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Autore: LilliSheeran    20/01/2013    6 recensioni
-Ren si voltò verso il corridoio e rimase fermo per qualche secondo, mentre stavo in silenzio e lo fissavo con aria di supplica. Supplicavo in silenzio che se ne andasse e mi lasciasse di nuovo sola. Colpì due volte lo stipite in legno della porta, con l’indice e poi sghignazzò inutilmente, senza farsi vedere ma sentire.
“Fammi sapere… Se ti serve qualcosa” chiuse nuovamente la porta e lo sentii allontanarsi verso il salotto.-
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo terzo.

Quella mattina mi svegliai prima del solito. Le prime luci del mattino si intrufolavano a stento fra le tapparelle quasi del tutto chiuse della  finestra e il ticchettio insistente dell’orologio sembrava essere l’unico suono che riempiva l’appartamento. Buttai un’occhiata alla piccola sveglia digitale che occupava una minuscola parte del comodino alla mia destra: 6.22 AM. Per qualche oscuro motivo quella mattina mi ero svegliata ad un’ora non fattibile di mia iniziativa. Avevo sonno, ma non riuscivo a riaddormentarmi.
Mi misi a sedere sul letto, poggiando la schiena alla testiera in ferro battuto. Sospirai e mi scostai una ciocca di capelli arruffati che mi ricadeva in pieno viso. Non avendo niente di meglio da fare, scesi dal letto e i miei piedi nudi si ritrovarono a fare i conti con il pavimento freddo in parquet. Infilai velocemente le pantofole che erano andate a finire sotto il letto e, alzandomi, raggiunsi la finestra e aprii la persiana. Quel giorno il cielo era ricoperto da enormi nuvole bianche, portatrici di neve e Londra era completamente distesa sotto un manto bianco.
Uscii dalla stanza da letto e, dopo aver scelto l’abbigliamento della giornata, entrai in bagno. Come i giorni precedenti, lo scaldino era ancora rotto. Tentai, invano, di farlo funzionare nuovamente: lo colpii un paio di volte con i pugni chiusi, ma a causa dei miei insignificanti polsi quel gesto servì a ben poco. Avvolta dall’area gelida di fine dicembre mi voltai verso lo specchio.
Non andare più a dormire con i capelli bagnati. Non andare più a dormire con i capelli bagnati. Non andare più a dormire con i capelli bagnati.
Presi una spazzola dallo sportello del lavello, mentre ripetevo mentalmente quel mantra strategico. Il groviglio di lana castano che avevo in testa aveva assunto una forma non definita e mi ci sarebbe voluto più del solito per tenerlo a bada; fortunatamente quella mattina avevo più tempo del previsto e, per la prima volta nella mia vita, mi sarei dedicata a me per un momento in più.
Qualche minuto dopo ero immobile davanti allo specchio, lavata e vestita. I miei capelli ricadevano lisci sulla felpa verde che avevo addosso e incorniciavano il mio viso che, a differenza degli altri giorni, era ancora più pallido. Una volta uscita dal bagno il rumore dell’orologio non era più l’unico nell’appartamento, e un odore inconfondibile di succo d’arancia aveva ormai invaso ogni zona della casa. Infilai in fretta le prime scarpe che mi capitarono a tiro e mi diressi verso il soggiorno. L’albero di Natale era già stato acceso, e luminoso risplendeva nel buio della stanza. Lo fissai ancora, come avevo già fatto per tutta la sera precedente, e mi incamminai verso la cucina. La porta scorrevole si mosse per qualche secondo, liberando una frazione di spazio sufficiente per permettermi di entrare nella stanza.
Ren era davanti ai fornelli e preparava quelli che, a vista, sembravano dei deliziosi pancakes. In tutta quella situazione non potei fare a meno di notare il modo in cui ogni tassello del puzzle risultasse messo al suo posto. Tuttavia tutto era assolutamente buffo e irreale: un ventiduenne che se ne stava, di prima mattina, a cucinare in un appartamento con addosso un paio di pantaloni di pile a quadri e una canottiera nera. Sorrisi involontariamente e mi schiarii la voce, mentre Ren canticchiava a basso volume una canzone degli Hall & Oates.
Un secondo dopo si voltò verso di me, mostrando involontariamente la spatola che aveva in mano ancora sporca di farina. Intanto il profumo di succo d’arancia e pancakes si diffondeva nella cucina e la luce del sole che, ormai, era quasi sorto entrava pienamente dai grandi vetri delle finestre.
“Ti siedi a fare colazione?” domandò dopo avermi osservata già vestita, in piedi vicino alla porta.
“Certo, mi fermo solo qualche minuto…”
In tutta fretta scivolai su una delle quattro sedie che circondavano il tavolino in ferro e mi sgranchii la schiena. Ren portò in tavola un piatto colmo di caldi e invitanti pancakes e, dopo aver spento i fornelli, si accomodò a tavola insieme alla sottoscritta.
In principio la colazione proseguì silenziosa, poi la voce roca e sbiadita di Ren, ancora intorpidita dal sonno, spezzò l’imbarazzante silenzio che si era formato tra noi.
“Hai parlato con Jake?” e prese un altro boccone di pancake imbevuto nel succo d’acero.
“Ehm, sì…” risposi ostentando. “Come hai detto tu, rimane da Anastasia per le feste…”
Ren annuì convinto. Mi sembrava fittizia la spontaneità dei suoi movimenti in mia presenza. Dal canto mio riuscivo a stento a presentare un discorso di senso compiuto davanti a lui, ma non ne capivo l’esatto motivo. A dire il vero ciò mi accadeva con ogni tipo di persona del sesso opposto al mio. Nonostante avessi avuto qualche storiella passeggera in passato, i rapporti con il genere maschile avevano sempre rappresentato un problema nella mia vita.
Io, Jake e Ren vivevamo insieme da due anni, ormai. In tutto quel tempo non ero riuscita ad instaurare un rapporto con l’amico di mio fratello che andasse oltre il saluto e la semplice sopravvivenza. Eppure, da quando mio fratello era andato via, le cose sembravano migliorare; quantomeno adesso riuscivo ad ottenere una normale chiacchierata fra amici senza sembrare una specie di menomata mentale.
Mentre riflettevo sui miei problemi esistenziali il tempo era già passato velocemente, e Ren aveva spazzolato tutto ciò che aveva nel piatto. Dopo essersi alzato e aver ritirato da tavola tutto ciò che gli era servito per colazione, infilò le stoviglie nel lavandino ed uscì dalla cucina. Infilai in bocca gli ultimi bocconi di cibo che erano rimasti in tavola, facendo del mio meglio per non dare di stomaco.
Avevo visto molte cose in Ren che non riuscivo a spiegarmi: la prima era come riuscisse a mangiare tutti quei pancakes senza che questi rovinassero il suo appetito; la seconda era come riuscisse a non sentir freddo, nella mattina del 23 dicembre, con una canotta addosso; e la terza era come riuscisse a preparare colazione, pranzo e cena senza che io me ne rendessi conto. Tornai in soggiorno e mi sedetti sul divano mentre mi concentravo sul rumore dell’acqua scorrevole proveniente dal bagno.
Dopo parecchi minuti, che a me sembrarono un’infinità, Ren uscì dal bagno e alcune vampate di vapore si sparsero per tutto il corridoio che collegava le camere da letto.
“Ma non dovevi andar via?” chiese affacciandosi dalla porta del soggiorno, con lo spazzolino in mano ed un asciugamano su una spalla. Annuii storcendo la bocca, consapevole del fatto che neanche io mi fossi resa conto di dover andar via. L’orologio segnava le 7.33. Le mie lezioni sarebbero iniziate circa mezz’ora dopo, e il viaggio che separava il mio appartamento dall’università durava circa venti minuti. Chiusi il portoncino di casa mia e scesi, giù per le scale, poi aprii il grande portone d’ingresso ed uscii.
Anche quel giorno l’aria gelida di dicembre colpiva pungente il mio corpo. Sferzava contro le finestre delle case, sulla terra mischiata alla neve, fra gli alberi, contro le automobili; scompigliava i capelli, accarezzava le foglie cadute a terra e faceva a gara con il volo degli uccelli.
Mi strinsi nella calda giacca che avevo addosso, e nascosi il viso nella sciarpa di lana. Corsi per il vialetto fino a raggiungere il mio maggiolone, che era in sosta in un parcheggio accanto al cancello d’ingresso. Nell’abitacolo si diffuse da subito una musica proveniente da una vecchia audiocassetta degli Extreme, lasciata nel lettore della macchina qualche giorno prima. Il motore dell’auto prese vita, producendo uno dei suoi soliti rumori fastidiosi, e dopo qualche minuto di capricci riuscii a partire.
Il mio maggiolone era in cattive condizioni ormai da qualche anno, ma mi rifiutavo di darlo via, venderlo, demolirlo, o in qualche modo separarmene.
Avevo già guidato per 11 minuti contati, quando mi fermai ad un semaforo rosso. Le macchine in coda davanti a me erano tre, forse quattro, e iniziai ad osservarle sperando che il tempo passasse più in fretta possibile. Il semaforo mutò colore poco dopo e tutte le vetture in coda ripartirono.
Alle 7.48 arrivai davanti all’imponente cancello della mia facoltà universitaria. Frequentavo la “Scuola d’arte” alla Birkbeck, University of London. Io, Jake e Ren frequentavamo facoltà diverse, ma nella stessa università; Ren frequentava quella di legge e Jake quella di scienze sociali, che aveva lasciato un anno dopo essersi iscritto, per la mancata voglia di studio.
 
Camminavo per i corridoi, in cerca della mia aula che, sfortunatamente, quel giorno era stata trasferita in un’altra sezione dell’università. Guardavo a destra e a sinistra, poi guardavo di nuovo il bigliettino che la donna in segreteria mi aveva lasciato fra le mani. AULA 17, ALA 3.
Per quanto ne sapevo io non avevo la minima idea di dove stessi andando e di dove mi trovassi. Al difuori della sezione della Scuola d’arte non sapevo come fosse suddiviso il resto dei corsi. Non conoscevo orari, luoghi, persone… Niente di niente. Era da dire che mai, prima d’ora, mi era capitato di dovermi spostare dal luogo in cui di solito trascorrevo la giornata, tuttavia quel giorno –a causa di un problema di condutture- ero stata costretta ad andare alla ricerca della fatidica AULA 17.
Affranta mi appoggiai ad una parete e mi passai una mano sulla fronte. Ero ormai in ritardo di quaranta minuti e avrei sicuramente perso la prima ora di lezione. Mio malgrado, però, il corso che stavo perdendo era uno dei più importanti che avrei dovuto seguire in quel semestre. Avrei, vogliosamente, chiesto aiuto alle dozzine di studenti che mi passavano davanti ogni minuto, se solo questi non fossero stati tanto impegnati nel correre da una parte all’altra. Li fissavo immobile, mentre i miei occhi vagavano da una testa all’altra.
Improvvisamente, qualcosa mi colpì la spalla e la tracolla che avevo appoggiata sull’altra scivolò in terra. Uno dei miei taccuini uscì da questa, mentre una voce dietro di me si affrettava a bofonchiare un confuso e banale “Mi dispiace…”
“Non ti preoccupare…” risposi con gentilezza, cercando di non sembrare nervosa, mentre mi sbrigavo a raccogliere alcuni fogli che erano scappati fuori dal taccuino. Mi portai dietro l’orecchio una ciocca di capelli che mi ricadeva sugli occhi, mentre ancora ero piegata sulle ginocchia e rinfilavo i fogli nella borsa.
“Julia?” chiese l’altro, quasi urlando. “Che ci fai qui?”
Mi fermai, cercando di fare mente locale e riconoscere la voce alle mie spalle. Mi alzai e sistemai di nuovo la tracolla su una spalla, poi mi voltai cercando di riordinare i capelli. Ren era in piedi davanti a me.
Mi stupii della domanda che mi aveva appena rivolto. Sebbene quella non fosse l’area dell’università che frequentavo di solito, non pensavo che si sarebbe stupido in tal modo se mi avesse visto girare per quei corridoi. Aggrottai le sopracciglia, mentre tenevo involontariamente lo sguardo fisso sulla maglietta a righe bianche e blu che Ren aveva addosso.
“Qualcosa non va?” chiese subito dopo, appoggiandomi una mano sulla spalla libera.
“No… Cioè sì…” farfugliai “tutto bene…”
“Allora? Che ci fai qua?”
Prima che potessi rispondere Ren venne affiancato da un alto ragazzo biondo, che avrebbe potuto avere più o meno la sua età. Il tipo gli strinse la mano e sussurrò qualcosa di indecifrabile all’orecchio, poi mi guardò, sorrise e scappò via.
“Ehm… Hanno spostato l’aula dei mie corsi oggi… Dovrei andare all’ALA 3, ma non ho la più pallida idea di dove sia!”
Feci per guardarmi intorno e Ren rise. Lo guardai infuriata; in quel momento avevo bisogno di una mano, mentre lui se la spassava per qualcosa che era assolutamente oscuro alla mia mente, ma che probabilmente lo divertiva.
“Lo trovi divertente?” domandai avvicinandomi a lui.
“Vedi…” iniziò “il fatto è che… L’ALA 3 è andata a fuoco quindici anni fa!” concluse divertito. Spalancai gli occhi. Le cose erano due: o la responsabile in segreteria si era divertita a farmi passare per un’idiota, oppure quella donna aveva qualche problema di memoria –tipo Alzheimer o che so io- e non aveva minimamente ricordato che l’ALA 3 fosse andata a fuoco.
“PERFETTO!” gridai, lasciandomi scivolare lungo il muro. Subito dopo Ren si sedette accanto a me e iniziò a preparare una di quelle sigarette fatte in casa, che avevo imparato a chiamare “Drum”. Fu inevitabile il fatto che qualche secondo dopo l’odore dell’acqua di colonia di Ren mi raggiunse; era un misto tra il profumo che usava Jake (e che probabilmente aveva lasciato a casa) e un altro a me sconosciuto. Sorrisi involontariamente pensando a mio fratello e, pochi secondi dopo, il profumo di Ren venne accavallato dall’odore forte e amaro del tabacco che aveva fra le mani.
Un venticello tenue entrava dalla finestra lasciata aperta di fronte a noi e gli scompigliava il ciuffo corvino perfettamente tenuto a posto. Qualche fiocco di neve cominciava già a scendere e ricopriva le impronte dei passanti formatesi sull’asfalto. Ormai i corridoi erano vuoti e io e Ren eravamo le uniche persone in giro nel raggio di qualche metro.
“Se vuoi ti accompagno… Ovunque tu debba andare…” disse prima di iniziare a leccare una parte della sigaretta fatta in casa.
“Ehm… Ok, grazie” risposi insicura. Entrambi ci alzammo e ci incamminammo verso la sua aula, una volta arrivati lì avremmo chiesto informazioni. Mentre camminavamo in silenzio il mio cellulare squillò dalla tasca anteriore della tracolla. Questo produsse un suono stridulo e secco, prima che aprissi la tasca della borsa e lo presi. La casella dei messaggi “non letti” segnalava di averne uno al suo interno. Maneggiai l’aggeggio con la mia poca esperienza –come mio solito- e lessi ciò che questo conteneva.
Stasera andiamo Cilantro Cafe… Passo a prenderti alle 9… E vestiti in maniera decente! xx
Il messaggio era da parte di Kate, come avevo immaginato. Sbuffai dopo aver finito di leggere e tornai a guardare avanti, tenendo il cellulare in mano.
“Chi ti scrive?” chiese Ren cercando di intrattenermi.
“Kate, una mia amica… Vuole che stasera vada con lei e gli altri dipendenti al Cilantro Cafe… Sai, quello sulla Piccadilly!”
Ren annuì e abbassò lo sguardo. Pochi secondi dopo arrivammo davanti alla porta dell’aula magna, nella quale Ren avrebbe tenuto la sua lezione di diritto penale.
Vidi Ren parlare con il suo professore per qualche minuto, mentre io aspettavo sul ciglio della porta.
L’aula magna era popolata da parecchia gente, per lo più da ragazzi. Molti dei quali erano impegnati a parlare fra di loro. Qualche posto vuoto era sparso sulle gradinate e poco dopo vidi il ragazzo con cui Ren aveva parlato poco prima seduto accanto ad un seggiolino vuoto, che probabilmente stava tenendo per il suo amico. Ren tornò da me prima di quanto pensassi, e mi guardò con aria disinvolta.
“Spiacente, il prof. non sa dove si terranno i corsi di arte, oggi…”
Annuii dispiaciuta e lo salutai con un gesto della mano, prima di incamminarmi di nuovo verso i corridoi. Ormai avevo perso un’ora di lezione e se non avessi trovato nessuno avrei dovuto rinunciare ai miei corsi per quella giornata.
Alcuni raggi del sole pallidi e deboli entravano dalle grosse finestre poste ad intervalli su una parete del corridoio. Alcuni si riflettevano sul mio volto e lo facevano più pallido di quanto sembrasse.
Continuai a camminare, fino ad arrivare all’enorme portone in legno dell’università; lo aprii ed uscì nel cortile, dove aveva già iniziato a nevicare pesantemente. Mi sedetti su una panchina e ci rimasi per un bel po’ di tempo, mezza riparata da un albero e mezza esposta agli enormi fiocchi di neve.
  
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