Continua la rassegna di traduzioni delle mie fanfiction preferite. C'è qualcosa, di questa storia, che dovreste sapere. Finisco sempre per piangere. Amo l'angst, lo preferisco a tutto, anche alle storie a rating rosso, dopo un po' mi ci abituo, con Alone on the Water, per esempio, od ad altre store famose per essere strazianti. Ma con questa storia non ce la faccio. E' così semplice e pura. E così sono finita per inondare di lacrime la tastiera.
Ringrazio moltissmo Piuma_rosaEbianca per il betaggio e i preziosi consigli!
Mettetevi a vostro agio e godetevi questa perla.
(Testo originale: Sink Like a Stone di pennydreadful)
John
entrò nell’appartamento e si scosse i vestiti. Goccioline di pioggia caddero
dalla giacca e innaffiarono il tappeto.
“Dannazione,”
disse.” Sta diluviando là fuori.”
Sherlock
sedeva sul divano, le gambe stese di fronte a lui, la testa reclinata all’indietro.
Stava scrutando fuori dalla finestra, ma si guardò attorno quando John entrò.
Fissò John per un momento, come se cercasse di capire chi fosse, poi sorrise.
“Eccoti
qui,” disse Sherlock.
“Eccomi
qui.” John iniziò a sbottonarsi la giacca. “Cosa stai facendo? Osservi la
pioggia?”
Sherlock
tornò a guardare la finestra. L’acqua scorreva fuori, increspando la luce dei
lampioni.
“Sì.”
Sherlock si alzò. Guardò John mentre si toglieva la giacca e la appoggiava
sullo schienale della poltrona, ad asciugare vicino al fuoco. “Sono felice che
tu sia qui,” disse.
“Dove
altro dovrei essere?” John si strofinò le mani, cercando di riscaldarle.
Sherlock
continuava a fissarlo, guardandolo nello stesso modo in cui valutava una scena
del crimine, cogliendo dettagli, facendo scorrere dati al di là del suo
sguardo.
“Cosa?”
chiese John. Non era abituato ad essere osservato in quel modo da Sherlock.
“Posso
parlarti un momento?”
“Ehm
– certo. Mi devo sedere?”
“Se
ti fa sentire più a tuo agio.”
“Ci
vorrà molto? Hai l’aria di avere qualcosa di complicato da dirmi.”
Sherlock
gesticolò – non in direzione della poltrona dietro a John, né del divano lì
vicino, ma al tavolo da caffè di fronte a lui. John inclinò la testa.
“Io
ho qualcosa di complicato da dirti,”
disse Sherlock. “Ti voglio vicino e voglio che mi guardi.”
John
ubbidì, esitante. Si sedette sul bordo del tavolo da caffè, di fronte a
Sherlock, così vicino che le loro ginocchia si toccavano. Gli occhi pallidi di
Sherlock si fissarono sul volto di John, facendogli formicolare la pelle sotto
la lana umida del suo maglione. Aveva bisogno di cambiarsi, di mettersi
qualcosa di asciutto e caldo, ma prima voleva sentire cosa Sherlock aveva da
dire.
“John,”
iniziò con una voce che gli aveva già udito usare, prima, quando aveva
frainteso le domande di John in merito alla sua sessualità e voleva farlo
desistere in modo gentile. John ascoltava rapito, fin troppo conscio del
ginocchio ossuto di Sherlock premuto contro il suo, attraverso il tessuto dei
pantaloni del pigiama che indossava.
“Ero
un po’ scombussolato quando ho cercato di esprimere la mia gratitudine,” disse
Sherlock. “Non è stato molto elegante.”
John
dovette riflettere per un istante su cosa intendesse, poi sorrise, semplicemente
sorrise.
“Nessuno
aveva mai offerto la propria vita per la mia, prima d’ora,” continuò Sherlock e
abbassò lo sguardo, le ciglia gli adombrarono gli occhi. “Nessuno ha mai
pensato che valesse così tanto.”
“Nessuno?”
Sherlock
tornò a guardarlo.
“Sul
serio, John, credi che l’avrebbero fatto?”
“Avrebbero
dovuto.”
Sherlock
alzò il mento, gli occhi brillarono lievemente, la spettrale, delicata bellezza
del suo viso era come un oggetto d’arte alieno. E tuttavia, aveva
un’espressione molto umana che John aveva visto solo poche volte,
un’espressione che diceva Sono commosso
ma nessuno lo saprà mai. John sapeva, ma gli lasciò credere la propria
invincibilità.
“È
tutto quindi?” chiese John.
“John,
sto cercando di ringraziarti.”
“E
l’hai fatto.”
“Sto
solo cercando di dirti che mi dispiace.”
Ciò
colse John alla sprovvista più del ringraziamento di Sherlock.
“Per
cosa?”
“Sono
stato – scortese.” Guardò di nuovo in basso e poi altrove, attraverso la
finestra. Delle sirene passarono nella strada sottostante. Lampi di rosso e blu
illuminarono i muri, riflessi sui ricci di Sherlock. “Ti ho trattato duramente.
Ho detto cose crudeli e ho ridicolizzato le tue preoccupazioni.”
John
sospirò. “Suppongo che avessi una ragione,” disse. “Ti manca solo il tatto per
esprimerti propriamente.”
Sherlock
tornò a guardarlo. Deglutì, il suo pomo d’Adamo si sollevò, e John si chiese su
quale tipo di malinconia avesse rimuginato quella notte che lo aveva portato a
parlare così.
“Ti
sei preoccupato molto per me,” disse Sherlock. “Anche se non lo meritavo.”
“Forse
è perché io so che per te ha importanza, non importa ciò che dici.” Si protese
verso di lui. “Moriarty ha detto avrebbe che ti avrebbe bruciato il cuore, per
cui devi averne uno, perché lui è un uomo intelligente. Quasi tanto quanto te.”
Sherlock
gli lanciò una breve occhiata e John ricambiò, poi Sherlock proruppe in un
largo sorriso e rise. Anche John sorrise e si raddrizzò.
“Sai
che il tuo viso cambia completamente quando sorridi?” gli chiese John.
“Cosa?”
Il suo sorriso si restrinse, labbra serrate, ma rimase.
“È
così.” John appoggiò il proprio peso sulle mani, sogghignando, e lasciò che le
sue ginocchia si appoggiassero comodamente su quelle di Sherlock. “La tua
faccia è così severa e spigolosa finché non sorridi. Allora le tue labbra
diventano più piene e le tue guance premono verso l’alto e i tuoi occhi si
strizzano. È uno Sherlock del tutto diverso.”
Sherlock
rise di nuovo e John riconobbe il volto di cui stava parlando. John sorrise e
dondolò il ginocchio contro quello di Sherlock. “Ora, siamo stati sufficientemente
superficiali e stupidi per una notte?”
Sherlock
stava ancora sorridendo. “Hai fatto qualcosa di magnifico.”
John
sollevò una mano. “Anche tu. Chiamiamolo un pareggio.”
Poi
un suono distrasse John, un rumore di gocciolio, e guardò al di sopra della
propria spalla. Dell’acqua proveniva da una piccola crepa sul soffitto e stava
macchiando il tappeto.
“Oh
maledizione,” disse John, e si alzò. “Adesso abbiamo una perdita.”
John
si avvicinò per esaminarla, osservando il soffitto. Non era troppo grande, ma
c’era già una macchia scura sul tappeto. Si voltò verso Sherlock. “Penso che
dovremmo prendere un recipiente da – Sherlock?”
Anche
Sherlock stava guardando il soffitto, gli occhi acuti fissi sulla perdita e le
labbra increspate come se si trattasse di un’offesa personale. Poi si riscosse
bruscamente e guardò John. “Sì,” disse, e si alzò. “Ne prendo uno.”
Sherlock
si diresse in cucina e tornò con una pentola. John la ricevette da lui e la
posizionò sotto alla perdita. L’acqua risuonò contro il metallo.
“Immagino
che dovremmo parlarne con la signora Hudson domattina,” disse John. Prima di
raddrizzarsi, però, immerse due dita nell’acqua che si era già raccolta sul
fondo della pentola. “Non ha un odore strano, secondo te?” Iniziò ad
avvicinarsi le dita al volto, ma Sherlock gli afferrò il braccio e lo
allontanò.
“Oh
John,” rise leggermente, “non sei mai stato bravo con le deduzioni, e lo
intendo nella maniera più spassionata. Lascia stare.”
“Cosa?”
John corrugò le sopracciglia.
“Avanti,
guardiamo un po’ di televisione. Non hai qualche altro orribile show al quale
introdurmi?”
Si
sedettero sul divano fianco a fianco. John aveva freddo e si strinse in una
coperta. Sembrava non doversi scaldare mai e sentiva la pelle ancora umida
persino dopo il cambio di vestiti. Sperò di non essersi preso qualcosa.
Sherlock era avvolto nella sua vestaglia, le gambe tirate sul divano e raccolte
sotto di sé. Guardarono qualche sitcom comica. John rise e Sherlock emise
qualche suono di derisione, ma fortunatamente tenne per sé i commenti. John si
chiese se questo facesse parte del nuovo – sicuramente temporaneo – più educato,
più gentile Sherlock.
Alla
fine John si assopì, ancora nella coperta, la testa appoggiata alla spalliera
del divano. Si svegliò con le interferenze della televisione e un tiepido peso
sopra al ginocchio. Guardò giù e vi trovò la testa di Sherlock. Si era
raggomitolato in una palla incredibilmente piccola tra il bracciolo e il corpo
di John.
John
pensò che dormisse. Poi notò le dita simili a zampe di ragno di Sherlock
arricciate strettamente attorno al margine della coperta di John, trattenendola
come un bambino spaventato dal buio. John si chinò e fece scorrere la propria
mano sopra a Sherlock, sentì le sue nocche muoversi e le sue dita rilassarsi.
“Stai
bene?” sussurrò John.
Sherlock
scosse la testa quasi impercettibilmente.
John
non sapeva cosa fare, così affondò le dita tra i capelli di Sherlock; erano
sottili e setosi e freddi, come la nebbia.
“Andrà
meglio,” mormorò John. “Le cose torneranno alla normalità. In questo momento
siamo ancora scossi per ciò che è successo. Il modo in cui tutto…” Fece una
pausa, accigliandosi mentre pensava.
“Non
parlarne,” sussurrò Sherlock. Allungò una mano e toccò il polso di John,
fermando la mano che gli accarezzava i capelli. “Lascia perdere per adesso.”
“Va
bene,” disse John.
Tenne
le dita intrecciate tra i capelli di Sherlock, la mano di Sherlock sulla sua, e
in quella posizione si riaddormentò.
***
La
vita nell’appartamento diventò più semplice di quanto non fosse mai stata. Calma.
Pacifica. Avevano bisogno di tempo per riprendersi e ridefinirsi ed erano più
vicini che mai, condividendo un legame formatosi quando la loro vita era stata
messa in pericolo, cambiandola completamente. Non trascorse molto che entrambi
diventarono ossessionati l’uno dall’altro. John scoprì che poteva persino
perdonare a Sherlock tutti gli esperimenti sparsi per la cucina e le parti del
corpo in frigorifero, anche se Sherlock sembrò improvvisamente cosciente della
necessità di tenerli entrambi sotto controllo.
La
pioggia non si fermava. Quella era Londra. La crepa nel soffitto di allargò
tanto da necessitare di due pentole e John brontolava nella sua direzione ogni
volta che ci passava vicino. Voleva salire lassù e sigillarla, ma Sherlock
insisteva sul fatto che nessuno di loro era particolarmente abile nella
manutenzione e l’avrebbero solo peggiorata.
“Non
c’è niente da fare per quella,” disse Sherlock. “Piuttosto, non credi che dia
un certo carattere alla stanza?” Si trovava in cucina, preparando da mangiare –
tra tutte le cose che poteva fare. Diresse verso John uno dei suoi sorrisi di
traverso da dove stava davanti al lavello.
“Già,
è come un fedele racconto vittoriano.” John era in piedi al bancone,
sorseggiando tè e guardandolo scolare la pasta. “Non sapevo che sapessi
cucinare.”
“Il
cibo mi affascina.” Sherlock buttò la pasta nella padella. “Il modo in cui
diversi componenti possono essere uniti per creare qualcosa di diverso.”
“Non
avrei mai sospettato la tua passione dal modo in cui non lo assumi.”
“Solo
perché non ho mai avuto qualcosa dentro di me non significa che non ne sia
intrigato.” Si girò dal lavello al bancone, lanciando un’occhiata a John.
John
lo guardò per un momento, la bocca dischiusa, cercando di trovare le parole.
“Sherlock
– hai appena… era un’insinuazione, quella?”
“Ecco.”
Sherlock si voltò e gli porse un cucchiaio di legno. “Mescola la salsa.”
John
andò ai fornelli, ancora un po’ incerto per ciò che era emerso. Guardò sopra la
sua spalla verso Sherlock, il quale era occupato ad apparecchiare la tavola –
John non sapeva nemmeno che avessero un vero set di piatti – poi tornò alla
salsa. Aveva un profumo sorprendentemente buono.
Un
sonoro schiocco seguito da un rumore di qualcosa che si sgretolava costrinse
John a guardarsi attorno. Era come se qualcuno avesse lanciato una manciata di
ghiaia nel lavello.
“Cos’era–?”
John
rimase a bocca aperta quando vide che la piastrella sul lavello era crollata,
esponendo il legno sottostante. Era caduta per metà nel lavello.
“Dio
santo!” John appoggiò il cucchiaio di fianco al fornello. “Questo maledetto
posto sta cadendo a pezzi!”
John
andò al lavello e lo ispezionò. Pezzi di piastrella rotta erano sparsi sul
fondo.
“Sì,
è vero,” disse Sherlock, raggiungendolo. “Non credevo che la signora Hudson ci
avesse costretto in una simile catapecchia.”
“E
dopo? Cadrà il soffitto?” John raccolse un pezzo di piastrella e lo esaminò,
cercando di decidere se potesse essere risistemato con un po’ di colla. Quando
se la rigirò tra le mani fu colpito da qualcosa di strano e si accigliò,
stringendo gli occhi.
“Lascia
stare per adesso.” Sherlock gli prese la piastrella dalle mani e mettendola da
parte. “Occupati della salsa o brucerà.”
Terminarono
di preparare la cena senza che nient’altro si rompesse e precipitasse su di
loro, anche se John continuò a lamentarsi della piastrella ogni volta che
doveva usare il lavello.
Finalmente
si sedettero, John a capotavola e Sherlock di fianco a lui. Sherlock lo guardò
speranzoso dare il primo morso.
Dopo
aver masticato pensierosamente, e infine inghiottito, John sorrise. “È buono.
In realtà, è davvero maledettamente buono!” La sua risata era incredula.
Sherlock
sorrise. “Hai così poca fiducia in me.”
“Devi
ammetterlo, la vita domestica non è mai stata il tuo forte.”
“Suppongo
di non averti mai dato ragione di credere il contrario.”
Mangiarono
in silenzio per qualche minuto, poi John disse: “Era un’insinuazione, quella di prima?”
“Credi
che lo fosse?” Il cibo che Sherlock stava spingendo da parte era più di quello
che aveva mangiato, ma almeno ci stava provando.
“Non
lo so. Forse eri soltanto tu che ti fingevi di nuovo umano. Non posso mai
esserne sicuro.”
Sherlock
lo guardò e l’espressione nei suoi occhi fece pentire John di ciò che aveva
detto.
“Non
ho mai finto con te, John,” disse Sherlock, in tono piatto. “Perché tu, in
effetti, sei in grado di capirlo. Non sottovalutarti.” Guardò verso l’alto, il
suo sguardo scandagliò il soffitto. “Capisci sempre, alla fine.”
John
si accigliò e arrotolò un po’ di pasta attorno alla forchetta.
“Vuoi
un po’ di vino?” chiese Sherlock. “C’è del rosso.”
“Sì,
sarebbe bello.”
Dopo
che ebbero mangiato, e dopo un bicchiere di vino, John si sentì riscaldato e
languido e si allungò sul divano. Sherlock si sedette sulla sua poltrona
accanto al fuoco e lo osservò in silenzio, le dita unite sotto al mento. Sembrò
più volte sul punto di dire qualcosa, ma non parlò. John guardava il soffitto.
Quando
sentì il lungo, magro corpo di Sherlock adagiarsi accanto a lui, John realizzò
di avergli fatto un cenno, un piccolo gesto della mano che Sherlock stava
ovviamente aspettando. Rimasero sdraiati in silenzio per un po’, il corpo caldo
di Sherlock contro il suo fianco, il suo fiato profumato di vino che gli
solleticava la guancia.
“Non
intendevo darti dell’inumano,” disse John finalmente, piano.
Di
nuovo sirene in strada. C’era sempre qualcuno che soffriva, persino quando era
tutto così calmo e pacifico nell’appartamento.
“Non
intendevo darti l’impressione di esserlo,” disse Sherlock in risposta.
John
voltò la testa verso di lui. Sollevò una mano e tracciò la linea della
mandibola di Sherlock. Anche Sherlock alzò una mano, come per toccare il viso
di John, ma le sue dita si fermarono appena sopra allo zigomo.
John
lo baciò, delicatamente, un tocco fermo ma morbido, e le labbra di Sherlock
erano calde e carnose. Erano proprio come apparivano, così tanto che John
poteva immaginarle con gli occhi chiusi.
Si
addormentarono premuti l’uno contro l’altro, le labbra così vicine da inalare a
vicenda il proprio respiro. John si svegliò una volta con la sensazione dei
polpastrelli di Sherlock sulla sua mandibola.
Si
svegliò di nuovo più tardi con i ricci di Sherlock premuti contro la guancia e
il viso affondato nella sua spalla, e per un istante giurò che Sherlock stesse
piangendo sommessamente, un suono così strano che fece svegliare John del
tutto. Ma una volta che gli ebbe sfiorato la nuca lo sentì silenzioso; soltanto
un sogno.
Tuttavia,
quando John richiuse gli occhi sussurrò: “Andrà tutto bene…”
***
John
scese le scale, grattandosi la testa, stizzito e irritato. Si guardò attorno
nel salotto.
“Sherlock,
hai visto i miei guanti di pelle?” Alzò un cuscino del divano senza risultato.
“Maledizione, non riesco a trovarli da nessuna parte. Sai, quelli che indossavo
la notte –”
Aveva
fatto il giro della cucina e si era bloccato subito. Sherlock stava seduto in
mezzo al pavimento, le ginocchia raccolte sul petto, ancora nella sua
vestaglia, fissando tristemente il muro sopra al lavello.
“Sherlock?”
John
entrò in cucina e guardò il lavello. Altre piastrelle erano cadute,
sparpagliate sul bancone e sul pavimento.
“Bene,
meraviglioso!” John alzò le mani in un gesto di esasperazione. Si guardò
attorno nel salotto. “E sta ancora piovendo, dannazione? Non smette mai!” Andò
a grandi passi sotto alla perdita, guardando verso l’alto, poi nuovamente ai
contenitori mezzi pieni. “Bene, ne ho abbastanza.” Tornò in cucina. “La signora
Hudson dovrà assumere una persona che lo sistemi e non vedrà un centesimo
dell’affitto finché non lo farà!”
Sherlock
distolse lo sguardo dal muro e lo posò su John. Sembrava che lo stesse
contemplando. “John,” disse.
“Cosa
c’è?”
“Ti
senti a disagio, per la notte scorsa?”
John
rimase fermo, guardandolo dall’alto.
“No,
no. Per niente. Tu?”
“Penso
che dovrei.”
“E
perché?”
Sherlock
rimase in silenzio per un istante. Guardò verso il basso. “Quella era un’insinuazione.”
John
rise. “Non rimproverarti per quello.” Sherlock alzò lo sguardo su di lui. John
sorrise. “Non era nemmeno una buona insinuazione. Abbastanza forzata, se vuoi
sapere la verità.”
Sherlock
sorrise.
“Avanti,
alzati da lì. Usa la tua mente brillante per dedurre dove si trovano i miei
guanti.”
“Dimentica
i guanti. Rimani qui.”
John
obbedì, senza troppe proteste. Si sedettero sul divano insieme e guardarono la
televisione, questa volta col braccio di John avvolto comodamente attorno alle
spalle di Sherlock. Continuava ad essere distratto dalla perdita, il gocciolio
nelle pentole, e si accigliò in quella direzione. Sherlock ricatturò la sua
attenzione appoggiandogli delicatamente la mano sulla coscia.
Era
come essere tornati adolescenti, gradualmente più vicini centimetro dopo
centimetro, muovendosi per tenersi la mano, fingendo di essere concentrati
sulla televisione mentre tutto ciò che John riusciva a pensare era quale sarebbe
stata la mossa successiva. Alla fine iniziarono a baciarsi, ma non come la
notte prima, in modo molto più appassionato, questa volta.
John
si domandò se ciò che stava succedendo fosse un male, ma per capirlo avrebbe
dovuto valutare le ragioni per baciare Sherlock. Un po’ voleva confortarlo e
forse confortare se stesso. Un po’ era una risposta al nuovo legame tra loro. E
un’altra parte ancora era semplicemente perché era sempre stato attratto da
Sherlock. Anche quando risultava difficile essere attratti da lui.
Quindi,
forse, era un bene.
Dopo
un po’ si distesero sul divano, John accarezzava i capelli di Sherlock, la
testa di Sherlock sul suo petto.
“Dovremmo
parlare di quello che è successo alla piscina,” mormorò John. “Se ti sta ancora
tormentando.”
“Preferirei
di no.”
John
avvolse un ricciolo attorno al suo dito. “Persino una mente brillante come la
tua è capace di un trauma. Fidati di me, sono un esperto in materia. Ti farà
sentire meglio.”
“Fidati
di me John,” trasse un pesante
sospiro, “non è così.”
“Ma
è stato un avvenimento molto stressante.”
Come
per scherzare della serietà del momento, il rigagnolo proveniente dal soffitto
si intensificò, producendo schizzi nelle pentole.
“No.”
Sherlock strinse il braccio attorno al petto di John. “Aiutami a pensare a cose
belle. Cose meravigliose. Cose che sono nella tua testa, non nella mia.”
John
sapeva che non c’era niente da fare con lui quando insisteva in quel modo.
“Non
sono sicuro che le cose nella mia testa siano belle,” disse John a bassa voce.
Sherlock dovette sentire il cambiamento nel suo tono perché sollevò il viso per
guardarlo. John deglutì. “Forse… è affrettato.”
“Affrettato?”
“Dobbiamo
fare attenzione, Sherlock. Soffriamo entrambi di stress post-traumatico. Ciò
può rendere le persone molto emotive. Potremmo fare cose di cui poi ci
pentiremmo, solo per trovare un po’ di conforto.”
“Credi
che faremmo quel genere di cose?”
John
alzò gli occhi al soffitto. Fece scivolare la mano sulla testa di Sherlock.
“Potremmo,” disse.
“E
credi che poi ce ne pentiremmo?”
John
non aveva una risposta.
“E
credi che ci darebbe conforto?”
Bene
o no, finirono nel letto di John.
***
Quella
fu, per John, una delle esperienze più sessuali, e allo stesso tempo meno
sessuali che avesse mai fatto. Trascorsero la notte premuti l’uno contro
l’altro sotto alle coperte, completamente nudi. Ogni tanto John ebbe
un’erezione, e così Sherlock, ma né un orgasmo né del sesso vero e proprio – o
persino contatti sessuali – si verificarono. Sherlock sembrava più interessato
ad avvolgersi completamente attorno a John, bloccandolo con i suoi lunghi arti
e premendosi strettamente attorno a lui come se cercasse di assorbirlo nel suo
corpo. Fu, in effetti, molto confortante.
La
mattina John si svegliò prima di Sherlock e rimase sdraiato per molto tempo
osservandogli il viso. Persino nel sonno la fronte di Sherlock era contratta in
una fine linea concentrata. John fece scorrere le dita lungo l’alto, definito
profilo dei suoi zigomi e le sue labbra strette.
John
sorrise, stringendolo a sé e ascoltando la pioggia.
La pioggia. Stava
ancora piovendo?
John
si accigliò e concentrò la sua attenzione sul suono della pioggia che
picchiettava contro la finestra e gocciolava dal tetto. Da quanti giorni stava
piovendo? Era troppo persino per Londra.
Sherlock
aprì gli occhi in una fessura e li richiuse. “Buon giorno,” disse, la sua voce
assomigliava a un brontolio più del solito. “Dormito bene?”
“Sherlock,
da quanti giorni sta piovendo?”
Sherlock
passò una mano sul petto di John e la posò sopra al suo cuore. “Stiamo a letto
ancora per un po’,” mormorò. “Non alziamoci ancora.”
“Va…
va bene.” A John non serviva molto per essere persuaso. Infatti, sarebbe stato
più difficile convincerlo ad alzarsi.
Alla
fine si alzò comunque, così come Sherlock. John sbrigò qualche lavoretto in
cucina, preparando il tè e riflettendo. Lanciò un’occhiata alla piastrella
rotta sopra al lavello e ascoltò la pioggia. Pensò e ripensò, ma i suoi
pensieri finivano continuamente in vicoli ciechi.
“Sherlock…”
John camminò finalmente dentro al salotto. Sherlock era in piedi davanti a una
delle finestre, nella sua vestaglia, le mani raccolte dietro di sé mentre
guardava fuori. Non si girò. “Sherlock, sai, è strano. Ti ricordi come siamo
sfuggiti a Moriarty?”
Sherlock
non rispose, alzò solo un po’ il mento.
“Non
ricordo come siamo venuti via.” John si grattò la testa. “So che suona
bizzarro. Voglio dire, continuiamo a parlarne. E soffriamo di stress per
questo… vero?”
Sherlock
emise un sospiro leggero, le spalle si sollevarono e si riabbassarono.
“In
effetti,” John si guardò attorno, “non ricordo nemmeno di essere tornato qui.
Quando siamo tornati? Quanti giorni sono passati? E siamo mai usciti da allora?
Non ricordo di essere andato fuori.”
Sherlock
si girò. La sue espressione era tesa – triste, quasi. Ammettendo che Sherlock
potesse mostrare tale espressione.
“Perché
non riesco a ricordare queste cose?” domandò John, fissandolo, pieno di
trepidazione. “Cos’è successo alla mia memoria?”
Sherlock
non parlava ancora. John fu distratto dall’acqua che precipitava nelle pentole
in mezzo alla stanza. La crepa era più grande adesso e l’acqua si stava
riversando all’interno in un flusso costante. John si inginocchiò di fianco
alle pentole e immerse le dita nel liquido freddo. Se le portò al volto annusò.
“Ha
un odore strano,” disse, più a se stesso che a Sherlock. “Sa di… cloro.”
Dalla
cucina provenne un rumore di materiale sgretolato. Altre piastrelle stavano
cadendo dal muro. John se le immaginò frantumate nel lavello. Assomigliavano
molto alle mattonelle della piscina.
John
si alzò lentamente, fissando Sherlock. Sul suo volto, Sherlock aveva lo stesso
sguardo di quando attendeva pazientemente che John realizzasse qualcosa.
“Noi
–” John esitò. “Sherlock… non credo che siamo sopravvissuti all’esplosione.”
Sherlock
sospirò nuovamente, ma questa volta era rassegnato.
“Capisci
sempre, alla fine,” disse Sherlock, “anche se ti ci vuole del tempo, John. Non
sei me, dopo tutto. Nessuno lo è. Ma tu eri comunque sufficientemente
intelligente.”
Eri.
John
sentì l’acqua scorrergli attorno alle caviglie e guardò in basso. Il pavimento
si stava allagando, l’acqua fluiva all’interno della stanza, sembrava sgorgare
dalle pareti.
“Siamo
morti,” disse John.
Sherlock
camminò verso di lui, il livello dell’acqua gli arrivava ai polpacci.
“Tu sei morto,” disse Sherlock, la sua
voce era greve. “Io sono in coma, dal quale mi sveglierò presto, ora che hai
capito tutto.”
John
lo guardò incredulo. L’acqua gli arrivava quasi alle ginocchia adesso. Udì
delle sirene all’esterno, vide le luci lampeggiare sulla superficie dell’acqua.
“Non
so davvero cosa stia accadendo, né perché,” disse Sherlock. “Forse si tratta
solo di un mio sogno. Ma ne sono grato. Sono felice che abbiamo avuto a
disposizione questo tempo per poterci dire cose che avrei dovuto dirti prima.”
“No
– tu.” John scosse la testa. “No, Sherlock. Non puoi abbandonarmi!”
Per
la prima volta da quando John l’aveva conosciuto, Sherlock apparì realmente,
umanamente addolorato.
“Tornerò,
John,” disse quasi soffocando tra le parole. I suoi occhi brillarono e le sue
labbra rosa pallido tremarono. “Lo prometto. Ma non posso, finché non avrò
trovato Moriarty e l’avrò eliminato. Devo fargliela pagare.”
L’acqua
arrivava alla vita di John ora – calda e quasi rilassante, come se lo stesse
facendo lentamente sprofondare in una dolce, silenziosa pace. John pensò che
avrebbe dovuto essere spaventato, ma non lo era. Sherlock stava di fronte a
lui, la vestaglia allargata attorno a lui sull’acqua. Guardò John con
un’espressione talmente straziata che John dovette sorridere, pensando aveva davvero un cuore, dopotutto.
“Tornerò,”
disse Sherlock, “quando l’unica ragione che ho per rimanere non ci sarà più.”
John
cadde all’indietro e affondò nel flusso crescente che gli salì fino al petto,
poi al mento.
“Non
avere paura,” sussurrò Sherlock. “È solo la morte, John.”
“Ti
aspetterò nell’acqua,” promise John, prima di scivolare sotto la superficie.
***
Sherlock
osservò, nel momento finale, Moriarty precipitare nel vapore bianco ai piedi
della cascata e colpire l’acqua. Sapeva, prima di colpirla a sua volta un
secondo più tardi, che il suo nemico era stato vinto prima di lui e fu contento
di morire.
Ogni
cosa lo abbandonò appena sprofondò: il suo respiro, il suo battito, ogni
sensazione e cognizione. L’oscurità turbinò come un grande, completo nulla che
inghiottiva l’intera essenza. Per alcuni lunghi secondi fluttuò nell’incoscienza,
e poi qualcosa prese forma.
Una
mano gli afferrò il polso. Delle labbra premettero sulle sue.
Sherlock
sorrise.
Ah, eccoti qui.
Ti avevo detto che ti avrei
aspettato. Andiamo a casa.
E
così fecero.