese a correre; Nadia, che non se lo aspettava,
incespicò per i primi passi, ma ci mise poco a metterglisi
a fianco – del resto non aveva mai perso una gara, lei.
Aveva una mano
piccola, che stava perfettamente in quella di Jean,
mentre gli correva accanto, le gambe scoperte dalla gonna a pieghe, slanciate e
sottili. La strada, gli scalini verso il basso, la banchina e poi un piccolo
salto per riuscire a prendere il convoglio in attesa
di ripartire. Jean inchiodò mentre
il vagone iniziava a sferragliare e le porte si chiudevano, così Nadia gli
sbatté contro, sul braccio.
- Scusa… - biascicò mentre le veniva naturale posare la mano libera
sulla sua spalla per staccarsi e rimettersi in equilibrio.
Da quando le loro
mani non erano più grandi uguali? E da quanto le loro spalle non potevano più
toccarsi per la lunghezza di una spanna?
- Figurati… -
mormorò, a causa del fiatone. Nadia invece sembrava appena tornata da una
salutare passeggiatina in campagna.
Trovarono due
posti a sedere vicini, e le loro consuete chiacchiere tolsero dalla testa di Jean ogni inusuale pensiero.
Meno di venti
minuti dopo, davanti alla fontanella a rubinetto anziché separarsi, i due
svoltarono a sinistra, verso la casa di Nadia.
I “nonnini” con
cui viveva erano una coppia di anziani che da sempre l’aveva cresciuta. Non
avevano mai avuto figli loro, eppure in compenso c’era una grande passione a
colorare le loro vite: il circo. Avevano iniziato come
acrobati, ma con gli anni e con l’impegno erano riusciti a formare la loro
compagnia ambulante. Nadia gli era letteralmente piovuta dal cielo durante una
tappa nei pressi di Digione. Una sera, dopo uno
spettacolo, quando il tendone si era già svuotato, la signora l’aveva trovata
addormentata e accovacciata su una delle panche degli spettatori. Se ne
innamorò a prima vista. La portò subito nella loro roulotte, quando si svegliò
si premurarono di darle qualcosa da mangiare e cercarono di ricavare tutte le
informazioni possibili che si possono ottenere da una
bambina così piccola. Seppero che si chiamava Nadia, che le piacevano i gatti e
quando le chiesero l’età rispose “Così!” mostrando il dito indice, il medio e
l’anulare alzati – che strano modo per indicare il tre, pensarono subito.
Nei giorni successivi
indagarono, ricercarono e si informarono, ma nessuno aveva denunciato la
scomparsa di una bambina, né ai comuni intorno, né nel quartiere nero o nel
campo nomadi alla periferia di Digione. Dopo un mese,
scaduta la tappa, decisero di partire con la piccola Nadia, considerandola una
specie di piccolo angelo sceso a completare la loro già felice vita.
Nadia crebbe nel
circo. Non si esibì mai, ma era in grado di competere con tutti gli artisti che
lo formavano. Il suo compleanno divenne il giorno in cui era stata trovata, e
l’amore per i gatti si evolse presto in quello per i leoni. A otto anni era già
in grado di ammaestrarli, benché non fu mai lasciata
sola con loro.
Doveva compiere
dieci anni quando il nonnino, che ormai da tempo aveva
smesso di esibirsi, cadde dalla scala mentre sistemava la scena. Si ruppe solo
una gamba, ma il fatto fece capire ai due proprietari che era tempo di
dedicarsi ad altro. Avere un circo senza poterlo vivere, senza poter
partecipare un poco alla sua vita non aveva senso per loro, così lo chiusero,
congedando tra le lacrime generali i dipendenti. Scelsero di stabilirsi a
Parigi, la città dove si erano conosciuti, quasi mezzo secolo
prima e presero una casa a pochi metri proprio da quella dove viveva un
bambino con i capelli chiari e gli occhiali tondi.
Jean, invece, praticamente era cresciuto con
gli zii di suo padre. La madre, che viveva con lui, soffriva da sempre di
cuore, e le erano tristemente più familiari le tende bianche dell’ospedale che
quelle rigate della stanza di suo figlio. Il padre, arruolato in marina, era
stato dato per disperso quasi dieci anni prima, al largo delle coste sud
Americane. La notizia non aveva fatto che peggiorare definitivamente le fragili
condizioni della moglie, e reso ancora più mite e insicuro un bambino che
sentiva tanto la mancanza del suo papà.
Jean prese l’abitudine di giocare da solo nella
strada sotto la palazzina, eccezion fatta per le rituali visite di cortesia di
cugini e parenti, mai attese con particolare trepidazione. Se non altro, gli
zii paterni si erano trasferiti sotto il l’appartamento
suo e di sua madre, per “Non lasciar sola la povera Delphine”,
ma Jean aveva imparato col tempo, man mano che
crescendo somigliava sempre di più a suo padre, che anche loro avevano
cercato solo la consolazione per la perdita di un nipote amato come il
figlio mai avuto.
Accadde una
sera, quando il sole stava ancora tramontando, l’estate prima di iniziare la
settima. Durante uno dei suoi giochi solitari, Jean
vide una bambina scura molto graziosa, che lo guardava accanto alla fontanella.
Non poteva
immaginare che insieme al sole stesse tramontando
anche la sua solitudine.
Nadia posò un
bicchiere di the prelevato direttamente dal frigor
davanti a Jean, seduto al tavolo della cucina.
- Ma dove saranno
andati? – si lamentò la ragazza, sedendosi anche lei al tavolo.
- Tu non bevi?
- Mh? No… Aspetto che tu te ne vada
per attaccarmi come un rozzo alla botte di birra nascosta in cantina… – rispose
lei in tono discorsivo. Jean le fece una smorfia: lo prendeva
sempre in giro!
- Quindi?
- Quindi
aspettiamo che tornino… Saranno andati a fare la loro passeggiatina salutare,
del resto “dopo una carriera come la loro non possono certo rammollirsi in un
quartiere residenziale di Parigi!” – la perfetta imitazione del tono logico
della nonnina fece sghignazzare Jean – Come se
vivessimo tra ville e campi da golf!
- Bé, le fabbriche di certo non ci sono – commentò lui; Nadia
fece spallucce – Quanti anni hanno, ormai? – chiese poi di punto in bianco.
- Claud sessantasette, Agathe sessantatré – rispose sicura.
- Bé, non sono poi così tanti come sembrerebbe… -
Nadia lo fisso con fare scettico e Jean
si accorse di aver detto qualcosa che non andava; in un lampo comprese e tentò
di correggersi – Cioè, non intendevo che
loro sembrano vecchi, ma che il numero dia quell’impressione…
capito? Cioè… ho messo male la frase…
In quel momento
sentirono la porta d’ingresso aprirsi e sul volto di Nadia comparve un sorriso
da iena, di quelli che teneva da conto solo per lui.
- Nonna! – urlò
per farsi sentire fin nell’atrio – Jean ha detto che sembri vecchia!
- Douch… Non è ver-
- Oh, bé, non è che sia andato poi tanto lontano dalla realtà… E
poi ciò che conta è lo spirito! Voglio vedere te, alla mia età! – Agathe entrò in cucina con ancora le chiavi di casa in
mano. Aveva i lunghi capelli grigi raccolti in una crocchia e un paio di scarpe
da tennis che stonavano disinvoltamente con l’abito di cotone che indossava.
- Ti odio… -
muto, solo con le labbra Jean espresse i suoi
immediati sentimenti.
- Anch’io! – con
il labiale e un sorriso, Nadia gli rese noto che lo
corrispondeva appieno.
- Com’è andata
oggi a scuola? – chiese la donna, chinandosi a baciare su una guancia la
nipotina accoccolata sulla sedia.
- Bene, abbiamo deciso
finalmente per la festa di fine anno e io e Jean
abbiamo deciso di andare in piscina tutto sabato prossimo…
- Oh, che bello…
- commentò spassionatamente Agathe mentre cercava un bicchiere per versarsi dle the.
- …e siccome
domenica volevamo studiare tutto il giorno, Jean può
fermarsi a dormire per comodità?
- Ma anche per
diletto, non solo per comodità! – scherzò – Lo sai Nadia, basta dirmelo e io ti
preparo la branda in camera tua. Tra parentesi, dopo scendi ad aiutare il nonno
a portar su le cassette di frutta dalla cantina? La accompagni anche tu, per
favore, Jean?
- Certamente! –
ripose lui, ci sarebbe mancato altro! Quante volte l’aveva fatto? – Grazie Agathe – aggiunse poi, mentre Nadia annuiva per partecipare
ai ringraziamenti.
- Oh, ragazzi – rispose
lei, prendendoli in giro con un tono appassionato – lo sapete che non voglio
altro che vedervi sposati!
Nadia scoppiò
subito a ridere a quel vecchio ritornello che tornava sempre ma in salse
diverse; Jean la seguì a ruota, ma aveva la strana
sensazione di sentirsi ridere dall’esterno, come se in realtà lui fosse rimasto
li’, a fissare Agathe come
un ebete.
*
L’acqua era
limpida e trasparente, illuminata dai fasci di luce che piovevano dai lucernari
e dalle finestre. La superficie era irrequieta e cangiante mentre raccoglieva e
rifrangeva i raggi di luce.
La piscina
olimpionica era al coperto, perché in inverno, i corsi di nuoto si tenevano li’; ma data la splendida giornata che nulla aveva di
invernale, tutta la folla di bambini e ragazzi aveva preferito quella più
piccola in mezzo al prato oltre le porte a vetri. Nadia aveva voglia di fare
qualche vasca, così avevano lasciato la confusione esterna per rintanarsi
dentro. Seduto sul bordo, Jean la osservava muoversi
sott’acqua come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita. Solo ogni tanto
metteva le gambe a mollo per rinfrescarsi. Il resto
del tempo lo passava fissando quella specie di sirena che gli nuotava davanti.
Aveva imparato a
muoversi nel circo, in un mondo diverso da questo, un mondo parallelo, che
trova contatto con l’altro solo negli spettacoli. Senza un luogo fisso, aveva
le proprie leggi sia sociali che scientifiche: l’arte, le acrobazie, lo
spettacolo, l’incredibile. Forse era per quello che Nadia pareva sempre staccata
dalla realtà che la circondava, come se davvero provenisse da un altro mondo.
Aveva qualcosa
di perfetto, di armonioso. Elegante. Sottile, ma
lontana dalla magrezza spropositata di alcune ragazze a scuola; delicata, ma
senza avere nulla a che fare con la fiacchezza di muscoli che tante sue
coetanee accusavano.
Anzi, era
decisamente forte. Nascosta sotto la sua pelle scura, affusolata come lei,
aveva la forza necessaria a gareggiare coi ragazzi sia in resistenza che in
potenza. Quella stessa pelle, ora dorata dal sole e dall’acqua, che lui aveva
toccato infinite volte percependo solo rassicurazione, di quel colore stupendo
che non aveva mai ritrovato in altri. Aveva stretto quelle mani così piccole e
così grandi nello stesso momento.
Quelle mani che
aveva paura di non riconoscere da un momento all'altro.
E la strana
sensazione che non fossero loro a cambiare, non in quel momento almeno. Forse
era già successo anni prima...
Coi capelli
incollati al suo bel visino, Nadia finalmente emerse dall'acqua, e nuotò a rana
verso Jean.
- Hai un modo di
nuotare molto naturale, come se non facessi nessuna fatica - commentò Jean senza pensare, e subito volle ingioarsi
la lingua.
- Grazie... -
rispose lei dopo un istante, spiazzata da una considerazione che non si aspettava;
troppo, in un certo senso, formale per loro due.
- Dai, entra
anche tu! E' bellissimo, non c'é un'anima, puoi fare quello che vuoi! - lo
esortò poi.
- No, qui non
tocco! - finse di lagnarsi.
- Và che ti tiro
giu'...
- Non lo farai!
- Lo faro'! Ti tiro giù!
- Direi no...
- Ok... - Naturalmente non lo ascoltò, e sislanciò fuori dall'acqua quel
tanto che bastava per afferrarlo e tirarlo in acqua senza massacrarlo.
Jean finì in piscina senza opporre resistena - sarebbe stato inutile, ormai l'aveva
sbilanciato - e riemerse in tutta fretta, per uscire e posare accanto agli
asciugamani gli ochiali da vista.
- L'hai voluto
tu! Scegli: o ti soffoco sta notte o te la faccio pagare domani durante il
ripasso...
- Perché non mi
affoghi direttamente qui? - chiese lei, muovendosi per mantenersi a galla.
- Perché senza
occhiali non vedo un accidenti! - Nadia scoppiò a ridere
mentre constatava che comunque ci vedeva abbastanza per tuffarsi in acqua.
Entrambi a mollo, ridendo come pazzi, parvero eleggere a loro obiettivo
l'eliminazione fisica dell'altro...
*
Gli esami erano
venuti ed erano passati, con una velocità che sembrava volersi fare beffe degli
sforzi e dell’impegno di tutti loro. Il giorno dei risultati si fece attendere
in una agonia generale, che andava dall’assurda
curiosità di qualcuno all’autentica ansia di qualcun altro.
Finché un
mattino verso la fine di giugno, senza tante cerimonie, la segretaria espose i
tabelloni su dei pannelli nell’atrio della scuola. Qualche povero studente
pellegrino, nell’ennesimo suo viaggio, finalmente li trovò e nell’arco di tre
quarti d’ora – telefonate, sms, visite, addirittura
qualcuno fu così veloce da inviare mail – tutti
gli studenti delle cinque sezioni delle prime brulicavano nell’ingresso.
Davanti ai
risultati c’era una vera e propria ressa, mentre appoggiato alle pareti c’era
qualcuno che piangeva, consolato dagli amici, qualcun altro che camminava avanti
e indietro nervoso, senza il coraggio di andare a vedere un voto che si spera
alto o che si spera almeno poco più che sufficiente. L’aria era piena dei
commenti dei ragazzi; le voci si sovrapponevano e quasi si confondevano le
risposte alle domande urlate da un capo all’altro dell’atrio.
- Ti prego,
guarda anche me e poi dimmelo!
- Promossa,
promossa, promossaaa!!!
- Sei uscita col
massimo!!
- Non è giusto,
dannazione, non è giusto!!
- Non ci credo…
- Dimmi se leggi
quello che leggo io?
- No…!
- Siii’!!!
Nadia e Jean aspettavano che la folla li sospingesse più vicino al
tabellone della loro classe, che la gente davanti a loro – dopo aver urlato
come aquile o pianto come bambini – si spostasse pian piano.
Quando furono a
un paio di persone di distanza, Nadia riuscì a sgusciare fra i compagni e a
ritagliarsi un po’ di spazio davanti al pannello, almeno per respirare! Lanciò
indietro uno sguardo a Jean per fargli capire che
l’avrebbe aspettato, e lui annui’. Nadia fece
scorrere le dita affusolate sull’elenco dei nomi, fermando l’indice e il medio
sotto i loro nomi, a poca distanza l’uno dall’altro, nella seconda metà
dell’elenco. Le unghie lunghe e regolari, dipinte di un rosa tenue che
contrastava così bene col colore della mano, strisciarono dritte sulla carta
fino ad arrivare ai loro risultati che subito coprì con i polpastrelli.
Aspettò
arrivasse anche Jean, che non aveva tolto gli occhi
da quelle dita per tanti motivi, tutti così diversi e alcuni così poco chiari.
Si guardarono.
Quella era la prima prova ufficiale che affrontavano, per la quale avevano
sputato sudore e sangue. Non era quel voto a dire chi erano, questo lo sapevano
benissimo, ma restava comunque il primo parametro con cui il mondo – grande
vasto enorme – si relazionava con loro – piccoli soli emotivi – la prima
valutazione al loro modo di lavorare e affrontare le cose.
Jean ci teneva perché aveva sempre sinceramente
amato studiare, ma troppe volte non gli era stato chiaro se questa sua genuina
curiosità fosse stata premiata a scapito dello studio mnemonico oppure se fosse
stato il contrario.
Nadia ci teneva
perché voleva avere tutte le carte per far parte ufficialmente di quella Francia che tanto amava, ma che sembrava ancora
rifiutarla, lasciarla su un confine indefinito ad attendere chissà cosa.
Soprì i voti.
Nadia ne uscì
molto bene.
Jean fu eccellente.
E a detta dei
compagni c’era solo da aspettarselo. Convinti loro…
Non ci furono
stragi particolari, o elargizioni straordinarie di eccellenze. Alla fine, malgrado i piagnistei e le urla di gioia, le vere sorprese
furono poche: chi sapeva di ricevere una buona valutazione la ricevette, chi
sapeva di non aver fatto nulla per tutto l’anno, e anche prima, fu bocciato, e
chi sapeva di cavarsela vide per iscritto quanto
fosse in grado di cavarsela. Eppure vedere il proprio voto, corrispondesse o meno ai compagni novelli indovini, era sempre qualcosa di
emozionante, sia in positivo che in negativo.
Dopo aver
consolato qualcuno ed essersi congratulati con qualcun altro, quando la folla
di studenti iniziò a scemare, anche Jean e Nadia
presero la strada di casa.
- A conti fatti
sembra che tutti avranno da festeggiare… Cioè chi non è passato alla fine se lo
aspettava… - commentò Jean mentre uscivano dalle grandi porte a vetri.
- Già… - rispose
lei senza entusiasmo.
- Dai, Nadia… Lo
sapevi che era impossibile che venissimo tutti
promossi! Per qualcuno era lampante! Volevi lavorare tu al posto loro? Che si
svegliassero prima…
- In effetti non posso darti torto… Bé
almeno della nostra classe ci saranno tutti! – aggiunse con tutt’altro
tono.
- Ma se…
- Ha detto che
viene anche lui! Era l’unico che rideva della sua bocciatura…
- Bé, meglio che piangere… - considerò Jean
facendo ridacchiare Nadia. – Comunque complimenti!
- Grazie al mio personal training!!
– rispose lei alludendo al ruolo che Jean aveva avuto
negli ultimi ripassi.
- La testa è la
tua e la forza di volontà anche… Io ti ho solo rovinato un po’ di giornate, ti
ho fatta ridere, ed ho evitato che lanciassi i libri giù dalla tromba delle
scale del condominio, per poi seguirli… - Nadia rise ancora, contagiando poi
anche Jean.
Avevano già
passato i cancelli da un pezzo, erano per la strada che portava alla metro; era sceso il silenzio e Nadia si era fatta
particolarmente pensierosa. Il capo basso, i capelli fini scesi ai lati del
viso, le ballerine che scandivano i passi delle sue gambe asciutte e longilinee, che fino a qualche minuto prima avevano
saltellato per tutto l’atrio della scuola.
- Tutto ok? – chiese Jean ma senza ottenere
risposta.
Pochi secondi e
tentò ancora.
- Sei triste
perché è finito tutto? Guarda che abbiamo ancora il liceo e poi l’università da
fare insieme!! – il bisogno di vederla su di morale
gli fece dimenticare anche il vago imbarazzo che ultimamente gli era capitato
di provare quando si riferiva a un noi. Finalmente Nadia gli
sorrise, sapeva che sarebbero rimasti insieme ancora a lungo, era un
fatto incontrovertibile per lei, ma continuò a tacere e riprese a guardare la
strada che calpestava.
Dopo altri lenti
passi, prima dell’incrocio che lei, svagata, sbagliava spesso, Nadia parlo’.
- Non ho ancora
la cittadinanza francese… - Jean tacque, aspettando
che continuasse – Eppure amo
Aveva avuto problemi quando i nonnini avevano scelto di fermarsi a
Parigi e di mandarla a scuola – del resto Agathe non
poteva insegnarle tutto. Pare fossero troppo anziani per adottarla legalmente. Alla fine
tutto si risolse con un affidamento anziché un’adozione, e quindi la mancata
trasmissione della cittadinanza da Agathe e Claud a Nadia.
- E’ giusto… -
disse Jean inaspettatamente, e Nadia si voltò a
guardarlo sorpresa non offesa; ma lui continuò – Per te
Avrebbe voluto
urlargli Grazie, ma le semrava qualcosa di troppo banale. Così Nadia sorrise, non
solo con la bocca, ma anche con gli occhi, con il viso che si levò da terra,
con le spalle che si raddrizzarono, con le gambe e le braccia che ripresero
brio.
Sorrideva anche
la voce quando gli disse:
- Facciamo a chi
arriva prima alla fermata!
- No Nadia, no…
Lo sai che-
Ma lei già
correva un pezzo avanti; imprecando, Jean le corse
dietro, nell’illusione sempre nuova di riuscire a raggiungerla. Sulle strade di
Parigi, senza sbagliarne neanche una, col cuore leggero e il sorriso in faccia,
sotto l’alto sole di giugno, due ragazzi sfrecciavano fra i passanti. Nadia
sembrava fendere l’aria, e Jean non le staccò un istante
gli occhi di dosso.
*
E gira tutt'intorno la stanza
mentre si danza, danza.
(Franco Battiato, Voglio vederti danzare)
Non l’aveva mai
vista così bella.
E non era il vestito,
o il trucco leggero che aveva usato. Non erano i capelli resi ricci apposta per
quella sera, o i tacchi che la rendevano più alta.
Era la
situazione, l’insieme dei dettagli, l’atmosfera allegra e casinista,
l’espressione brillante che aveva in viso. Era ballare con lei, mentre le luci
colorate ruotavano sulle pareti del locale, mentre tutto intorno a loro si
muoveva e si lasciava andare. Era starle così vicino senza sentirsi in
imbarazzo dopo giorni, solo per divertirsi, e lasciarla avvicinare senza avere
l’istinto, seppur mai messo in pratica, di allontanarsi.
La voglia di
festa che si sentiva nell’aria era già sufficiente a ubriacare, senza bisogno
di toccare alcool. La musica non seguiva nessuno stile specifico, accontentando
un po’ tutti; mixata benissimo, tanto da non capire
mai bene quando la canzone che si stava ballando era
iniziata, tanto da non potersi permettere di dire “questa e poi basta” – perché
non c’era un “basta” – come avrebbe voluto fare Jean,
negli istanti in cui si ricordava di avere una milza dolorante. Nadia, invece,
pareva essere in grado di continuare tutta la notte, instancabile.
Eppure fu lei a
trascinarlo da parte ad un certo punto, per prendere qualcosa da bere.
Appoggiati a un bancone, illuminati a sprazzi dai getti di luce colorata, Nadia
gli urlò se era ancora vivo. Jean comprese più dal
labiale che dalla voce che a malapena sovrastava la musica. Invano, urlò che
stava resistendo; lei annui’.
- Andiamo? –
chiese Nadia non potendo permettersi di abbassare il tono, indicando con un
cenno della testa la pista e posando il suo bicchiere quasi vuoto sul piano.
- Vai tu… Io
arrivo dopo, intanto mi riprendo!!
- Si’, “resisti”… - lo prese in giro, e tornò verso la pista
riprendendo a muoversi.
A muoversi.
Voglio vederti
danzare
come le zingare del
deserto
con candelabri in testa
o come le balinesi nei giorni di festa.
Voglio vederti danzare
come i Dervisches Tourners
che girano sulle spine dorsali
o al suono di cavigliere del Katakali.
(Franco Battiato, Voglio vederti danzare)
E non avrebbe
desiderato altro. Restare li’, fermo, al bordo della
pista, e potersi permettere di spiarla mentre ballava, mentre si muoveva con
quel corpo che si era riscoperto a fissare troppo spesso in quelle ultime
settimane. Spiarla, senza sentirsi invadente, perché lei era li’, in mezzo alla pista, in mezzo al mondo, dove tutti, se
volevano, potevano guardarla. Ma in quell’istante
solo lui voleva.
Lei continuava
con naturalezza a ballare, tutti i suoi movimenti, unici e alieni, elevati
all’ennesima potenza, senza l’inibizione del luogo o del tempo, ma lasciati
andare sulla musica, sulle sue note e sui suoi ritmi.
E Radio Tirana
trasmette
musiche balcaniche, mentre
danzatori bulgari
a piedi nudi sui braceri ardenti.
Nell'Irlanda del nord
nelle balere estive
coppie di anziani che ballano
al ritmo di sette ottavi.
(Franco Battiato,
Voglio vederti danzare)
Tutta la musica
del mondo, tutte le sue danze, tutte le sue emozioni sembravano passare
attraverso di lei. Era il mondo la sua casa, ne era certo. Lei aveva qualcosa
di universale, di comprensibile in qualsiasi modo; sembrava rivolgersi a ognuno
in un modo che solo il destinatario poteva comprendere, ma contemporaneamente
restava aperta a qualcosa di infinitamente più vasto. Era rassicurante. Come
incontrare l’essenza di qualcosa di illimitato.
E intanto ballava,
ignara dell’intensità con cui due occhi la fissavano, o forse solo vagamente
cosciente di ciò. Vagamente cosciente di essere al mondo, in un tempo e i uno spazio ben precisi.
Nei ritmi
ossessivi
la chiave dei riti
tribali
regni di sciamani
e suonatori zingari ribelli.
Nella Bassa Padana
nelle balere estive
coppie di anziani che ballano
vecchi Valzer Viennesi.
(Franco Battiato,
Voglio vederti danzare)
Fuori dal tempo, fuori dallo spazio; categorie troppo
piccole per lei. Come racchiusa in un mito da raccontare, sembrava ballare da
sempre e che mai avrebbe smesso. Nella sua perfezione, la stessa sferica
perfezione che ha una storia conclusa, la sensazione di completezza che lascia
dentro.
Ma non era
statica. In lei c’era la tensione al futuro, verso il cambiamento, c’era il
dinamismo. Una spinta vitale che da sola si ricreava e si perpetuava. Un
dinamismo perfetto.
Gira tutt'intorno la stanza
mentre si danza, danza.
E gira tutt'intorno la
stanza
mentre si danza.
(Franco Battiato,
Voglio vederti danzare)
Sciolta sulla
musica, come se la stesse avvolgendo e lei si fosse abbandonata alle sue curve
e alle sue pieghe.
La amava, e
finalmente, guardandola ballare, se n’era accorto.
L’aveva sempre
amata, come amica, come sorella. Ora se n’era innamorato, di lei, del suo
carattere, dei suoi pensieri e delle sue idee, della sua testa e del suo cuore,
della sua anima e del suo corpo, dei suoi movimenti.
L’aveva vista
ballare e se n’era accorto, si era lasciato trascinare dai pensieri e dalle
sensazioni su di lei, pensieri così contorti e inusuali da avere l’impressione
che una volta finita l’ebbrezza della festa, se ne sarebbe
imbarazzato. O forse no.
Chissà come avrebbe
fatto a dirglielo. Chissà se gliel’avrebbe mai detto.
Ma in quel momenti gli bastava restare li’.
Voleva ancora
vederla danzare.
* * *
- Che ora abbiamo
fatto? – chiese Nadia, emergendo al buio ormai pallido della notte, fuori dal locale dove si era tenuta la festa. Sempre se
ancora di notte si potesse parlare.
- Credo siano le
cinque del mattino… cinque e un quarto… Ho lasciato a casa l’orologio…
- E’ un evento per
te…
- Ho passato le
ultime settimane a scandirmi anche i pasti… Non ne potevo più! – Nadia
ridacchiò.
- Devi averci
preso… Guarda, - disse indicando il cielo sopra di loro – si sta schiarendo.
Anche Jean alzò la testa verso l’alto e vide il cielo cangiare
lentamente in un azzurro sempre più chiaro. La maggior parte delle stelle che
quasi non si vedeva più. Camminarono per diversi metri con il naso per aria,
finché Nadia non si arrestò con un’esclamazione compiaciuta. Jean si fermò e guardò avanti, dove puntava lo sguardo di
lei.
- Guarda… -
mormorò, ma lui stava già guardando.
Nello squarcio di
cielo che due palazzi vicini permettevano di vedere, la luce rosata dell’alba
si stava levando, insieme a un delicato e pallido sole.
- Nadia?
- Sì?
Esitò, si diede
dello stupido, e scelse parole meno dirette per quello che
le voleva dire.
- Staremo ancora
insieme, vero?
Lei si voltò verso
di lui, staccando gli occhi dall’alba. Da quando era diventato così alto?
- Ma certo… Me
l’hai detto tu l’altro giorno, ricordi? Abbiamo davanti ancora il liceo e l’università…
Abbiamo davanti tutta la vita!
Si voltò anche lui
e le sorrise.
- Hai ragione,
abbiamo ancora tantissimo tempo.
Gliel’avrebbe
detto, col tempo, avrebbe saputo dirglielo.
Nadia ricambiò il
sorriso e tornarono insieme a guardare l’alba.
Dopo minuti, o
ore, o secoli, poco prima di rimettersi in cammino verso la
metro, quando il sole si era già staccato dal suo orizzonte parigino di
tetti e antenne, e il rosa nel cielo pian piano sbiadiva, Nadia parlò e Jean ricordò una sua frase antica come la loro amicizia.
- Sai… Anche la
domenica mattina il cielo è più azzurro…
Fine?
[1] Stando ai miei ricordi delle lezioni di francese
dei tempi delle medie, in Francia il Mercoledì c’è scuola solo il pomeriggio,
il sabato si sta a casa, le classi si contano dall’undicesima (6 anni) alla
prima (16 anni), successivamente ci dovrebbero essere il liceo o la scuola
professionale, le classi corrispondenti alle medie si chiamano collège,
mentre le altre non saprei… Il resto (date, esami, usanze) l’ho deliberatamente
inventato!
@@@@
BHA! BUBBOLE!!!!
Che emozione, (ieri) potevo postare
dall’internet point di Djerba!!! Ero lì vacanza ed ero indecisa se postare a casa con
calma, ma poi la cosa era troppo esaltante (come lasciare la ff in memoria su questo computer, imbucata in cartelle su
cartelle… Chissà se qualcuno la leggerà mai… Che ridere!!!) E ci ho voluto
provare… Ma stavo per partire per tornare in Italia, ero di fretta e ho
miseramente fallito… Quindi pubblico da casa, anche se dal computer di mia sore perché li mio ha perso internet… eheheh…
Giust’appunto, fra esami e vacanze con le amiche,
ho scritto tutta la ff praticamente là… Su una
tastiera franco-araba… Le lettere ci sono ma la
punteggiatura è sparsa in giro…
Che bello, pubblico ancora in
simultanea su manga.it e su efp…
(Ma da due file diversi per il codice html… Che
stress!!!) Ci sto prendendo gusto! Mi converrà
spicciarmi con le altre fic…
Bene, con questa fic
partecipo al 26° concorso su efp… Che me ne dite???
Per vostra gioia non ho intenzione di
aggiungere altro… Ho sonno…
Ciao Ciao!!!
Ps (non potevo aver già finito, no???): Di questa storia ci sarà sicuramente un seguito, che
poi era il progetto originale, me che per motivi di tempo non ho potuto
completare…