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Autore: miss potter    24/01/2013    2 recensioni
Di quella volta in cui John riuscì a fare qualcosa di "interessante" per il proprio cinico coinquilino.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so se per dispetto o per semplice smania di rendermi insopportabile, ma da qualche giorno avevo iniziato a ricordare al mio coinquilino che mancava davvero poco al suo compleanno, data che mi fu resa nota da Mycroft, all’insaputa del fratello, come premio per essere riuscito a fargli perdere la scommessa su chi, tra Inghilterra e Italia, avrebbe vinto agli ultimi europei di calcio.
Ebbene, Sherlock non ne rimase propriamente felice quando lo venne a sapere – perché lo venne a sapere – e mi ordinò di non rendere pubblico l’evento all’infuori dei suoi già abbastanza appiccicosi parenti sparsi per mezza Gran Bretagna e di me, comunicandomi poi di non desiderare alcun genere di regalo né tanto meno una festa a sorpresa e non. Pena: l’evirazione.
“Ma Sherlock! È il tuo compleanno!” insistetti, un giorno.
“Cosa c’è da festeggiare? Un passo in meno verso l’inesorabile caduta nell’abisso del disfacimento corporeo?” fu la risposta.
Tuttavia, non mi diedi per vinto. Avevo combattuto battaglie ben più difficili di quella e, sebbene in tempo di pace Sherlock Holmes fosse la mia battaglia più dura, decisi comunque di fargli un regalo. Niente di che. Una cosa per tenerlo distratto dai suoi tentativi di far esplodere la casa, dare fuoco al gatto della vicina o corrodere il piano cottura in cucina con l’acido cloridrico.
Quel giorno arrivò, insieme ad un acquazzone di dimensioni cosmiche e al mio conseguente e sicuro raffreddore. E, come promesso, non organizzai nessuna festa.
Palloncini, festoni, invitati e trombette vennero messi al bando e Sherlock decise di celebrare il suo “giorno in meno verso il decesso” poltrendo sul divano e rigirandosi tra le dita affusolate la sua pistola che, grazie al cielo, ebbi il buon senso di disarmare prima di uscire di casa.
Rientrai al 221B zuppo e tossicchiante, stretto nel mio pressoché inutile impermeabile verde bottiglia e col regalo di Sherlock sottobraccio.
“Cos’è quello?” chiese con sufficienza senza aver apparentemente staccato gli occhi dall’arma.
Mi tolsi la giacca fradicia, levai le scarpe e lo raggiunsi in soggiorno cercando di sfoderare uno dei miei più accondiscendenti sorrisi di remissività.
“Domani è il tuo compleanno, no?” dissi con cautela, porgendogli il pacco regalo.
Sollevò gli occhi cerulei dalla pistola e fissò quel piccolo oggetto cubico, avvolto da una carta da regali rosso fiammante e da un bel fiocco argentato, come solo si può guardare uno sventurato topo sventrato marcire al centro della carreggiata. Poi, spostò lo sguardo dal pacchetto a me, mantenendo quell’espressione tra il sorpreso e il disgustato.
“Sai come la penso sui regali” brontolò mettendosi seduto e appoggiando l’arma sul tavolino di fronte.
Gli allungai ulteriormente il pacchetto, eccitato come un ragazzino a una festa di compleanno e risi della comicità della cosa. A me era sempre piaciuto ricevere qualcosa per il compleanno. Che fossero calzini, agende oppure orribili maglioni di lana non importava. Era il pensiero ciò che contava.
“Non potresti semplicemente dire ‘grazie, John. È stato davvero carino da parte tua’?”
Quello sguardo d’orrore misto all’imbarazzo più totale si intensificò ancor di più tra le sfumature blu e grigie dei suoi occhi.
Contro ogni previsione, afferrò il pacchetto di malavoglia e se lo rigirò tra le mani soppesandone il contenuto, forse sperando di indovinarne la natura.
“Non è un orologio. Sai che li detesto in quanto un insulto alla mia naturale predisposizione al rispetto delle tempistiche, oltre che ridicolamente banale. Ma non è nemmeno un gioiello. Troppo… impegnativo” commentò, agitando una mano a mezz’aria come per scacciare una mosca, o un pensiero troppo… impegnato.
Arrossendo di quel poco, presi posto vicino a lui sul divano, incrociando le braccia al petto ed accavallando le gambe, in attesa che si decidesse ad aprire il regalo invece che sproloquiare come al suo solito.
“Aprilo e basta” mi lamentai, strofinando le mani sui jeans umidi di pioggia.
Sfiorò delicatamente il fiocco argentato che avvolgeva la carta e lo sciolse con destrezza per poi passare al resto.
Mantenni il fiato sospeso, certo che non avrebbe compreso il significato di quel regalo.
In effetti, si limitò a rigirarselo tra le dita conservando un’apatia davvero snervante per i miei gusti, tanto che temetti che davvero non sapesse cosa avesse in mano.
“È un rompicapo che…”
“… fu inventato nel 1974 da un professore di architettura e scultura ungherese di nome Erno Rubik. Lo so, John” mi interruppe senza staccare gli occhi dal piccolo cubo colorato e cominciando a farne scattare i meccanismi.
Sorrisi soddisfatto e rincuorato dal fatto che sì, anche Sherlock Holmes avesse avuto un’infanzia come il resto della popolazione mondiale. Non si sa mai.
“Beh, ti piace?”
“È… interessante.”
Lo presi come un ‘sì, John, davvero grazioso’ e mi bastò, anche perché non mi pareva che avesse molta voglia di continuare a conversare con me. Sembrava infatti completamente stregato da quei piccoli quadratini policromi e mi parve di vederlo sprofondare nell’ala più recondita e oscura del suo palazzo mentale, dove poi si sarebbe trincerato per un tempo indefinito.
Infatti, lo lasciai sul divano, ipnotizzato dai meccanismi del gioco, per liberarmi dei vestiti umidicci e riscaldarmi sotto il getto caldo della doccia. Feci con calma, mi insaponai i capelli, li risciacquai con lentezza, godendomi la schiuma scivolare sul mio corpo e lavare via la stanchezza della giornata, poi mi strinsi nel mio soffice accappatoio giallo canarino, asciugai i capelli e mi misi il pigiama. Il tutto con le tempistiche di un bradipo zoppo.
Quando tornai in salotto, non potei trattenere una risata. Il mio coinquilino era ancora lì, a gambe incrociate sul divano, intento a risolvere quell’enigma che, temetti, gli avrebbe tolto il sonno.
“Non avrai mica intenzione di spenderci tutte le ore del giorno e della notte dietro a quel coso, vero?” lo stuzzicai, dirigendomi poi in cucina per mettere su il tè.
Non rispose.
“Sherlock?”
“Mh?”
“Hai sentito quello che ti ho detto?”
“Ah, ah.”
“Allora?”
“Allora cosa?”
Sbuffai e allentai la presa sui miei nervi che non avevo intenzione di tormentare dopo la rilassante doccia di poco prima.
Riempii il bollitore e lo misi sul fuoco, appoggiandomi poi di schiena sul bancone della cucina per osservarlo in silenzio.
Sembrava un ragazzino di dieci anni. Si rigirava il cubo tra le lunghe dita, parlottava a bassa voce tra sé e sé, tentava varie combinazioni di colori, sacrificava mosse, ritornava al punto di partenza e ricominciava.
Ad un tratto, pareva che fosse riuscito a completare una faccia, quella dei bianchi, ma dovette tornare indietro perché c’era un blu di troppo e due rossi di meno. Mi stavo divertendo più io di lui, poco ma sicuro.
Il bollitore fischiò e ne versai il suo contenuto nella teiera dove poi misi a galleggiare il filtro.
“Sherlock, vuoi del tè?”
Ancora nessuna risposta.
Gli portai la sua tazza in soggiorno e l’appoggiai sul tavolino di fronte, di fianco alla pistola. Almeno, pensai, il muro della signora Hudson era salvo.
“Beh, sono quasi le nove. Io… io vado a letto, eh? Mi raccomando, non stare sveglio tutta la notte dietro a quell’affare” dissi senza ottenere nessuna reazione dall’altra parte, nessuna che non includesse qualche maledizione sussurrata all'indirizzo degli scatti dei meccanismi del gioco.
Bevvi il mio tè in un sorso e mi addormentai quasi subito, col sorriso sulle labbra e la felice consapevolezza di aver fatto qualcosa di… interessante, per  Sherlock.


La mia sveglia suonò puntuale, alle sette e mezza.
Amavo la mattina, a Londra. La solita e familiare nebbia bussava timida e opalescente alle finestre socchiuse della mia camera e la debole luce dell’aurora s’insinuava delicata dalle fessure delle persiane, avvolgendo tutto in quella calda e vibrante atmosfera che adoravo respirare al 221B. Ci sarebbe voluto proprio un buon caffè.
Mi stiracchiai pigramente e scesi le scale a piedi nudi, strofinandomi gli occhi. Ma la visione che mi apparve dinnanzi avrebbe potuto tranquillamente competere con la bellezza di tutte le nebbie britanniche e albe del mondo.
Sherlock era disteso sul divano, a pancia in su, la testa appoggiata al bracciolo, leggermente reclinata sulla spalla sinistra. Tra le mani, intrecciate sull’addome, il cubo di Rubik, risolto.
Mi avvicinai in punta di piedi, ridendo sotto i baffi. Dormiva come un sasso. Doveva essere rimasto sveglio fino a notte fonda e anche oltre per soddisfare quella sua stupida, insostituibile, unica smania di egocentrico orgoglio.
Lo coprii con il plaid che tenevo ben piegato sulla mia poltrona e gli scostai un ricciolo ribelle che gli era ricaduto sugli occhi.
Respirava piano e regolarmente.
Nulla, a pensarci bene, avrebbe potuto competere con la bellezza di Sherlock Holmes dormiente alle sette e trentotto di una comunissima mattina di febbraio inoltrato.
“Buon compleanno, scemo” gli sussurrai all’orecchio, dove poi lasciai un leggero, timido bacio.






Author's Corner: I know. Dovrei semplicemente smetterla con tuuuuuutto questo fluff implicito o no che sia.
Che ci volete fare? E' la mia dose al sette percento quotidiana, e non ne posso fare a meno.
Aspetto le vostre recensioni!

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