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Autore: pennydreadful    20/01/2013    9 recensioni
Dopo la disfatta di Moriarty alla piscina, la vita non è più la stessa al 221B di Bakerstreet... è più pacifica. E strana.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
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sink like a stone

Continua la rassegna di traduzioni delle mie fanfiction preferite. C'è qualcosa, di questa storia, che dovreste sapere. Finisco sempre per piangere. Amo l'angst, lo preferisco a tutto, anche alle storie a rating rosso, dopo un po' mi ci abituo, con Alone on the Water, per esempio, od ad altre store famose per essere strazianti. Ma con questa storia non ce la faccio. E' così semplice e pura. E così sono finita per inondare di lacrime la tastiera.

Ringrazio moltissmo Piuma_rosaEbianca per il betaggio e i preziosi consigli!

Mettetevi a vostro agio e godetevi questa perla.

(Testo originale: Sink Like a Stone di pennydreadful)









John entrò nell’appartamento e si scosse i vestiti. Goccioline di pioggia caddero dalla giacca e innaffiarono il tappeto.

“Dannazione,” disse.” Sta diluviando là fuori.”

Sherlock sedeva sul divano, le gambe stese di fronte a lui, la testa reclinata all’indietro. Stava scrutando fuori dalla finestra, ma si guardò attorno quando John entrò. Fissò John per un momento, come se cercasse di capire chi fosse, poi sorrise.

“Eccoti qui,” disse Sherlock.

“Eccomi qui.” John iniziò a sbottonarsi la giacca. “Cosa stai facendo? Osservi la pioggia?”

Sherlock tornò a guardare la finestra. L’acqua scorreva fuori, increspando la luce dei lampioni.

“Sì.” Sherlock si alzò. Guardò John mentre si toglieva la giacca e la appoggiava sullo schienale della poltrona, ad asciugare vicino al fuoco. “Sono felice che tu sia qui,” disse.

“Dove altro dovrei essere?” John si strofinò le mani, cercando di riscaldarle.

Sherlock continuava a fissarlo, guardandolo nello stesso modo in cui valutava una scena del crimine, cogliendo dettagli, facendo scorrere dati al di là del suo sguardo.

“Cosa?” chiese John. Non era abituato ad essere osservato in quel modo da Sherlock.

“Posso parlarti un momento?”

“Ehm – certo. Mi devo sedere?”

“Se ti fa sentire più a tuo agio.”

“Ci vorrà molto? Hai l’aria di avere qualcosa di complicato da dirmi.”

Sherlock gesticolò – non in direzione della poltrona dietro a John, né del divano lì vicino, ma al tavolo da caffè di fronte a lui. John inclinò la testa.

“Io ho qualcosa di complicato da dirti,” disse Sherlock. “Ti voglio vicino e voglio che mi guardi.”

John ubbidì, esitante. Si sedette sul bordo del tavolo da caffè, di fronte a Sherlock, così vicino che le loro ginocchia si toccavano. Gli occhi pallidi di Sherlock si fissarono sul volto di John, facendogli formicolare la pelle sotto la lana umida del suo maglione. Aveva bisogno di cambiarsi, di mettersi qualcosa di asciutto e caldo, ma prima voleva sentire cosa Sherlock aveva da dire.

“John,” iniziò con una voce che gli aveva già udito usare, prima, quando aveva frainteso le domande di John in merito alla sua sessualità e voleva farlo desistere in modo gentile. John ascoltava rapito, fin troppo conscio del ginocchio ossuto di Sherlock premuto contro il suo, attraverso il tessuto dei pantaloni del pigiama che indossava.

“Ero un po’ scombussolato quando ho cercato di esprimere la mia gratitudine,” disse Sherlock. “Non è stato molto elegante.”

John dovette riflettere per un istante su cosa intendesse, poi sorrise, semplicemente sorrise.

“Nessuno aveva mai offerto la propria vita per la mia, prima d’ora,” continuò Sherlock e abbassò lo sguardo, le ciglia gli adombrarono gli occhi. “Nessuno ha mai pensato che valesse così tanto.”

“Nessuno?”

Sherlock tornò a guardarlo.

“Sul serio, John, credi che l’avrebbero fatto?”

“Avrebbero dovuto.”

Sherlock alzò il mento, gli occhi brillarono lievemente, la spettrale, delicata bellezza del suo viso era come un oggetto d’arte alieno. E tuttavia, aveva un’espressione molto umana che John aveva visto solo poche volte, un’espressione che diceva Sono commosso ma nessuno lo saprà mai. John sapeva, ma gli lasciò credere la propria invincibilità.

“È tutto quindi?” chiese John.

“John, sto cercando di ringraziarti.”

“E l’hai fatto.”

“Sto solo cercando di dirti che mi dispiace.”

Ciò colse John alla sprovvista più del ringraziamento di Sherlock.

“Per cosa?”

“Sono stato – scortese.” Guardò di nuovo in basso e poi altrove, attraverso la finestra. Delle sirene passarono nella strada sottostante. Lampi di rosso e blu illuminarono i muri, riflessi sui ricci di Sherlock. “Ti ho trattato duramente. Ho detto cose crudeli e ho ridicolizzato le tue preoccupazioni.”

John sospirò. “Suppongo che avessi una ragione,” disse. “Ti manca solo il tatto per esprimerti propriamente.”

Sherlock tornò a guardarlo. Deglutì, il suo pomo d’Adamo si sollevò, e John si chiese su quale tipo di malinconia avesse rimuginato quella notte che lo aveva portato a parlare così.

“Ti sei preoccupato molto per me,” disse Sherlock. “Anche se non lo meritavo.”

“Forse è perché io so che per te ha importanza, non importa ciò che dici.” Si protese verso di lui. “Moriarty ha detto avrebbe che ti avrebbe bruciato il cuore, per cui devi averne uno, perché lui è un uomo intelligente. Quasi tanto quanto te.”

Sherlock gli lanciò una breve occhiata e John ricambiò, poi Sherlock proruppe in un largo sorriso e rise. Anche John sorrise e si raddrizzò.

“Sai che il tuo viso cambia completamente quando sorridi?” gli chiese John.

“Cosa?” Il suo sorriso si restrinse, labbra serrate, ma rimase.

“È così.” John appoggiò il proprio peso sulle mani, sogghignando, e lasciò che le sue ginocchia si appoggiassero comodamente su quelle di Sherlock. “La tua faccia è così severa e spigolosa finché non sorridi. Allora le tue labbra diventano più piene e le tue guance premono verso l’alto e i tuoi occhi si strizzano. È uno Sherlock del tutto diverso.”

Sherlock rise di nuovo e John riconobbe il volto di cui stava parlando. John sorrise e dondolò il ginocchio contro quello di Sherlock. “Ora, siamo stati sufficientemente superficiali e stupidi per una notte?”

Sherlock stava ancora sorridendo. “Hai fatto qualcosa di magnifico.”

John sollevò una mano. “Anche tu. Chiamiamolo un pareggio.”

Poi un suono distrasse John, un rumore di gocciolio, e guardò al di sopra della propria spalla. Dell’acqua proveniva da una piccola crepa sul soffitto e stava macchiando il tappeto.

“Oh maledizione,” disse John, e si alzò. “Adesso abbiamo una perdita.”

John si avvicinò per esaminarla, osservando il soffitto. Non era troppo grande, ma c’era già una macchia scura sul tappeto. Si voltò verso Sherlock. “Penso che dovremmo prendere un recipiente da – Sherlock?”

Anche Sherlock stava guardando il soffitto, gli occhi acuti fissi sulla perdita e le labbra increspate come se si trattasse di un’offesa personale. Poi si riscosse bruscamente e guardò John. “Sì,” disse, e si alzò. “Ne prendo uno.”

Sherlock si diresse in cucina e tornò con una pentola. John la ricevette da lui e la posizionò sotto alla perdita. L’acqua risuonò contro il metallo.

“Immagino che dovremmo parlarne con la signora Hudson domattina,” disse John. Prima di raddrizzarsi, però, immerse due dita nell’acqua che si era già raccolta sul fondo della pentola. “Non ha un odore strano, secondo te?” Iniziò ad avvicinarsi le dita al volto, ma Sherlock gli afferrò il braccio e lo allontanò.

“Oh John,” rise leggermente, “non sei mai stato bravo con le deduzioni, e lo intendo nella maniera più spassionata. Lascia stare.”

“Cosa?” John corrugò le sopracciglia.

“Avanti, guardiamo un po’ di televisione. Non hai qualche altro orribile show al quale introdurmi?”

Si sedettero sul divano fianco a fianco. John aveva freddo e si strinse in una coperta. Sembrava non doversi scaldare mai e sentiva la pelle ancora umida persino dopo il cambio di vestiti. Sperò di non essersi preso qualcosa. Sherlock era avvolto nella sua vestaglia, le gambe tirate sul divano e raccolte sotto di sé. Guardarono qualche sitcom comica. John rise e Sherlock emise qualche suono di derisione, ma fortunatamente tenne per sé i commenti. John si chiese se questo facesse parte del nuovo – sicuramente temporaneo – più educato, più gentile Sherlock.

Alla fine John si assopì, ancora nella coperta, la testa appoggiata alla spalliera del divano. Si svegliò con le interferenze della televisione e un tiepido peso sopra al ginocchio. Guardò giù e vi trovò la testa di Sherlock. Si era raggomitolato in una palla incredibilmente piccola tra il bracciolo e il corpo di John.

John pensò che dormisse. Poi notò le dita simili a zampe di ragno di Sherlock arricciate strettamente attorno al margine della coperta di John, trattenendola come un bambino spaventato dal buio. John si chinò e fece scorrere la propria mano sopra a Sherlock, sentì le sue nocche muoversi e le sue dita rilassarsi.

“Stai bene?” sussurrò John.

Sherlock scosse la testa quasi impercettibilmente.

John non sapeva cosa fare, così affondò le dita tra i capelli di Sherlock; erano sottili e setosi e freddi, come la nebbia.

“Andrà meglio,” mormorò John. “Le cose torneranno alla normalità. In questo momento siamo ancora scossi per ciò che è successo. Il modo in cui tutto…” Fece una pausa, accigliandosi mentre pensava.

“Non parlarne,” sussurrò Sherlock. Allungò una mano e toccò il polso di John, fermando la mano che gli accarezzava i capelli. “Lascia perdere per adesso.”

“Va bene,” disse John.

Tenne le dita intrecciate tra i capelli di Sherlock, la mano di Sherlock sulla sua, e in quella posizione si riaddormentò.

***

La vita nell’appartamento diventò più semplice di quanto non fosse mai stata. Calma. Pacifica. Avevano bisogno di tempo per riprendersi e ridefinirsi ed erano più vicini che mai, condividendo un legame formatosi quando la loro vita era stata messa in pericolo, cambiandola completamente. Non trascorse molto che entrambi diventarono ossessionati l’uno dall’altro. John scoprì che poteva persino perdonare a Sherlock tutti gli esperimenti sparsi per la cucina e le parti del corpo in frigorifero, anche se Sherlock sembrò improvvisamente cosciente della necessità di tenerli entrambi sotto controllo.

La pioggia non si fermava. Quella era Londra. La crepa nel soffitto di allargò tanto da necessitare di due pentole e John brontolava nella sua direzione ogni volta che ci passava vicino. Voleva salire lassù e sigillarla, ma Sherlock insisteva sul fatto che nessuno di loro era particolarmente abile nella manutenzione e l’avrebbero solo peggiorata.

“Non c’è niente da fare per quella,” disse Sherlock. “Piuttosto, non credi che dia un certo carattere alla stanza?” Si trovava in cucina, preparando da mangiare – tra tutte le cose che poteva fare. Diresse verso John uno dei suoi sorrisi di traverso da dove stava davanti al lavello.

“Già, è come un fedele racconto vittoriano.” John era in piedi al bancone, sorseggiando tè e guardandolo scolare la pasta. “Non sapevo che sapessi cucinare.”

“Il cibo mi affascina.” Sherlock buttò la pasta nella padella. “Il modo in cui diversi componenti possono essere uniti per creare qualcosa di diverso.”

“Non avrei mai sospettato la tua passione dal modo in cui non lo assumi.”

“Solo perché non ho mai avuto qualcosa dentro di me non significa che non ne sia intrigato.” Si girò dal lavello al bancone, lanciando un’occhiata a John.

John lo guardò per un momento, la bocca dischiusa, cercando di trovare le parole.

“Sherlock – hai appena… era un’insinuazione, quella?”

“Ecco.” Sherlock si voltò e gli porse un cucchiaio di legno. “Mescola la salsa.”

John andò ai fornelli, ancora un po’ incerto per ciò che era emerso. Guardò sopra la sua spalla verso Sherlock, il quale era occupato ad apparecchiare la tavola – John non sapeva nemmeno che avessero un vero set di piatti – poi tornò alla salsa. Aveva un profumo sorprendentemente buono.

Un sonoro schiocco seguito da un rumore di qualcosa che si sgretolava costrinse John a guardarsi attorno. Era come se qualcuno avesse lanciato una manciata di ghiaia nel lavello.

“Cos’era–?”

John rimase a bocca aperta quando vide che la piastrella sul lavello era crollata, esponendo il legno sottostante. Era caduta per metà nel lavello.

“Dio santo!” John appoggiò il cucchiaio di fianco al fornello. “Questo maledetto posto sta cadendo a pezzi!”

John andò al lavello e lo ispezionò. Pezzi di piastrella rotta erano sparsi sul fondo.

“Sì, è vero,” disse Sherlock, raggiungendolo. “Non credevo che la signora Hudson ci avesse costretto in una simile catapecchia.”

“E dopo? Cadrà il soffitto?” John raccolse un pezzo di piastrella e lo esaminò, cercando di decidere se potesse essere risistemato con un po’ di colla. Quando se la rigirò tra le mani fu colpito da qualcosa di strano e si accigliò, stringendo gli occhi.

“Lascia stare per adesso.” Sherlock gli prese la piastrella dalle mani e mettendola da parte. “Occupati della salsa o brucerà.”

Terminarono di preparare la cena senza che nient’altro si rompesse e precipitasse su di loro, anche se John continuò a lamentarsi della piastrella ogni volta che doveva usare il lavello.

Finalmente si sedettero, John a capotavola e Sherlock di fianco a lui. Sherlock lo guardò speranzoso dare il primo morso.

Dopo aver masticato pensierosamente, e infine inghiottito, John sorrise. “È buono. In realtà, è davvero maledettamente buono!” La sua risata era incredula.

Sherlock sorrise. “Hai così poca fiducia in me.”

“Devi ammetterlo, la vita domestica non è mai stata il tuo forte.”

“Suppongo di non averti mai dato ragione di credere il contrario.”

Mangiarono in silenzio per qualche minuto, poi John disse: “Era un’insinuazione, quella di prima?”

“Credi che lo fosse?” Il cibo che Sherlock stava spingendo da parte era più di quello che aveva mangiato, ma almeno ci stava provando.

“Non lo so. Forse eri soltanto tu che ti fingevi di nuovo umano. Non posso mai esserne sicuro.”

Sherlock lo guardò e l’espressione nei suoi occhi fece pentire John di ciò che aveva detto.

“Non ho mai finto con te, John,” disse Sherlock, in tono piatto. “Perché tu, in effetti, sei in grado di capirlo. Non sottovalutarti.” Guardò verso l’alto, il suo sguardo scandagliò il soffitto. “Capisci sempre, alla fine.”

John si accigliò e arrotolò un po’ di pasta attorno alla forchetta.

“Vuoi un po’ di vino?” chiese Sherlock. “C’è del rosso.”

“Sì, sarebbe bello.”

Dopo che ebbero mangiato, e dopo un bicchiere di vino, John si sentì riscaldato e languido e si allungò sul divano. Sherlock si sedette sulla sua poltrona accanto al fuoco e lo osservò in silenzio, le dita unite sotto al mento. Sembrò più volte sul punto di dire qualcosa, ma non parlò. John guardava il soffitto.

Quando sentì il lungo, magro corpo di Sherlock adagiarsi accanto a lui, John realizzò di avergli fatto un cenno, un piccolo gesto della mano che Sherlock stava ovviamente aspettando. Rimasero sdraiati in silenzio per un po’, il corpo caldo di Sherlock contro il suo fianco, il suo fiato profumato di vino che gli solleticava la guancia.

“Non intendevo darti dell’inumano,” disse John finalmente, piano.

Di nuovo sirene in strada. C’era sempre qualcuno che soffriva, persino quando era tutto così calmo e pacifico nell’appartamento.

“Non intendevo darti l’impressione di esserlo,” disse Sherlock in risposta.

John voltò la testa verso di lui. Sollevò una mano e tracciò la linea della mandibola di Sherlock. Anche Sherlock alzò una mano, come per toccare il viso di John, ma le sue dita si fermarono appena sopra allo zigomo.

John lo baciò, delicatamente, un tocco fermo ma morbido, e le labbra di Sherlock erano calde e carnose. Erano proprio come apparivano, così tanto che John poteva immaginarle con gli occhi chiusi.

Si addormentarono premuti l’uno contro l’altro, le labbra così vicine da inalare a vicenda il proprio respiro. John si svegliò una volta con la sensazione dei polpastrelli di Sherlock sulla sua mandibola.

Si svegliò di nuovo più tardi con i ricci di Sherlock premuti contro la guancia e il viso affondato nella sua spalla, e per un istante giurò che Sherlock stesse piangendo sommessamente, un suono così strano che fece svegliare John del tutto. Ma una volta che gli ebbe sfiorato la nuca lo sentì silenzioso; soltanto un sogno.

Tuttavia, quando John richiuse gli occhi sussurrò: “Andrà tutto bene…”

***

John scese le scale, grattandosi la testa, stizzito e irritato. Si guardò attorno nel salotto.

“Sherlock, hai visto i miei guanti di pelle?” Alzò un cuscino del divano senza risultato. “Maledizione, non riesco a trovarli da nessuna parte. Sai, quelli che indossavo la notte –”

Aveva fatto il giro della cucina e si era bloccato subito. Sherlock stava seduto in mezzo al pavimento, le ginocchia raccolte sul petto, ancora nella sua vestaglia, fissando tristemente il muro sopra al lavello.

“Sherlock?”

John entrò in cucina e guardò il lavello. Altre piastrelle erano cadute, sparpagliate sul bancone e sul pavimento.

“Bene, meraviglioso!” John alzò le mani in un gesto di esasperazione. Si guardò attorno nel salotto. “E sta ancora piovendo, dannazione? Non smette mai!” Andò a grandi passi sotto alla perdita, guardando verso l’alto, poi nuovamente ai contenitori mezzi pieni. “Bene, ne ho abbastanza.” Tornò in cucina. “La signora Hudson dovrà assumere una persona che lo sistemi e non vedrà un centesimo dell’affitto finché non lo farà!”

Sherlock distolse lo sguardo dal muro e lo posò su John. Sembrava che lo stesse contemplando. “John,” disse.

“Cosa c’è?”

“Ti senti a disagio, per la notte scorsa?”

John rimase fermo, guardandolo dall’alto.

“No, no. Per niente. Tu?”

“Penso che dovrei.”

“E perché?”

Sherlock rimase in silenzio per un istante. Guardò verso il basso. “Quella era un’insinuazione.”

John rise. “Non rimproverarti per quello.” Sherlock alzò lo sguardo su di lui. John sorrise. “Non era nemmeno una buona insinuazione. Abbastanza forzata, se vuoi sapere la verità.”

Sherlock sorrise.

“Avanti, alzati da lì. Usa la tua mente brillante per dedurre dove si trovano i miei guanti.”

“Dimentica i guanti. Rimani qui.”

John obbedì, senza troppe proteste. Si sedettero sul divano insieme e guardarono la televisione, questa volta col braccio di John avvolto comodamente attorno alle spalle di Sherlock. Continuava ad essere distratto dalla perdita, il gocciolio nelle pentole, e si accigliò in quella direzione. Sherlock ricatturò la sua attenzione appoggiandogli delicatamente la mano sulla coscia.

Era come essere tornati adolescenti, gradualmente più vicini centimetro dopo centimetro, muovendosi per tenersi la mano, fingendo di essere concentrati sulla televisione mentre tutto ciò che John riusciva a pensare era quale sarebbe stata la mossa successiva. Alla fine iniziarono a baciarsi, ma non come la notte prima, in modo molto più appassionato, questa volta.

John si domandò se ciò che stava succedendo fosse un male, ma per capirlo avrebbe dovuto valutare le ragioni per baciare Sherlock. Un po’ voleva confortarlo e forse confortare se stesso. Un po’ era una risposta al nuovo legame tra loro. E un’altra parte ancora era semplicemente perché era sempre stato attratto da Sherlock. Anche quando risultava difficile essere attratti da lui.

Quindi, forse, era un bene.

Dopo un po’ si distesero sul divano, John accarezzava i capelli di Sherlock, la testa di Sherlock sul suo petto.

“Dovremmo parlare di quello che è successo alla piscina,” mormorò John. “Se ti sta ancora tormentando.”

“Preferirei di no.”

John avvolse un ricciolo attorno al suo dito. “Persino una mente brillante come la tua è capace di un trauma. Fidati di me, sono un esperto in materia. Ti farà sentire meglio.”

“Fidati di me John,” trasse un pesante sospiro, “non è così.”

“Ma è stato un avvenimento molto stressante.”

Come per scherzare della serietà del momento, il rigagnolo proveniente dal soffitto si intensificò, producendo schizzi nelle pentole.

“No.” Sherlock strinse il braccio attorno al petto di John. “Aiutami a pensare a cose belle. Cose meravigliose. Cose che sono nella tua testa, non nella mia.”

John sapeva che non c’era niente da fare con lui quando insisteva in quel modo.

“Non sono sicuro che le cose nella mia testa siano belle,” disse John a bassa voce. Sherlock dovette sentire il cambiamento nel suo tono perché sollevò il viso per guardarlo. John deglutì. “Forse… è affrettato.”

“Affrettato?”

“Dobbiamo fare attenzione, Sherlock. Soffriamo entrambi di stress post-traumatico. Ciò può rendere le persone molto emotive. Potremmo fare cose di cui poi ci pentiremmo, solo per trovare un po’ di conforto.”

“Credi che faremmo quel genere di cose?”

John alzò gli occhi al soffitto. Fece scivolare la mano sulla testa di Sherlock. “Potremmo,” disse.

“E credi che poi ce ne pentiremmo?”

John non aveva una risposta.

“E credi che ci darebbe conforto?”

Bene o no, finirono nel letto di John.

***

Quella fu, per John, una delle esperienze più sessuali, e allo stesso tempo meno sessuali che avesse mai fatto. Trascorsero la notte premuti l’uno contro l’altro sotto alle coperte, completamente nudi. Ogni tanto John ebbe un’erezione, e così Sherlock, ma né un orgasmo né del sesso vero e proprio – o persino contatti sessuali – si verificarono. Sherlock sembrava più interessato ad avvolgersi completamente attorno a John, bloccandolo con i suoi lunghi arti e premendosi strettamente attorno a lui come se cercasse di assorbirlo nel suo corpo. Fu, in effetti, molto confortante.

La mattina John si svegliò prima di Sherlock e rimase sdraiato per molto tempo osservandogli il viso. Persino nel sonno la fronte di Sherlock era contratta in una fine linea concentrata. John fece scorrere le dita lungo l’alto, definito profilo dei suoi zigomi e le sue labbra strette.

John sorrise, stringendolo a sé e ascoltando la pioggia.

La pioggia. Stava ancora piovendo?

John si accigliò e concentrò la sua attenzione sul suono della pioggia che picchiettava contro la finestra e gocciolava dal tetto. Da quanti giorni stava piovendo? Era troppo persino per Londra.

Sherlock aprì gli occhi in una fessura e li richiuse. “Buon giorno,” disse, la sua voce assomigliava a un brontolio più del solito. “Dormito bene?”

“Sherlock, da quanti giorni sta piovendo?”

Sherlock passò una mano sul petto di John e la posò sopra al suo cuore. “Stiamo a letto ancora per un po’,” mormorò. “Non alziamoci ancora.”

“Va… va bene.” A John non serviva molto per essere persuaso. Infatti, sarebbe stato più difficile convincerlo ad alzarsi.

Alla fine si alzò comunque, così come Sherlock. John sbrigò qualche lavoretto in cucina, preparando il tè e riflettendo. Lanciò un’occhiata alla piastrella rotta sopra al lavello e ascoltò la pioggia. Pensò e ripensò, ma i suoi pensieri finivano continuamente in vicoli ciechi.

“Sherlock…” John camminò finalmente dentro al salotto. Sherlock era in piedi davanti a una delle finestre, nella sua vestaglia, le mani raccolte dietro di sé mentre guardava fuori. Non si girò. “Sherlock, sai, è strano. Ti ricordi come siamo sfuggiti a Moriarty?”

Sherlock non rispose, alzò solo un po’ il mento.

“Non ricordo come siamo venuti via.” John si grattò la testa. “So che suona bizzarro. Voglio dire, continuiamo a parlarne. E soffriamo di stress per questo… vero?”

Sherlock emise un sospiro leggero, le spalle si sollevarono e si riabbassarono.

“In effetti,” John si guardò attorno, “non ricordo nemmeno di essere tornato qui. Quando siamo tornati? Quanti giorni sono passati? E siamo mai usciti da allora? Non ricordo di essere andato fuori.”

Sherlock si girò. La sue espressione era tesa – triste, quasi. Ammettendo che Sherlock potesse mostrare tale espressione.

“Perché non riesco a ricordare queste cose?” domandò John, fissandolo, pieno di trepidazione. “Cos’è successo alla mia memoria?”

Sherlock non parlava ancora. John fu distratto dall’acqua che precipitava nelle pentole in mezzo alla stanza. La crepa era più grande adesso e l’acqua si stava riversando all’interno in un flusso costante. John si inginocchiò di fianco alle pentole e immerse le dita nel liquido freddo. Se le portò al volto annusò.

“Ha un odore strano,” disse, più a se stesso che a Sherlock. “Sa di… cloro.”

Dalla cucina provenne un rumore di materiale sgretolato. Altre piastrelle stavano cadendo dal muro. John se le immaginò frantumate nel lavello. Assomigliavano molto alle mattonelle della piscina.

John si alzò lentamente, fissando Sherlock. Sul suo volto, Sherlock aveva lo stesso sguardo di quando attendeva pazientemente che John realizzasse qualcosa.

“Noi –” John esitò. “Sherlock… non credo che siamo sopravvissuti all’esplosione.”

Sherlock sospirò nuovamente, ma questa volta era rassegnato.

“Capisci sempre, alla fine,” disse Sherlock, “anche se ti ci vuole del tempo, John. Non sei me, dopo tutto. Nessuno lo è. Ma tu eri comunque sufficientemente intelligente.”

Eri.

John sentì l’acqua scorrergli attorno alle caviglie e guardò in basso. Il pavimento si stava allagando, l’acqua fluiva all’interno della stanza, sembrava sgorgare dalle pareti.

“Siamo morti,” disse John.

Sherlock camminò verso di lui, il livello dell’acqua gli arrivava ai polpacci.

Tu sei morto,” disse Sherlock, la sua voce era greve. “Io sono in coma, dal quale mi sveglierò presto, ora che hai capito tutto.”

John lo guardò incredulo. L’acqua gli arrivava quasi alle ginocchia adesso. Udì delle sirene all’esterno, vide le luci lampeggiare sulla superficie dell’acqua.

“Non so davvero cosa stia accadendo, né perché,” disse Sherlock. “Forse si tratta solo di un mio sogno. Ma ne sono grato. Sono felice che abbiamo avuto a disposizione questo tempo per poterci dire cose che avrei dovuto dirti prima.”

“No – tu.” John scosse la testa. “No, Sherlock. Non puoi abbandonarmi!”

Per la prima volta da quando John l’aveva conosciuto, Sherlock apparì realmente, umanamente addolorato.

“Tornerò, John,” disse quasi soffocando tra le parole. I suoi occhi brillarono e le sue labbra rosa pallido tremarono. “Lo prometto. Ma non posso, finché non avrò trovato Moriarty e l’avrò eliminato. Devo fargliela pagare.”

L’acqua arrivava alla vita di John ora – calda e quasi rilassante, come se lo stesse facendo lentamente sprofondare in una dolce, silenziosa pace. John pensò che avrebbe dovuto essere spaventato, ma non lo era. Sherlock stava di fronte a lui, la vestaglia allargata attorno a lui sull’acqua. Guardò John con un’espressione talmente straziata che John dovette sorridere, pensando aveva davvero un cuore, dopotutto.

“Tornerò,” disse Sherlock, “quando l’unica ragione che ho per rimanere non ci sarà più.”

John cadde all’indietro e affondò nel flusso crescente che gli salì fino al petto, poi al mento.

“Non avere paura,” sussurrò Sherlock. “È solo la morte, John.”

“Ti aspetterò nell’acqua,” promise John, prima di scivolare sotto la superficie.

***

Sherlock osservò, nel momento finale, Moriarty precipitare nel vapore bianco ai piedi della cascata e colpire l’acqua. Sapeva, prima di colpirla a sua volta un secondo più tardi, che il suo nemico era stato vinto prima di lui e fu contento di morire.

Ogni cosa lo abbandonò appena sprofondò: il suo respiro, il suo battito, ogni sensazione e cognizione. L’oscurità turbinò come un grande, completo nulla che inghiottiva l’intera essenza. Per alcuni lunghi secondi fluttuò nell’incoscienza, e poi qualcosa prese forma.

Una mano gli afferrò il polso. Delle labbra premettero sulle sue.

Sherlock sorrise.

Ah, eccoti qui.

Ti avevo detto che ti avrei aspettato. Andiamo a casa.

E così fecero.

  
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