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Autore: a r e n    20/01/2013    0 recensioni
Sono tre brevi ricordi, tre stralci della vita di un ragazzo al quale non è rimasto altro che sperare in qualcosa di più bello. Sono le sue memorie, sconnesse e poco chiare, com'è giusto che il flusso dei pensieri sia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Te lo ricordi quando il mio nome è diventato Aoba?

Forse no, eravamo davvero tanto piccoli.

Ma io me lo ricordo bene, sai? Sono passati così tanti anni, ma quella memoria spesso si fa sentire come se quel momento fosse stato ieri. È stato il giorno in cui ti ho conosciuto, il giorno in cui tutto è cambiato.

Cercavi qualcosa in quel prato, ancora adesso è buffo pensare come io non mi sia interessato minimamente del tuo problema, concentrato solo a trattenere l’imbarazzo e poterti salutare.

Eravamo solo dei bambini, ma io era già un tale cretino.

Anzi, alle volte penso che da quel giorno io non sia cambiato di una virgola.

Sta di fatto che volevo conoscerti, a tutti i costi. Il tuo sguardo imbronciato era quanto di più interessante avessi mai visto nella mia, seppur corta, vita. Era magnetico, mi domandava, senza farlo in realtà, di avvicinarmi, di costringerlo a distendersi, magari regalare un sorriso.

Così ho preso in mano tutto il mio coraggio, e ti ho parlato.

Se ci penso ancora, rido.

Ti ho chiesto cosa stavi facendo tutto da solo in quel parco e tu mi hai risposto di farmi gli affari miei; ma mi ha forse scoraggiato questo? No! Per niente.

Il passo successivo è stato mettermi al tuo fianco, sorridendo, abbracciandomi le ginocchia e riprovarci. Te l’ho chiesto di nuovo, e tu mi hai scacciato via.

« Vai a farti un giro, fastidioso di un Aoba! ».

Ovviamente ti ho guardato come avessi detto chissà quale stupidaggine, e tu sei arrossito.

Sì, me lo ricordo perfettamente, è una di quelle cose che custodisco gelosamente dentro di me. Le tue guance si sono tinte appena, appena di un rosso amaranto e io ne sono rimasto folgorato.

Sì, se vuoi puoi ridere, anche se so che non lo farai perché sei tu ed è così inconsueto vedertelo fare che se succedesse, lo scriverei sul calendario come evento più unico che raro.

Ero davvero solo un poppante, ma credimi, è bastata quell'espressione imbarazzata a farmi decidere di non lasciarti più andare.

A quel punto hai voltato lo sguardo verso di me, e mi hai spiegato.

Erano i miei capelli, e quella doveva essere una specie di offesa. Sì perché in giapponese “Aoba” significa “foglia blu”, esattamente come i tuoi capelli, mi hai detto.

Ho riso, sinceramente divertito, mentre tu ti indispettivi e mi lanciavi addosso manciate di erba appena strappata da terra. Ho riso fino alle lacrime quel giorno.

Ti ricordi, dopo quel giorno? Ci siamo rivisti nello stesso posto, alla stessa ora, e tu mi hai chiamato di nuovo Aoba.

Ti ho amato dal primo istante, è chiaro sì?

Ero soltanto un moccioso, non sapevo il tuo nome e tu non sapevi il mio, ma ormai avevo già rimpiazzato “Koichi” con quel soprannome che avrebbe dovuto essere un insulto; anche se non puoi saperlo perché l’ho fatto dentro la mia testa, senza dirlo a nessuno.

Questa storia è sempre stata un segreto.

Credi che nessuno mi abbia mai chiesto “Ma perché Aoba?”, io ho sempre riso e deviato la risposta verso altri lidi.

 

 

 

Finché non sei arrivato tu.

A te non ho mai potuto mentire, non ci sono mai riuscito. Non so se siano i tuoi occhi, la tua espressione, o tu in particolare; ma so che non è possibile dirti anche la più stupida delle bugie. Non sarei nemmeno in grado di dirti che sono le tre e mezza, se l’orologio segna le tre e ventotto.

Non che io non ne sia in grado, sono bravissimo a mentire, cosa credi? Ma con te è diverso, non posso farlo, non posso e basta.

Forse è che non voglio.

Forse.

Ti ricordi quel giorno? Anche tu mi hai paragonato ad una foglia. Mi hai detto che ti sembravo una di quelle foglie verdissime aggrappate al loro ramo con tutta la loro forza.

Il ramo eri tu, l’ho capito solo adesso.

Io ho riso, tu mi hai chiesto perché.

Quel giorno ti ho raccontato la storia del mio soprannome, ti ho raccontato tutto. Soprattutto ti ho raccontato di lui, di chi mi ha chiamato per la prima volta “Aoba”.

Non hai detto nulla, hai solo smesso di usare quel nome, riprendendo a usare il mio vero. Mi credi se ti dico che erano anni che non lo sentivo pronunciare?

Dentro urlavi, l’ho capito solo adesso.

Il discorso che hai fatto dopo, quando io pensavo avessi già dimenticato tutto, mentre mangiavamo quella strana cosa che avevo cucinato e che non piaceva a nessuno dei due, mentirei se dicessi che l’ho capito per intero.

Mi hai detto che il paragone era perfetto, che io ero una fogliolina verde, piena di linfa vitale, aggrappata al suo ramo con tutta sé stessa, decisa a non staccarsi mai più.

« Arriverà l’autunno. »

Mi hai detto.

« Arriverà l’autunno, e appassirai. Tutto quello che sei stato, si ridurrà in briciole e quel ramo non sarà più casa tua. »

Se ci penso ora, tremo al pensiero.

Sono passati gli anni, io ancora non sono appassito e tu sei ancora il mio ramo.

Cosa può voler dire questo?

Non è mai arrivato l’autunno, oppure siamo riusciti a superarlo, anche senza accorgercene?

Non so risponderti, probabilmente non sarò mai in grado di dare delle risposte convincenti alle tue domande.

So che non dimenticherò mai quel discorso, soprattutto ora che mi sembra di capirlo in modo diverso, di interpretarlo finalmente nel modo giusto.

Pensa che buffo, io mi sono sempre reputato un parassita di quel ramo.

Sì, puoi ridere, ma so che nemmeno tu ti concederai questo lusso perché non ci troverai proprio niente di divertente in tutto questo.

Anzi, mi prenderai per scemo, ma in fondo lo sono quindi non mi offenderò.

Ti rubavo tutto, e lo faccio ancora, riempiendoti le vene di quel veleno che è il mio amore. Quell’amore morboso, ossessionato, opprimente… Lo stesso che ho capito troppo tardi aver colpito anche te, esattamente come la più contagiosa delle malattie.

Quante volte hai detto di odiarmi?

Ormai non le conto nemmeno più.

Ma sai, devo confessarti una cosa: io non ci ho mai creduto. O meglio, quelle urla venivano filtrate dalla mia testa traducendole, forse erroneamente, in  richieste di aiuto. Un aiuto disperato, che in qualche modo speravo di darti.

Forse mi sbagliavo, forse sbaglio tuttora ad abbracciarti subito dopo uno di quelli sfoghi.

Forse ti faccio più male di quanto non ti farei mandandoti via, ma devi capirlo: sono un egoista.

Un enorme egoista che ti vuole solo per sé, anche se dal canto suo non si dirà mai solo tuo.

Ma sono il tuo piccolo masochista, questo non dimenticartelo quando strazi la mia carne o mi gridi contro il tuo astio.

 

 

 

Sai a cosa stavo pensando, ora?

Pensavo a te.

Puoi ridere anche tu e credo che tu lo farai perché un sorriso non me l’hai mai negato.

Mai, nemmeno in quel giorno di pioggia che ha segnato l’inizio di tutto. Te lo ricordi, vero? Tu non lo sai, ma quel giorno è stato uno dei più difficili della mia vita.

Lo ammetto, non sono una persona con molti problemi e quando se ne presenta uno, anche piccolo, tendo a ingigantirlo.

Quel giorno ne è l’esempio più lampante.

Sedevo sotto la pioggia, e ti ho visto.

O meglio, tu hai visto me, quasi come avessi appena notato sul ciglio della strada un animaletto abbandonato. Probabilmente dovevo dare quell'impressione.

Ti sei fermato a parlare con me e hai ridato la luce alla mia giornata.

Quel giorno non ha smesso di piovere un secondo, ricordi?

Eppure per me è come ci fosse sempre stato il sole.

Mi hai detto spesso, dopo quel giorno, che la gente ti reputava strano ma sai, io non ti ho mai definito così. Non intenzionalmente. Per me non eri strano, per me eri speciale.

E lo sei ancora, in quel tuo modo di fare. Mi sei stato vicino, sempre, e non ti ho mai ringraziato abbastanza. Lo sai, possiedi un pezzo del mio cuore anche tu, sin da quando i nostri occhi si sono incrociati la prima volta su quello squallido marciapiede. Da quel momento, fino ad oggi, i miei sentimenti per te non hanno mai vacillato.

Mi hai chiamato “il ragazzo della pioggia” e credimi, tra tutti i soprannomi mai avuti, credo che questo sia il più azzeccato, insieme ad Aoba.

Io amo la pioggia, l’ho sempre amata.

Lei cade, su tutti, ricchi e poveri che siano, se ne frega se tu hai impegni o se quel giorno hai deciso di rimanere in casa. Non le importa se stai male o bene, lei cade.

Mi hai sempre detto che non basta un temporale a lavare via le lacrime, ma credimi, basta molto meno. Il tuo sorriso, ad esempio, riesce ad illuminare ogni momento buio.

 

Mentre scrivo queste cose penso a voi, che non le leggerete mai.

Non posso permettermi il lusso di esternare così i miei sentimenti, non posso farlo perché non sarebbe giusto.

E dire che ho aperto questo file solo per scriverci “Ti amo”.

 

Avete presente quei stupidi test? Quelli che dicono cose del tipo: “Il suo sorriso, la sua voce, i suoi occhi… non è stato detto il suo nome, ma sai perfettamente di chi si tratta.” Ecco, sarò strano io, ma non è un’immagine sola quella che mi appare davanti agli occhi.

 

In realtà c’era solo un’altra parola che volevo aggiungere dopo “Ti amo”, dopo la virgola.

Scusa.


   
 
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