long ago and far away
{ once upon this broken heart of mine }
Vanno
avanti, sempre avanti, semplicemente avanti.
In realtà, Emma sa bene che non è così. Se anche
non ci fossero i ricordi – un patto siglato in fretta e furia in una sala
d’aspetto d’ospedale, un incidente d’auto, lui che nel cuore della notte è venuto
a riscuotere – basterebbe l’espressione dell’uomo al suo fianco a dirle a
chiare lettere che quel viaggio fuori programma ha invece una meta ben precisa,
che non si sono limitati a uscire dai confini di Storybrooke
per una scampagnata, lui, lei e un bambino di undici anni a fare da confine tra
realtà e sogno, tra buonsenso e assurdità.
A dirla tutta, probabilmente non ce la farebbe
se Henry non fosse venuto con lei.
«Possiamo fermarci per la merenda?»
Emma guarda Gold, una maschera di pietra con gli
occhi fissi sulla strada trafficata di una cittadina intermedia tra il mondo
delle favole e l’aeroporto di Boston. Le viene in mente di colpo che sono ore
che non lo vede sorridere – giorni: fin da quando l’ha lasciato solo in quel
negozio per l’ultima volta – e non è mai passato tanto tempo senza che le sue
labbra s’incurvassero di scherno, saccenteria, o qualsiasi cosa fosse ad
aleggiargli così spesso in volto e a farle prudere così spesso le mani, prima. Prima che la sua vita si
trasformasse in una pazza corsa attraverso il Paese delle Meraviglie. Un po’ ne
sente la mancanza, forse – o forse no.
«Non siamo in gita, Henry.»
Gentile, ma fermo. Più gentile e più fermo di
quanto non sia stata lei nel pronunciare quelle stesse parole circa un
millennio fa. Non fosse per l’improvviso e tutto nuovo istinto protettivo nei
confronti di suo figlio, Emma sogghignerebbe.
«Ma io ho fame.» Con la coda dell’occhio vede
che Henry incrocia le braccia, stringendo ancora più forte quel libro che si è
ostinato a portarsi dietro, nonostante lo sguardo duro e impaziente di Gold.
«Per favore. Solo un hamburger.»
Le nocche di Gold sono bianche come il gesso e
per un istante Emma favoleggia di volanti che sporgono denuncia per «guida
troppo concentrata». Apre la bocca per dire qualcosa, forse che c’è un takeaway
a pochi minuti di traffico o forse che non è il caso di fermarsi, dopotutto
sono appena partiti – ma le ultime parole di Henry hanno scolpito ombre nuove
là dove ogni sorriso è scomparso, e le sue le muoiono in gola.
Gold tace; Henry sospira così forte da far
vibrare l’abitacolo e rituffa il naso tra le pagine logore. Emma tormenta la
cintura di sicurezza e pensa che sarà un lungo viaggio.
Un matin nous partons, le cerveau plein de flamme,
Le cœur gros de rancune et de désirs amers,
Et nous allons, suivant le rythme de la lame,
Berçant notre infini sur le fini des mers.
Ha
scelto lei l’albergo, ma è stato lui a porgerle un portafogli pieno di dollari
perché il ragazzo potesse riempirsi la pancia e dormire in un letto caldo. Emma
non ha ribattuto nulla di particolarmente tagliente – nulla e basta – perché,
si è accorta durante quel breve contatto, le dita di Gold tremavano.
È stata una serata lunga quanto il pomeriggio,
quanto il viaggio stesso che pure è ben lontano dal concludersi. Lunga e silenziosa. A un tratto Henry è caduto
addormentato con le braccia sopra il libro aperto sul tavolo, e una cameriera
gentile si è offerta di spostarlo su un divano dall’aria confortevole in una
sala grande e vuota. Gold è sparito poco dopo, sempre avvolto da quel suo
inedito silenzio arrabbiato, mormorando delle scuse distratte. Un tempo ci
avrebbe messo più impegno, si sarebbe quantomeno sforzato di suonare più
sincero: anche di questo sente un po’
la mancanza, forse – o forse no.
Ma ora che anche Emma ha lasciato la zona
ristorante e che ha raggiunto il divano di Henry per condurlo in una delle due
stanze finanziate dai sensi di colpa del signor Gold, la sorpresa più grande si
rivela essere la presenza di lui su quello stesso divano, il modo in cui la sua
mano ancora tremante percorre i capelli del ragazzino.
Emma si ferma, ma lui la sente sempre.
«Mi perdoni, signorina Swan.
Non era mia intenzione prendere il suo posto.» Allontana la mano e alza gli
occhi, ma la luce delle lampade è troppo fioca per diradare tutto quel buio. «È
una donna fortunata. I suoi genitori sono stati regnanti buoni e saggi, e suo
figlio mostra già il coraggio e il senso dell’onore di un vero principe.»
Emma si stringe le braccia attorno al corpo,
guardando il viso sereno di Henry. Henry col suo inseparabile libro di favole,
Henry che una volta le ha detto che il
signor Gold è peggio di lei, Henry che non ha esitato a seguirla alla
ricerca del fantomatico figlio di uno stregone malvagio perché, ha detto,
«tutti meritano di ritrovare la propria famiglia»...
Di nuovo incerta su cosa dire, torna a guardare
Gold e dà sfogo al più stupido dei suoi pensieri. «Non riesco a spiegarmi il
suo accento.»
Lui batte le palpebre, educatamente perplesso.
«Il mio... cosa?»
«Lei ha l’accento scozzese. Come fa ad avere
l’accento scozzese, se non ha mai neanche visto la Scozia? Se non ha mai visto niente di questo fottuto pianeta a parte
Storybrooke?»
Gold è interdetto. Per un attimo Emma gioisce
dell’averlo messo in difficoltà – ed è come essere tornati indietro, a prima, a quando lui era solo il signor
Gold e lei era solo lo sceriffo Swan, a quando le
maledizioni esistevano soltanto nella testolina fantasiosa di quel suo
adorabile bambino di dieci anni. Sorride. Oh, ne aveva bisogno.
«Io non... so assolutamente di cosa stia
parlando.»
«Ah, lasci perdere.»
Il libro di Henry cade a terra con un tonfo,
spalancandosi. Emma va a raccoglierlo, passando così vicina a Gold da sfiorarlo
con una mano. Ma non appena si accoscia a terra resta imprigionata nella visione
dell’immagine impressa su una pagina da un pennello onnisciente: mostra un uomo
che non è un uomo, una creatura dalla pelle spessa e annerita, i capelli
arruffati, i denti aguzzi, che brandisce un pugnale solcato da una scritta
terribile e insanguinata – e allora suo malgrado ricorda, ricorda che quello che si è seduto sul divano ad
accarezzare i capelli di Henry non è
il cortese ed elegante signor Gold, ricorda che lo sguardo che si sente puntato
addosso è di quello stesso stregone malvagio che ha scritto il suo nome, e poi ancora, e poi ancora fino ad
accertarsi che un bel giorno di ventotto anni dopo lei avrebbe spezzato una
maledizione che no, non esisteva soltanto
nella testolina fantasiosa di quel suo adorabile bambino. Eppure – eppure – sembra ancora tutto così
assurdo. Senza chiudere il libro, volta il capo per cercare di fondere le due
figure, per immaginare la compostezza di quell’uomo in completo da sera
stemperarsi nel disordine di cenci e stracci, la sua pelle tendersi e indurirsi
e...
Non arriva a concepire niente di tutto ciò. Il
signor Gold, l’Oscuro, Rumpelstiltskin, sta piangendo.
Emma resta così sorpresa da dimenticare tutto il
resto, consapevole soltanto della ruga nuova che quell’unica lacrima evasa ha
scavato in un volto che di colpo non è più né arrabbiato, né addolorato, solo
immensamente stanco.
L’uomo non fa nulla per nascondergliela.
Dopotutto, perché dovrebbe? Non ha più alcun motivo di mascherarsi dietro mezze
parole, dietro sorrisi sghembi; lei, la
Salvatrice, è qui e lo sta aiutando... lo sta aiutando.
Lentamente, Emma si allontana dal libro e dalla
mano di Henry che penzola sul ritratto di Rumpelstiltskin.
Adesso tra lei e l’uomo seduto, chiunque egli sia, c’è solo un passo di
distanza. Vorrebbe toccarlo, forse asciugare quella lacrima, perché no – ma non
osa.
«Non immaginavo che lei fosse... fosse così.»
La voce che le viene in risposta è bassa e
spenta, come l’ultimo anelito di una fiamma estinta. «Così come?»
«Così umano.»
Ed ecco che il sorriso ricompare, uguale ma
diverso: non è il sorriso con cui le ha detto che il suo nome era meraviglioso,
non è il sorriso con cui le ha offerto aiuto e chiesto perdono – è il sorriso
che le ha rivolto quando lei gli ha detto di non fidarsi di lui, quello con cui
l’ha avvertita che un figlio lo perdi prima di accorgertene, quello che ha
avuto sulle labbra per tutta la notte che ha passato in cella a girarsi e
rigirarsi tra le dita una tazza scheggiata. Emma si chiede se stia pensando a
quella sua Belle, a suo figlio, alla moglie che Uncino gli ha portato via – o
se piuttosto non stia pensando a lei, semplicemente a lei, perché ormai a Rumpelstiltskin non
resta nient’altro che la Salvatrice di cui ha scritto il nome più e più volte
in attesa che quei ventotto anni annullassero il tempo stesso...
Il disagio la ghermisce non appena alla mente si
affaccia il dubbio. Allora si scuote, cerca di allontanarsi – solo per
ritrovarsi imprigionata di nuovo, stavolta nella stretta di una mano che non
trema più, chissà perché, non trema più.
Il suo respiro sul viso è rovente e i suoi occhi
così vicini brillano di nuovo – non di vita, no; di qualcosa di più simile alla
disperazione.
«Tu... Tu devi sapere.»
Emma trattiene il fiato: la voce sempre così
calda, così roca, a volte persino così dolce
di Gold si è trasformata in un ringhio lamentoso – è questa la voce di Rumpelstiltskin?
«Tu vedi del buono in me, perché mi vedi
soffrire. Fate sempre così, tutte voi, non è vero? Vedete il dolore e pensate
che il dolore nasca solo dal bene. Vi
sbagliate. Il dolore nasce dal male più nero. È colpa mia se ho perso mio
figlio. È colpa mia se ho perso lei.
Perderò anche te, sì, anche te... quando saprai...»
Una traccia di alcool gli intorpidisce il
respiro. Emma si divincola, si volta a sincerarsi che Henry dorma ancora. «Gold,
è ubriaco... Mi lasci...»
«Tu devi
sapere» e sta di nuovo piangendo, Rumpelstiltskin,
l’Oscuro, il signor Gold, piange senza lacrime, singhiozza di rabbia e di
chissà quante altre cose mentre le stringe il polso così forte da farle pensare
che le impronte delle sue dita – dei suoi
artigli? – non se ne andranno mai più. «Io non sono umano. Non lo sono da troppo tempo per riuscire anche solo a
ricordarmene. L’ho creata io quella maledizione, sono stato io a farti crescere
senza una famiglia che ti circondasse e ti proteggesse, e l’ho fatto solo perché tu
un giorno mi riportassi dalla mia. Ti
ho usata, ti ho voluta, ti ho ideata. Mia, mia, mia, mia» e ora improvvisamente ride, e lei non sa cosa dovrebbe farle
più paura, se i singhiozzi o quella risata acuta e folle o la confessione che
le ha appena fatto – è stato lui, ancora
lui, sempre lui! «Vedi ancora umanità in me, Emma Swan?
Vedi ancora del buono nel mostro che ti sta davanti? Io sono il codardo.
Nessuno può amarmi. Io non sono come
credi.»
«Mamma...?»
La stretta svanisce così di colpo che Emma,
ritrattasi il più possibile dal divano, ricade seduta sul tappeto. Cerca
freneticamente Henry con lo sguardo. Sta bene, è solo confuso e assonnato. Gli
si aggrappa come un naufrago al suo unico appiglio, chiudendo forte il libro e
cacciandoglielo tra le braccia prima di aiutarlo ad alzarsi.
«È tutto a posto, Henry, il signor Gold ed io
stavamo discutendo sulla nostra tabella di marcia. Andiamo a letto, ci aspetta
un’altra giornata infinita...»
Docilmente, Henry si lascia trasportare via dal
divano, via dalla sala, via dal posto in cui Emma Swan
ha guardato per la prima volta negli occhi il mostro che è padrone di tutta la
sua vita. Nessuno dei due si volta indietro.
Pour n’être pas changés en bêtes, ils s’enivrent
D’espace et de lumière et de cieux embrasés;
La glace qui les mord, les soleils qui les cuivrent,
Effacent lentement la marque des baisers.
Il
mattino sorprende una macchina già pronta a partire, ma persone ancora lontane
dal chiarirsi.
In piedi nello spiazzo fuori dall’albergo, Henry
guarda dall’uno all’altra con aria incerta. Ha intuito che qualcosa non va, naturalmente.
Emma non è sicura di quel che fa, quando lo invita ad aspettare in auto, ma
ormai ha deciso – forse non in questa vita, forse altrove, nella terra
dell’inevitabile in cui è nata e morta nello stesso giorno.
Gold si appoggia con tutto il suo peso sul bastone.
Ha l’aria, anche lui, di chi non ha
dormito molto. Ha fatto in modo di non incontrarla nella hall, ma ora che si
fronteggiano in un parcheggio vuoto parlarsi appare inevitabile.
«Signorina Swan, la
prego di scusarmi per il mio comportamento della scorsa notte. Non sono sicuro
di poter sostenere questo viaggio. Io...» La guarda, ed è di nuovo il signor
Gold, il tenutario del negozio dei pegni, un uomo oscuro e pieno di segreti ma
pur sempre un uomo. «Io comprenderò, se non vorrà venire con me.»
Una resa, ecco cos’è. Emma sa che potrebbe
finirlo, potrebbe. L’idea la lusinga:
il male che lui le ha fatto equivale solo – solo a quanto le ha fatto del bene.
«Mi ha strappata alla mia vita. Mi ha fatta crescere
senza un solo punto di riferimento al mondo. Ha riservato a mio figlio la
stessa sorte. L’ha fatto per sé.»
Districa la stretta delle braccia; non ha più bisogno di quella miserevole
barriera – tanto non è mai bastata, non con lui. «Ma in qualche modo, e mi
sento una stupida a crederlo – so che
l’ha fatto anche per me.»
Gold non cambia espressione, non nega né
conferma. La guarda soltanto. Nel suo silenzio volano parole, echi di frasi che
Emma non ha dimenticato ma alle quali
semplicemente non vuole pensare. Forse non era a lei che parlava, la
scorsa notte. E forse comunque non sta a lei giudicare un’anima disperata.
Si dirige senza fretta allo sportello del
conducente. «Beh, viene o no? Abbiamo un patto, mi sembra.» Si volta a lanciargli
una smorfia, mostrando le chiavi abilmente sottratte dal suo portafogli prima
di pagare il conto. «Ma solo se da qui in poi guido io.»
È con un’espressione appena più serena che lui
china il capo e si muove nella direzione opposta. S’incontrano a metà strada,
giusto il tempo di una domanda sussurrata, di un tocco fugace di giacca e
giacca.
«Perché?»
Emma lancia uno sguardo a Henry, seduto nel
sedile posteriore dell’auto, gli occhi accesi e persi tra le parole del libro.
Le devo
ancora un favore,
pensa.
«Tutti meritano di ritrovare la propria famiglia»
dice.
Passa un minuto o un’eternità – non ha più molta
importanza – e il viaggio ricomincia con dei finestrini aperti da cui forse un po’ di rancore riesce a volare
via. Emma sorride quando il signor Gold propone a Henry una sosta nella prima
gelateria da qui a Boston.
«A proposito» interviene, lieta della piacevole
sorpresa che dallo specchietto vede dipinta sul viso di Henry, «qualcuno qui ha
una storia da raccontarmi.»
«Non è una storia breve» assente Gold, Rumpelstiltskin, il padre che ha perduto suo figlio.
«Abbiamo tempo.»
«Non è una storia facile.»
Sbuffa. «Ho scalato una pianta di fagioli, combattuto
un gigante e impedito che una pazza furiosa mi strappasse il cuore. Non fatevi pregare, Rumpel.»
Innesta il cambio e acquista velocità. «So già come inizia: c’era una volta...»
Sarà un lungo viaggio. O forse no.
Spazio dell’autrice
In
primis chiariamo una cosa. Il finale dell’episodio 2x12 mi ha fatta esplodere come non potrete mai, e
sottolineo mai, immaginare. Il trailer
del 2x13 ha fatto il resto. E la parte più pessima (ESATTO) della mia inner fangirl ha preso il
sopravvento. That’s it. *going down with the ship*
A dire
la verità non lo so che cosa ho scritto. Da un certo punto in poi i personaggi
si sono animati di vita propria e hanno detto quel che volevano dire e hanno
fatto quel che volevano fare, attacchi isterici e accenti di voce compresi. Io non
c’entro niente, giuro su tutti gli dei esistenti e mai esistiti che questa
storia non l’avevo immaginata così e al tempo stesso non poteva essere che così.
Il
titolo viene da Once upon
a broken heart delle Beu Sisters, mentre le due strofe
appartengono alla poesia Le voyage di Charles Baudelaire. E sì, se ve lo state
chiedendo, ci sono triliardi di riferimenti ad altre
mie storie, perché mi andava. Perché mi sembrava giusto, ecco. Perché questa
storia è un po’ la sintesi di tutto il mio fanshipping,
e del perché continuo ad amarli e del perché li amo sempre un po’ di più ♥
Aya ~