Quattrocentodue
1831 – 1848
Diciassette anni
dopo
Alja e Feri navsegda
Da chi ancora sta
aspettando le rose di un anno fa
Stasera sto riabbracciando
Voi tutti e me stesso un po’
Mi stavo dimenticando
Che
grande famiglia ho
(La Grande Festa, Pooh)
Krasnojarsk, 25 Febbraio 1848
Tanti auguri di un eterno batticuore
E
che quel che sembra amore poi lo sia
(La Grande Festa, Pooh)
-Sei sicura, mamma? Sei sicura?-
Appollaiata a gambe
incrociate sul letto di sua madre, Céline guardava Natal’ja intrecciarsi i capelli
davanti allo specchio, con gli occhi scintillanti e un sorriso indecifrabile.
Era bella, sua madre, con
i lunghissimi capelli biondi indomabili a cui però lei riusciva sempre a fare
tutte le pettinature più prodigiose e la limpidezza diamantina di uno squarcio
di cielo rubato al sogno più bello nei grandi occhi grigiazzurri.
Bella con l’abito bianco
del suo secondo matrimonio, nonostante sotto le palpebre avesse ancora e
avrebbe avuto sempre gli spilli di cristallo delle lacrime per il suo primo
marito.
Bella con i suoi ventidue
anni che sarebbero durati ancora due giorni, perché il 27 Febbraio sarebbero
scoccati i ventitré, il suo primo compleanno
dopo la morte di Gee e l’ultimo, l’ultimo compleanno della vita di Lys.
Bella con i bagliori della
sua nuova realtà stretti forte tra i pugni, infranti sulle nocche bianchissime.
Una realtà che sarebbe
durata solo tre mesi, ma tre mesi in cui avrebbe realizzato tutti i sogni,
accarezzato tutti i cieli e illuminato tutti gli amori.
Una realtà in cui sarebbe stata la moglie di Feri
Desztor.
Alja si girò di scatto
verso la figlia.
Alcesti Caelie Gibson,
nove anni compiuti, i suoi stessi lunghi e ondulati capelli biondissimi, i suoi
stessi splendenti occhi d’argento.
Il suo stesso amore per Gee.
La prima figlia che aveva
avuto dal suo grande amore greco, quell’invincibile ragazzino dai capelli
nerissimi che col suo cuore tra le dita e ventisei anni passati troppo in
fretta era stato impiccato, ma la forca di Riyadh non era bastata a
strapparglielo.
Forse la sua piccola,
adorata Céline non sarebbe riuscita a capirlo, perché lei stava per sposare
Feri, perché lei di Feri si era innamorata davvero, diciassette anni prima, e adesso era il loro turno.
Le accarezzò fugacemente
una guancia, fugacemente come faceva lui prima di un duello o di una battaglia,
e le sorrise, le sorrise come una giovane donna innamorata maledettamente
sicura di quello che stava per fare, ma con ancora la paura di ferire i suoi
figli.
-Sono sicura, Line-
-Lui... Lui non è come papà. Lui è cattivo, mamma. Lui voleva ucciderlo, papà-
-Lui non è cattivo,
tesoro. Lo è stato, qualche volta lo è
stato. Ma è disperato, Line.
Mi ama come nessuno al mondo è in grado di amare
senza morire, Feri-
-E tu quanto lo ami, mamma?-
-Come prima. Come sempre. Come lui-
Céline strinse i denti e
annuì.
Lo perdonerai.
Un giorno lo perdonerai anche tu, Line.
Il Capitano ucciderà tua madre, ma salverà
Forradalom.
Aiace se ne stava
imbronciato sul suo letto, con le ginocchia strette al petto e l’aria
corrucciata.
I capelli nerissimi più
arruffati che mai, perfino più di quelli di suo padre, gli occhi color carbone
densi di tristezza e delusione, le labbra piegate in una smorfia.
Mamma, perché?
Perché mi fai questo?
Io lo odio, il tuo Capitano.
Ma non ce l’aveva con lei,
nonostante tutto.
Non sarebbe mai riuscito
ad arrabbiarsi davvero con la sua Natalys.
Era come Gee, Aiace.
Dentro magari era
distrutto, i suoi occhi magari avevano pianto fino a sprofondare in un buio
feroce, come strappati dalle fiamme, ma
la perdonava sempre, anche a costo di star male di più.
Alja, insieme a Sparta, era tutta la sua vita.
Era sua madre, la ragazza più fantastica che avesse mai conosciuto,
anche se, a voler essere proprio pignoli, mancava quel piccolo dettaglio, alla
fine abbastanza insignificante.
Non era stata lei a partorirlo.
Aperta sulle sue ginocchia
c’era la Vita Parallela di Coriolano e
Alcibiade del mitico, grande Plutarco, uno degli scrittori preferiti di suo
padre e suoi.
Nella Vita di Alcibiade, poi, c’era una frase che pareva essere scritta
da Plutarco apposta per Gee.
“Ebbe molte e violente passioni, e la più accesa fu
lo sfrenato desiderio di essere sempre il primo - come è evidente dalle storie
che si ricordano della sua giovinezza”.
Le storie che si ricordano
della sua giovinezza...
Beh, di suo padre ci si
poteva ricordare solo della
giovinezza.
Era morto a ventisei anni, Gee.
Era bella, quella Vita.
Bella e straordinariamente
toccante, ma in quel momento Aiace era terribilmente distratto.
Si era perso più o meno
nel punto in cui Caio Marcio Coriolano, esiliato da Roma per volere della
plebe, si presentava a casa di Tullo Aufidio ad annunciare la sua intenzione di
schierarsi con i Volsci, ed era per questo che adesso il glorioso libro si
trovava riverso sulle ginocchia del primogenito undicenne di Geórgos di Spárti.
Il 21 Novembre di
quell’anno avrebbe compiuto dodici anni e sarebbe stato definitivamente orfano.
Avrebbero ucciso Alja, la
sua adorata Alja, l’avrebbero uccisa gli
Zaristi.
Lui non lo sapeva, non lo sapeva ancora.
Sarebbe corso da lei e
l’avrebbe convinta a tornare subito a Sparta, lontana da Feri Desztor, dalle
disperate, vane illusioni di libertà
dei Forradalmi e da quella Russia schiava dei Romanov, se solo l’avesse
sospettato.
Ma non sapeva, e l’unica cosa a cui riusciva pensare a quel momento
era l’imminente matrimonio di sua madre con il tanto odiato Feri Desztor,
ventottenne eroe ungherese e futuro carnefice dello zar.
Anch’io andrò in chiesa, oggi.
Sorriderò a lei e fulminerò con lo sguardo lui.
Magari mi porterò dietro la Vita Parallela di
Coriolano e Alcibiade, leggerò della congiura contro Coriolano proprio mentre
lui dirà il suo “igen” e immaginerò con tutte le mie forze che al posto di
Marcio i Volsci stiano massacrando Feri Desztor.
Stringerò forte la mano di mia sorella e cercherò
lo sguardo di mio fratello, rubando un po’ di coraggio a loro.
Il coraggio di sopportare che, dopo la morte di mio
padre, con la celebrazione di un maledettissimo matrimonio ortodosso, con tanto
di fede portata all’anulare destro, mia madre appartenga ad un altro uomo.
A quel bastardo d’uno zingaro ungherese.
Proprio a lui.
Nella sua mente, Aiace
sarebbe piombato in chiesa a metà del rito, avrebbe percorso di corsa la navata
verso quella disgraziata di sua
madre, l’avrebbe afferrata brutalmente per un polso e le avrebbe sputato in
faccia le parole più velenose che fosse riuscito a trovare.
Le avrebbe gridato come
osava fare questo, fare questo a suo
padre, al grande eroe spartano Geórgos dei Kléftes, ch’era stato cremato
sul Taigeto con tutti gli onori solo l’anno prima, nel fiore dei suoi ventisei
anni e nel fiore del loro matrimonio.
Gliel’avrebbe gridato con
le lacrime agli occhi e il sangue nel cuore e lei sarebbe scoppiata a piangere
e crollata in ginocchio contro il pavimento freddo della Cattedrale,
spiegazzando il suo bellissimo abito bianco e spettinando i suoi capelli
biondi.
Avrebbe scosso la testa,
si sarebbe tolta la fede dal dito, avrebbe guardato Feri e tra le lacrime
avrebbe mormorato che non poteva, no, non
poteva sposarlo, non poteva tradire il suo defunto marito, il suo unico amore, perché anche lei,
come Didone di Cartagine sulle ceneri di Sicheo e contro tutte le stelle del
cielo aveva fatto un giuramento di eterna fedeltà.
Poi sarebbe uscita e con
un debole ma luminosissimo sorriso gli avrebbe teso la mano, lui gliel’avrebbe
stretta e sarebbero usciti insieme dalla chiesa, seguiti da Céline e Nikolaj, sarebbero
saliti sulla prima nave per i Balcani e sarebbero tornati a Sparta.
Non sapeva ancora, Aiace,
che Natal’ja aveva già detto addio alla Grecia, che ormai era troppo tardi per
tornare, troppo tardi perché il 5 Maggio
1848 era troppo vicino.
Nella sua mente, Aiace
avrebbe distrutto ancora una volta tutti i sogni d’amore di Feri Desztor nei
confronti di sua madre, avrebbe
calpestato anche l’anima di Forradalom.
Pur di strappare Natal’ja
a quel mondo in cui era nata ma che presto l’avrebbe uccisa.
Pur di strappare Natal’ja a quella fatale
Rivoluzione.
Eppure non ce l’avrebbe
fatta.
Non ce l’avrebbe fatta neanche lui.
Nikolaj, forse, dei tre
fratelli Gibson quel giorno era il più tranquillo.
Era con Malintzin Desztor
al Campo di Rose, e la guardava con gli stessi occhioni turchesi adoranti con
cui sette anni dopo, quindicenne, le avrebbe chiesto di sposarlo.
Tra le dita si rigirava
una ciocca dei capelli della ragazzina, nerissimi come i suoi, e sorrideva,
sorrideva fino a star male, a star male
dalla felicità.
Forse era già innamorato
allora, forse quasi.
Di sicuro, Nikolaj e Malintzin sarebbero stati gl’innamorati
più simili a Natal’ja e Feri che fossero mai esistiti.
Nikolaj irraggiungibile
come sua madre, ma per via dei mille tormenti psicologici e dell’epilessia,
Malintzin troppo innamorata e troppo masochista, ma alla fine ce l’avrebbe fatta, a salvarlo.
A sposarlo.
Ad amarlo e ad essere amata per sempre da lui.
Il futuro Capitano di Forradalom.
-Tu sei contento, Kolja? Sei contento che tua madre sposi mio zio?-
Nikolaj annuì
solennemente, anche se con una stretta al cuore.
Suo padre, dall’Ade, cos’avrebbe pensato di lui?
-Non è vero- sentenziò la
piccola ungherese - islandese - siberiana, guardandolo un po’ di traverso, ma
in fondo sempre con dolcezza.
Non ce la faceva, ad avercela con lui, perché lui
aveva ragione.
Era difficile tradire un padre, o almeno credere di
tradirlo.
Anche se quel padre era
morto, anche se quel padre...non c’era
più.
Solo allora Niko ebbe il
coraggio di chiederglielo.
-Dici che lui
la perdonerà?-
Gee, in fondo, Alja
l’aveva perdonata sempre.
Perché quella volta avrebbe dovuto essere diverso?
Forse perché lui era morto e lei avrebbe sposato
Feri?
Oh, no, davvero.
Non sarebbe stato affatto diverso, neanche quel
giorno.
Feri aveva un sorriso
radioso, assolutamente diverso da quello che gli aveva graffiato le labbra
negli ultimi quindici anni.
Aveva ventotto anni, quasi
ventinove, e per lui che sognava di sposarsi a diciotto, nell’ormai lontano
1837, quel giorno sarebbe stato il più dolce e luminoso da quando era nato.
Innamorato di Natal’ja da diciassette anni e
finalmente ricambiato.
Lui e Lys l’avevano deciso
la notte prima, di sposarsi.
La notte prima, quando avevano fatto l’amore.
Ora non sarebbe mai più rimasto
senza di lei.
La piccola Natal'ja, la ragazzina che aveva salvato
da Omsk, la sua ossessione da quando aveva dodici anni.
La stella di Forradalom,
l’angelo dei Desztor.
Lui l’aveva sempre amata.
L’aveva aspettata per
diciassette anni.
Abiti eleganti non ne
aveva, così anche quel giorno era vestito come al solito, come un selvaggio e
sregolato zingaro ungherese.
La camicia bianca con le
maniche arrotolate fino all’avambraccio, rivelando troppe delle sue
maledizioni.
Sul suo polso destro,
incastrato tra il viola - azzurro delle vene e il candore niveo della pelle, quel
0348 nitido come il primo giorno, come
uno sfregio mortale.
E più su, sulle braccia,
su ogni lembo di pelle lasciato scoperto, un fitto intreccio di cicatrici di
guerra, gloriosi solchi di proiettili zaristi, tanti da lacerare la vista.
Bello di quella sua
bellezza vissuta e distrutta, consumata da tre anni di prigionia, diciassette
di amore non corrisposto e cinque di Guerra Civile.
Bello, ma tanto, tanto da
far mancare il fiato, con i suoi capelli neri sempre scomposti e gli occhi neri
dal taglio più nordico che mai.
Si capiva, si capiva
subito, ch’era uno zingaro, un ribelle, un criminale.
Si capiva che al Manicomio
lui ci aveva lasciato troppe stelle e troppi sogni trascinati con le mani
sanguinanti, come cadaveri alla deriva, ma gliele avrebbe restituite Alja,
gliele avrebbe restituite il cielo.
Il cielo negli occhi di sua
madre fucilata a trentun anni, il cielo negli occhi di un fratello minore così
amato che per la sua salvezza, per la sua
innocenza, Feri aveva sacrificato tutto il suo futuro.
Ma per il suo Jànos ne era valsa la pena.
Quanto poteva costare tenere
gli occhi aperti, vedere e non piangere, asciugare le lacrime dei suoi fratelli
ed essere il più forte di tutti solo per loro?
Non certo troppo, mai troppo, per uno come lui.
Per uno che aveva perso la
ragione e il cuore nel suo sacrificio, e per questo sarebbe stato condannato
sempre, perché troppe volte gli sarebbe mancata la pietà.
Ma stava per sposarsi, adesso, Feri Desztor.
Stava per sposarsi e non
sentiva più le cicatrici.
Solo le mani gelide e tremanti di Natal’ja sulla
pelle come la notte prima.
Dio, con quale intensità,
quale feroce bramosia aveva desiderato l’amore e il corpo di quella
ragazzina...
L’anima, tutto quanto.
L’oro dei suoi capelli, l’argento
dei suoi occhi, lo sconcertante bianco della sua pelle, la luce del suo cuore e
dei suoi sogni.
La purezza che ormai la sua piccola Lys aveva
perso, il coraggio che le avrebbe portato via la vita.
Feri si guardò distrattamente
allo specchio.
I pantaloni grigi
sgualciti con cui aveva vinto così tante battaglie, gli stivali di pelle nera dei
tempi del servizio militare del 1840, lo sguardo stravolto dall'estasi e dall’emozione.
Sul comodino accanto al
suo letto, i mozziconi delle ultime ventisette
sigarette che aveva fumato quella mattina.
Forse era un attimino
troppo agitato...
Ma ancora non poteva crederci, che tra pochissimo
Natal’ja sarebbe stata sua.
Sua.
Solo sua.
Sua per sempre.
Geórgos di Sparta era
morto e non poteva più venire a rivendicarla, non poteva più portargliela via.
Mai più.
Valle
a chiedere scusa e basta
In un mondo più no che sì
(La Grande Festa, Pooh)
-Riferito
a Farkas e Natal’ja-
Mancava poco meno di un’ora
al matrimonio, quando Natal’ja sentì bussare alla porta.
Con i capelli intrecciati
a metà e l’abito sgualcito del giorno prima andò ad aprire con una distratta
noncuranza, dato che non aspettava nessuno di preciso, ma c’erano tantissime
persone che avrebbero potuto cercarla in quel momento, praticamente tutta la sua Forradalom.
Per questo quando vide
Farkas Dragan con uno strano sorriso sulle labbra e uno sguardo che davvero Lys
non riuscì a capire, la biondina quasi lasciò andare l’estremità dell’elaborata
treccia a cui stava lavorando in quel momento e la cui rovina avrebbe
irrimediabilmente compromesso la tanto sospirata acconciatura, e il cuore le
balzò il gola.
D’istinto indietreggiò quanto
più poté, con gli occhi sbarrati e il respiro spezzato, ma lui, stranamente,
rimase sulla soglia, con il solito sorriso serafico e una vaga aria di scherno.
Dopo dieci anni quel ragazzo le faceva ancora quel
terribile effetto.
Ma Alja sentiva i lividi e
le cicatrici di dieci anni prima scottare ancora sulla pelle ogni volta che
vedeva anche solo di sfuggita il biondino rumeno o uno dei suoi degni compari
di Shtorm.
-Stai tranquilla, Natal’ja.
Non ti farò mai più così male. Non
io.
Non sono io, il cattivo della tua storia. Davvero, non sono io. Purtroppo non sono io.
Volevo solo chiederti... Sapere s’era vero. È vero che tu e il
Capitano... È vero che tu e Desztor... È
vero che vi sposate?-
-È vero, Farkas-
Era la prima volta che lei, Natal’ja di Forradalom,
la ragazza che più aveva odiato in tutta la sua vita, forse senza un vero
motivo, lo chiamava per nome.
Farkas.
Gli diede una sensazione
stranissima, indescrivibile, ma non necessariamente sgradevole.
Come un brivido attraverso
le ossa.
Un brivido come un raggio di sole.
Poi scrutò intensamente gli
attenti occhioni celesti della biondina, sgranati e molto probabilmente
spaventati, e non riuscì a trattenere una risata di scherno, perché era cresciuto,
sì, aveva ventisette anni adesso, e dal 1838 ne erano passati esattamente
dieci, ma non sarebbe mai cambiato davvero del tutto.
-Non guardarmi così, Nataljetshka. Sai benissimo che se per tua disgrazia tornassimo indietro a quel 26
Luglio ti massacrerei di botte esattamente come quel giorno.
Te lo vuoi mettere in
quella tua adorabile testolina bionda o no, che
te le meritavi tutte?-
-Non l’ho ucciso io, il vostro prezioso Ivan-
-Ma tuo cugino l’ha ucciso
per te. È praticamente la stessa cosa-
-No, non lo è. E comunque
allora non lo sapevo. L’ho scoperto quel giorno. Solo quel giorno-
Farkas digrignò i denti.
-Ma non cambiano le cose- sputò con ferocia -Ivan era come un padre per me e gli altri.
Tu lo sai, Natal’ja, lo sai, com’è morto il mio vero padre...
Non potevo permettere che
qualcuno dicesse che non avevo saputo vendicare neanche lui-
-Vai via.
Adesso vai via- gl’intimò Lys, con la voce tremante ma ugualmente risoluta.
Farkas le percorse
lentamente una guancia con un dito gelido, puntandole addosso i suoi occhi
azzurrissimi assottigliati all'inverosimile e iniettati di sangue.
-Tanti auguri per le tue
seconde nozze, Zirovskaja. Tanti auguri, sgualdrina-
-Vai via... Via!-
Natal’ja lo spinse lontano
dalla soglia quanto bastava per chiudersi la porta alle spalle e la sbatté con
tutte le sue forze, quella porta, scossa.
Nonostante fossero passati
dieci anni, Farkas Dragan, il ragazzo che il 26 Luglio 1838 alle porte di
Shtorm l’aveva quasi uccisa di botte con i suoi amici, rimaneva e sarebbe rimasto
uno dei pochi uomini di cui aveva ancora una paura folle, probabilmente il terzo dopo lo zar e Viktor Zarkhov.
E c’è chi non credevo amico
E
invece sbagliavo io
(La Grande Festa, Pooh)
-Riferito
a Natal’ja e Farkas-
-Alja!
Chi era? Come stai? Oh, mio Dio, sei
spaventosamente pallida...-
Agitatissima, l’ormai
venticinquenne Helga Björg Dolokova Desztor, con la lunga treccia bionda
ondeggiante sul semplice vestito bianco e gli occhi azzurri colmi di
preoccupazione, corse incontro alla sua amica più giovane.
Era incredibile come la
ragazza più altera e glaciale di Forradalom fosse diventata dolce e materna, negli ultimi anni.
Forse perché una madre lo
era davvero, dal 1840.
E poi perché erano cresciuti tutti, in quei
diciassette anni, i ragazzi di Forradalom.
-Tutto bene... Tutto bene,
Hell. Davvero-
-Sei sicura?-
Natal’ja annuì e la
biondina islandese le scoccò uno sguardo sospettoso, niente affatto convinto,
ma non le chiese altro.
-Allora vieni di là e
continuiamo coi capelli, se vuoi far svenire il tuo bel Capitano sulla navata,
schianto che non sei altro. Non hai lasciato l’estremità della treccia, vero? Non hai osato?-
-Tranquilla, Hell...-
sorrise Alja, e l’Islandese tirò un sospiro di sollievo.
-Hai i capelli più belli di tutta la Russia, ma se
avessi mandato all’aria tre ore di pettinatura per un attimo di distrazione
giuro che te li avrei strappati uno per uno-
-Non l’ho fatto...-
-Buon per te, tesoro.
Torniamo di là, allora-
Di là,
ovvero in camera di Lys, le aspettava anche Hajnalka, con millecento nastri per
le mani, la spazzola stretta tra i denti e la pazienza al limite.
Solo Natalys poteva decidere di organizzare un
matrimonio in un giorno.
O meglio, di
farlo organizzare a loro.
Non che per quello di
Helga avessero avuto poi molti giorni di anticipo.
Jànos aveva preteso di trascinarla all’altare il
giorno stesso ch’era tornato dalla Norvegia con Feri e Lys, e poi era successo
qualcosa di simile.
Lei e Lörinc rimanevano gli unici due Forradalmi
non ancora sposati.
Lö si poteva dire che avesse
sposato l’Esercito Cosacco e le selvagge e sconfinate steppe del suo
Kazakistan, ma lei...
Lei sarebbe mai riuscita a convincere Theodorakis?
Quel benedetto Spartano le
avrebbe mai concesso un matrimonio, un’unione ufficiale?
Quasi quasi lo odiava, in quei momenti.
E le si stringeva un nodo
allo stomaco, se pensava che Natal’ja, la sua migliore amica, a ventidue anni
era già alle seconde nozze...
E ancora una volta con un uomo che l’aveva
praticamente implorata di sposarlo, giorno e notte per diciassette anni.
Suo fratello.
Ma sarebbe arrivato il
giorno...
Sarebbe giunto il
momento...
Theo gliel’avrebbe chiesto, prima o poi.
Con le fiamme di una
devastante speranza a lacerarle il cuore e lacrime tremanti dietro le palpebre,
si sforzò di sorridere a Lys ed Hell quando entrarono.
-Tutto bene, Haj?-
-Tutto bene, certo-
Tutt’al più
Mi offenderai
E poi mi caccerai
Dicendomi che oramai
No, non t’interessa più
Una ragazza che
Serviva solamente
Per divertirsi un po’
(Tutt’al più, Patty Pravo)
-Riferito
ad Hajnalka e Theodorakis-
L’abito bianco di Lys non
era un vero e proprio abito da sposa.
Era di satin, sì, il
candido satin niveo che Alja adorava, sebbene un po’ stropicciato e non proprio
all’ultima moda, di un modello molto semplice e piuttosto modesto -come si confaceva ad una miserabile fiammiferaia
di periferia, una volgare zingarella dei vicoli, avrebbero malignato le
ragazze di buona famiglia-, ma a Lys piaceva tantissimo ugualmente, tanto più
che lei gli abiti davvero eleganti non li sapeva proprio indossare.
Pareva un normale abito da
giorno giusto un pochino più raffinato, che sarebbe stato adatto per una festa
di paese, non certo per le Assembly Rooms di Bath o per i migliori saloni di
Mosca e San Pietroburgo.
Perlomeno,
aveva commentato molto praticamente e forse fin troppo maliziosamente Jàn, Alja sarebbe riuscita a non ammazzarsi
inciampandovi e Feri non ci avrebbe messo troppo tempo a toglierglielo, la prima
notte di nozze.
Nell’insieme, avevano tutti il sospetto che Lys
sarebbe stata un incanto, quel giorno.
Guerrieri del Nord dai capelli
gessati
Ne hai visti passare!
(Emilia, Lucio Dalla, Francesco
Guccini & Gianni Morandi)
Mancava esattamente
mezz’ora al matrimonio e la pettinatura di Lys era quasi pronta, quando bussarono ancora
alla porta.
-Vado io-
decise immediatamente Hell, risoluta.
-Tu, Haj, finiscile le
trecce, e tu, Lys, non muoverti-
Entrambe grugnirono in
risposta, ed Helga sorrise soddisfatta.
Il bussare alla porta, nel
frattempo, s’era fatto sempre più impaziente e furioso.
Sembrava che stessero
letteralmente per buttarla giù, quella povera porta.
-Chi è?- gridò
la prudente Islandese, e una voce cupa le rispose:
-La Terza Sezione-
Ad Hell mancò il fiato, e
invano cercò di dare alla porta un inesistente quinto giro di chiave.
-Abbiamo un mandato d’arresto per Natal’ja Zirovskaja.
Aprite immediatamente la porta-
La voce era terribilmente
seria e minacciosa, ma in sottofondo c’era anche...
Una risata.
Una risata isterica, già.
In un comprensibile moto
di stizza, Helga spalancò la porta.
-Ebbene, Pál Desztor?-
Il biondino ungherese fece
finta di niente, sfoderando il più angelico dei suoi meravigliosi sorrisi, ma
diede una gomitata al fratello minore, che stava dando veramente un pessimo
spettacolo.
-E tu, Csák, vedi di darti
un contegno. Se continui a ridere così rischi
di soffocarti-
Era incredibile, davvero.
Pál aveva trentaquattro
anni, quasi trentacinque, e Csák ne aveva appena compiuti trentuno.
Eppure erano ancora i soliti inguaribili dementi di
sempre.
-Natal’ja Zirovskaja la
potrete arrestare solo dopo che
vostra sorella avrà finito di acconciarle i capelli, siamo intesi?!-
Ma...
-Dove sono i miei eroi troppo biondi e troppo
ungheresi?-
Inseguita da un’esasperata
Hajnalka armata di spazzola e nastri azzurri, Natal’ja si precipitò tra le
braccia dei suoi fratelli adottivi, ai quali saltò al collo senza alcuna pietà
per la sua elaboratissima, praticamente eterna
acconciatura.
Helga si mise le mani tra
i capelli.
Hajnal le rivolse un
sorriso impotente, scrollando le spalle.
Esattamente come Pál e
Csák erano due autentici decerebrati...
Natal’ja era un disastro assoluto come sposa.
Ci avevano pensato Pál e
Csák, poi, a finire d’intrecciare i capelli a Lys, strabiliando Hell e
smentendo ogni sua drammatica aspettativa.
Per essere due soldati avevano discrete abilità
come acconciatori, i suoi cognati.
Sette minuti prima del
matrimonio, Natal’ja era miracolosamente pronta, con i chiari capelli
splendidamente acconciati che spiccavano come oro vivo sul vestito
bianchissimo, le ballerine bianche e il cuore ormai fuori controllo.
Pál la guardava con un
orgoglio quasi paterno e Csák con un pizzico d’invidia per suo fratello, che
presto l’avrebbe avuta tra le braccia e nel letto, quella deliziosa ragazzina.
Alja intuì i suoi pensieri
dall’ammirazione del suo sguardo e gli scoccò un’occhiataccia.
Loro erano fratelli, no?
E lui viveva per l’Esercito.
-Mi sto solo rallegrando per la fortuna di mio
fratello- si giustificò
l’Ungherese, a voce talmente bassa che lo sentì solo lei e Lys sorrise.
-Se lo dici tu...-
-Oh, Aj’latan, ma lo sai! Tu sei troppo giovane per me!-
-Per fortuna!-
Lys gli fece la linguaccia
e lui rise, scuotendo la testa.
Era ancora una bambina, Nataljetshka.
Non si era lasciata
distruggere né dalla prigione né dalla guerra, e neanche da Feri.
Per questo suo fratello ne
era tanto perdutamente innamorato.
Forse se ne sarebbe
innamorato anche lui, se non fosse stato Tenente di Cavalleria.
E se lei non fosse stata sua madre e sua sorella.
-Posso accompagnarti io in chiesa?- le chiese d’un tratto, d’un fiato.
Sapeva bene ch’era Jànos
il suo testimone, ma glielo chiese lo stesso.
-Ma Jàn...-
-Tu stai sempre con Jàn! E poi è già stato il tuo testimone una volta, lui-
-Va bene...- sospirò lei,
ma con gli occhi che le ridevano.
-Ti prego, Lys...-
-Ho detto che va bene!-
-Ah... Va bene?-
Gli occhi neri del giovane
Desztor s’illuminarono.
-Va benissimo, Csák-
Il biondino ungherese le
tese una mano, radioso.
-Sembri una principessina austriaca appena scappata
da Schönbrunn per rifugiarsi nel Wienerwald dal suo amante brigante, uno
zingaro danubiano-
-In un certo senso...-
Csák le pizzicò
affettuosamente una guancia e le sorrise.
-Finalmente vi sposate,
eh? Tu e il tuo amante ungherese...-
-Già... Finalmente-
Come entrò in chiesa,
però, Natal’ja perse ogni parvenza di compostezza.
Del resto, come avrebbe
potuto fare altrimenti, con Jànos che molto seraficamente, incurante del luogo
sacro, fumava una sigaretta, e Feri che, in preda ad un inquietante nervosismo
isterico, ordinava le candeline delle offerte ancora spente in gruppi piramidali da cinque?
-Мой
Капитан!- gridò, prima di lasciare la
mano di Csák e di corrergli incontro.
Gli saltò letteralmente al
collo e lo baciò, senza nessuna considerazione per gli “spettatori”.
Aveva sbagliato momento, ne era consapevole.
Ma a sposarsi, quel giorno, erano il Capitano e la Regina
di Forradalom.
-Lys, i capelli!- le gridò Helga, disperata, ma la biondina non la
ascoltò, e quando si sciolse dall’abbraccio di Feri era tutta arruffata
esattamente come al solito, ma ugualmente innegabilmente bellissima.
Feri Desztor из
Forradalom -
Красноярск, 25
Февраль 1848 -
Алья и Feri
навсегда.
Feri Desztor iz (di) Forradalom - Krasnojarsk, 25
Fevral’ 1848 - Al’ja i Feri navsegda.
Navsegda.
Per sempre.
Inciso in grafemi
piccolissimi, perché era una frase dannatamente lunga per una fede nuziale -ma
il Capitano era stato piuttosto persuasivo
con l’orefice-, ma pur sempre...meraviglioso.
Faremo insieme un’altra casa
Io e te che siamo un’altra cosa
Io e te che siamo la stessa cosa
Faremo insieme la nostra casa
(L’altra donna, Pooh)
[...]
Quanto amore dal tuo sonno
Lui svegliò per sé
(Per te qualcosa ancora, Pooh)
[...]
Lei si spoglia e gli dice
O sei pazzo o sei Dio
A mischiare il tuo mondo col mio
Lui è artista di strada
È un poeta, un cow boy
Contro cosa si è messo non sa
Lei è stella e non viene
Da un giardino del cielo
Ma da dove nessuno va via
(Stella, Pooh)
Quando Natal’ja si era addormentata, dopo la
loro prima vera notte d’amore, poiché col sopraggiungere del sonno aveva
allentato la stretta sulla mano di Feri, il Capitano aveva fatto delicatamente
scivolare via le sue dita da quelle di Lys e si era alzato ad accendere il camino.
Lei il freddo non lo
sentiva, ma fuori infuriava un inverno feroce, e la sua pelle era così gelida...
Era lui che scottava, di febbre e
d’amore.
Non era per dire, Feri aveva davvero trentanove e mezzo di
febbre.
Gli era salita quella
mattina, con i preparativi del matrimonio, e di notte, con Lys tra le braccia,
era aumentata vertiginosamente.
Era una reazione corporea
tremendamente esagerata, ma quando aveva infilato la fede all’anulare destro di
Lys -secondo il rito ortodosso- gli era sembrato d'impazzire per la seconda
volta.
Ma stavolta di felicità.
Mentre lui armeggiava con
la legna e il fuoco, Alja lo cercò nel letto con una mano.
-Мой
Капитан...- lo chiamò in un mugolio
assonnato, non trovandolo.
-Arrivo, моя
любовь- la rassicurò dolcemente Feri,
raggiungendola.
Aveva un’aria stravolta,
lui, a piedi nudi sul pavimento gelido, con i pantaloni infilati di fretta da
poco e con la cintura slacciata, poiché temeva che il rumore della fibbia
potesse svegliare Lys, senza camicia e con i capelli nerissimi sconvolti, gli
occhi lucidi e due occhiaie spaventose.
-Stai bene?- gli chiese Alja, sorridendogli.
-Insomma...-
Aveva ancora la febbre
altissima, ma un languore dolcissimo nel cuore e una tale voglia di baciarla...
Fu Lys a baciarlo, poi,
tendendogli la mano e trascinandolo di nuovo con lei sul letto.
-Я
люблю тебя- gli sussurrò
poi, guardandolo seriamente negli occhi.
Lui la strinse a sé e
sospirò, estasiato.
Non le rispose, non ce
n’era bisogno.
Quante volte gliel’aveva gridato nei sogni, col
Danubio ancora azzurro e la vita ancora sua, quante volte gliel’aveva giurato
tra le lacrime e il cuore infranto nella realtà...
Quella volta non glielo
disse, ma lei lo sapeva.
Feri Desztor era davvero guarito da Omsk.
Una fretta d’amore, senza pensare
Senza forse nemmeno poesia
Ma adesso cammino con un figlio per mano
E i suoi occhi somigliano ai tuoi
(Destini, Pooh)
Krasnojarsk, 17 Marzo 1848
Stella è la femmina del capobranco
Chi la tocca non ha futuro
Nei cunicoli della città
Stella ha bucato la frontiera, stella
Si strappa dalla sua catena
Finalmente è lei che sceglierà
Non è un letto di piume che inseguono
Ma un progetto di libertà
(Stella, Pooh)
Quel giorno Feri compiva
ventinove anni, ma per la luce quasi abbagliante che gli splendeva nei begli
occhi color ossidiana, sempre allegri e ridenti, ne dimostrava diciannove.
Quei diciannove anni che
per lui avevano comportato una crescita perfino più violenta che i tre
trascorsi ad Omsk, perché a diciannove anni, nel 1838, Feri aveva ucciso per la prima volta. Brillavano, adesso, gli occhi
del Capitano, brillavano in ogni istante del giorno, ogni giorno, e di autentica
felicità, non più arsi e logorati dalla passione disperata che fino all’anno
prima aveva rischiato di ucciderlo.
Passione per ogni cosa che faceva, passione per
Natal’ja.
La prima era sempre stata
la sua unica forza, la seconda repressa e tenuta prigioniera nel cuore. Erano finiti, quei tempi.
Quei tempi in cui lo
chiamavano “eroe”, ma davanti a lei finiva sempre sconfitto.
Quei tempi in cui faceva
la Rivoluzione per una ragazza che non c'era.
Per una ragazza che non
poteva tornare.
Erano finiti, e adesso era suo marito.
Lei era Natal’ja Eileen
Desztor, la sua donna.
La sua.
Feri sorrideva sempre e
non la lasciava mai.
Era disperatamente felice,
come non era mai stato.
Di una felicità che lo
provava fisicamente, che gli scottava sulla pelle come un sole vivo, un sole
che aveva rotto il cielo di ghiaccio della Siberia e gli aveva strappato il
cuore, gli aveva regalato Lys.
Gli aveva restituito la sua Lys.
Quella del 1834.
Quella di prima per
partire per Liverpool.
Era così tenero e buffo
che quei suoi ventinove anni non li dimostrava per niente.
Sembrava ancora un
bambino, il piccolo Feri Desztor di via Rákos, il ragazzino innamorato del
Danubio e della sua Budapest che i suoi fratelli chiamavano kicsi hős, piccolo eroe.
Non era mai veramente
finita, l’infanzia di Feri.
Non gliel’aveva uccisa la Fortezza di Omsk.
Quel giorno compiva
ventinove anni, ma era quasi impossibile da credere.
Lui ventinove anni li
aveva dimostrati molto prima, ma adesso proprio no.
Quella mattina, Natal’ja
era nel suo letto, nel loro letto, ma
Feri non c'era, era uscito da poco. Con i capelli biondi sciolti e sparsi sul
cuscino, un lembo del lenzuolo stretto tra le dita e il cuore che le batteva
forte.
Chissà se lui se l’aspettava, se l’aveva previsto.
Chissà se ci aveva mai pensato.
Sicuramente nel 1834,
prima che lei partisse per Liverpool, ci aveva pensato.
Nonostante fossero
entrambi così giovani, ci avevano pensato.
Così, per sognare un po’.
Avevano sognato un figlio.
Feri l’aveva sognato senza
di lei, in uno dei tanti giorni in cui lei non c’era stata, con un buio di
stelle di ghiaccio negli occhi, nella penombra della sua camera.
Un sogno spezzato da Gee, che gli aveva strappato
l’unica madre che lui avrebbe voluto per quel figlio.
E da allora, i figli di
Natal’ja erano stati solo i figli di Natal’ja.
Lui non c’entrava niente.
Poteva guardarli, poteva
sorridergli.
Ma da loro, nel 1843, era riuscito anche a farsi
odiare.
Ma adesso, adesso era successo...
Ed era suo figlio.
Il loro figlio.
Il figlio di Natal’ja e Feri.
Era successo davvero.
Con un sorriso sognante si
passò le mani sulla pancia fin troppo piatta per la sua solita eccessiva
magrezza, e socchiuse gli scintillanti occhi argentei.
Non vedeva l’ora che
tornasse Feri.
Non vedeva l’ora di dirglielo.
A ventitré anni appena
compiuti, la sua quarta gravidanza.
Il primo figlio del Capitano.
Chiunque l’avesse vista in
quel momento senza conoscerla -cosa comunque abbastanza improbabile, dato
ch’era in sottoveste a letto in camera di Feri-, probabilmente non avrebbe
trovato nulla di strano nel suo entusiasmo e nella sua felicità.
Ma Lys...
Beh, diventare madre non
era mai stato il suo sogno.
Né da bambina né da
adolescente né da giovane donna quale era adesso.
Era cresciuta, questo sì.
Non sarebbe mai diventata
una madre modello, ma avrebbe cercato di limitare i danni il più possibile.
Era ancora e sarebbe stata
sempre troppo incosciente, ma per fortuna c’era Aiace, che nonostante i suoi
undici anni e mezzo era di gran lunga il più responsabile della famiglia, l’unico
davvero in grado di ridimensionare un po’ quella scapestrata di sua madre.
A quasi dodici anni Aiace
sembrava già un uomo.
Era il figlio di un soldato quindicenne ucciso
troppo giovane e di una sorta di prostituta di lusso senza cuore e con dieci
anni in più di lui.
Lisistrata aveva
letteralmente sedotto suo padre, che con lei aveva tradito la piccola Natal’ja,
la sua fidanzata e promessa sposa russa allora undicenne.
Lui si era sempre sentito in colpa nei suoi
confronti per questo.
Era il figlio dell’amante, e detestava il pensiero di aver fatto soffrire
Lys anche quando era ancora troppo piccolo per potere rendersene conto.
Era questa, la fragilità
di Aiace.
Era troppo simile a Gee.
Gee, il suo Gee.
Lys ci pensava sempre, sempre.
Non avrebbe mai dimenticato
i suoi occhi ridenti, i suoi capelli spettinati, la sua pelle scura e il suo
accento greco.
Non avrebbe mai dimenticato il suo primo marito, il
padre dei suoi primi quattro figli.
Mai.
Per Gee aveva pianto per un
anno intero, giorno e notte, come non aveva mai fatto in tutta la sua vita.
Sul rogo funebre di Gee sarebbe morta anche lei,
bruciata viva per amore.
Non l’aveva fatto.
Theo non gliel’aveva permesso.
Theo l’aveva salvata,
strappata e portata via di lì.
E adesso lei aveva regalato a Feri quel che restava
del suo cuore, certa che Gee l’avrebbe perdonata, perché lui era un uomo
d’onore.
Gee avrebbe capito ch’era
diverso.
Alja amava davvero Feri, ma in modo troppo diverso
da come aveva amato lui.
D’improvviso sentì i suoi
passi, il rumore dei suoi stivali.
Feri era tornato.
Il cuore prese a batterle
così violentemente da tuonarle nelle orecchie come l’eco di una di quelle
battaglie ormai lontane, le battaglie rimaste a Sparta e nell’ultimo sguardo di
Gee.
Alja affondò la testa nel
cuscino, nascondendo sulla federa candida un sorriso inquieto ed emozionato.
Quando Feri si avvicinò al
letto, vide solo una massa di capelli biondissimi scomposti e sentì il battito
furioso di un cuore non meno eroico del suo, da qualche parte sotto i capelli.
-Alja?-
mormorò, tra il confuso e il divertito.
-Cosa stai facendo, esattamente?-
Si sedette sull’orlo del
letto e la sentì strillare.
-Капитан!
Мой волосы!-
Kapitan! Moy vólosy!
Capitano! I miei capelli!
-Извините!-
Izvinite! Scusa!, si affrettò a
scusarsi lui, spostandosi.
-Allora?- gli chiese dopo
un po’ la biondina, impaziente.
-Allora... Cosa?-
-Come lo vuoi chiamare?-
-Ah! Jàn si è finalmente fatto spedire un petauro dello zucchero dalla Nuova
Guinea?
Ma sei sicura che il nome
lo lasci decidere a noi?-
-Нет...-
-E allora...-
-Feri, мой любовь...-
-Che c’è?-
-Potresti spiegarmi perché se ti parlo di nomi tu
pensi che Jàn abbia ordinato un petauro dello zucchero?-
-Beh, perché ce ne parla
da anni... Lui va pazzo per quel genere di roditori. E per le cavallette-
-Tuo fratello è completamente scemo, мой
Капитан-
-Ѐ anche tuo fratello, Lys!-
-Certo. Lo so-
Feri sorrise,
accarezzandole dolcemente i morbidi e serici capelli dorati.
-Di che nome stavi parlando, allora?-
Natal’ja, finalmente,
emerse dalle profondità delle lenzuola e gli lanciò uno sguardo smarrito e
preoccupato.
-Beh...-
Gli cercò una mano e
gliela strinse forte.
-Feri...-
-Да?-
-Я
беременная- Ya
berémennaja, Sono incinta, sussurrò lei, tutto d’un fiato.
A quel punto, avrebbe
voluto che lui dicesse qualcosa.
Che le rispondesse, magari.
Ma quando lo fece, avrebbe
preferito mille volte che non avesse mai detto niente.
-Di me?-
Alja dapprima sgranò gli
occhi scioccata, ma rimediò subito, o quasi.
-Di Jànos-
replicò, assolutamente seria.
-Ti ho mai raccontato di
quella notte in cui... Prima che ci
sposassimo, ovviamente-
-Tu non sei mai andata a letto con nostro
fratello...- sentenziò il
Capitano, tranquillo.
-Нет-
ammise Natal’ja, dopo un po’ -Non ancora-
E in tutto questo
probabilmente Feri non aveva ancora capito il concetto fondamentale.
Se non avesse saputo almeno a grandi linee che il
1848 era il suo ultimo anno di vita, Lys avrebbe sperato di essere ancora in
tempo per sposare un uomo intelligente.
In realtà, né Gee né Feri
era veramente stupido...
Ma avevano entrambi la straordinaria abilità di
sembrarlo, per la maggior parte del tempo.
Alja guardò Feri con occhi
pieni di speranza e aspettative di una fulminante illuminazione...
Che arrivò.
-Ждать...
Ты
беременная?!-
Ždat’... Ty berémennaja?!
Aspetta... Sei incinta?!
Il Capitano aveva lanciato
un grido altissimo, più alto dell’urlo di guerra dei Cosacchi, e Lys per poco
non era precipitata giù dal letto.
-T...tak-
mormorò in polacco, con un fil di voce -A...
Appunto-
-Беременная!-
ripeté Feri, fuori di sé.
E Lys sperò con tutto il
cuore che non fosse sul punto di abbracciarla, perché gli abbracci di Feri in
quelle situazioni facevano molto, molto
male...
-Sono incinta, quindi non mi massacrare-
Lo abbracciò lei, ma piano
piano, con delicatezza.
Anche se comunque Feri era
un po’ come Aiace, la rocca degli Achei.
La rocca di Forradalom.
Poco o niente avrebbe potuto
scalfirlo, tantomeno la piccola Lys.
Piccola solo con lui, dato che, tolto Feri, era la
più alta di tutti i Forradalmi.
-Мой сын?! Én fiam?!-
Moy syn? (russo), Én fiam (ungherese): Mio figlio?!
-Nostro,
Feri. Nostro. Mica solo tuo!-
-Oh, certo...-
Feri si sdraiò sul letto accanto
a lei, tenendole la mano con occhi sognanti.
-Come lo vuoi chiamare?-
Il giovane Ungherese alzò
gli scintillanti occhi neri sulla parete di fronte a lui e incontrò, in ordine,
lo sguardo sognante e fiero di Aleksandr Sergeevič Puškin e quello
risoluto e ardito di Emel’jan Ivanovič Pugačëv.
Li guardò a lungo,
pensieroso, dopodiché declamò, con un sorriso abbagliante:
-Aleksandr Emel’jan Ferovič Desztor-
Natal’ja inarcò un
sopracciglio biondo, anche se a dir la verità quei nomi le piacevano
tantissimo.
-Anche se è una femmina?-
-Нет,
нет, ждать...-
Njét, njét, ždat’...
No, no, aspetta...
-Se è una femmina...
Lidija, come la sorella di Nočen’ka... Ѐ un bel nome, no?-
-Красивый- Krasívyj, Bellissimo, rispose Alja, con
un sorriso.
-E poi... Fammi pensare,
Zsófike in russo... Sof’ja-
-Lidija Sof’ja Ferovna
Desztor?-
-Esattamente-
-Oh, beh... Ѐ stupendo-
Feri intrecciò le dita
alle sue e socchiuse gli occhi.
Nel cuore aveva tutti i
grandiosi progetti degl’innamorati folli, degli eroi vittoriosi, degli uomini a
un passo dal Paradiso.
-Lo so-
Quando tu ti stai vestendo mentre ti
vorrei spogliare
Le altre vite precedenti ce le siamo raccontate
E facciamoli avverare questi sogni a mezza estate
Guardo il cielo sopra al mondo, e se il futuro è una scommessa
Basta solo la conferma che ami me come te stessa
Sempre più
(Sogno a mezza estate, Pooh)
[...]
Un messaggio senza età viaggia da
quel mondo
Chiama cuori coraggiosi persi o messi
al bando
Cerca naufraghi d’amore, sconosciuti
eroi
Nessuno è mai tornato, perché il
futuro è là
Non c’è nessun frutto proibito, non
c’è dolore
(Dove comincia il sole, Pooh)
Lo zar aveva saputo che
Natal’ja Zirovskaja era incinta di Feri Desztor, ed era troppo pericoloso.
Lo zar l’aveva saputo, e aveva preso i suoi provvedimenti.
Era assolutamente necessario distruggere il futuro
della Rivoluzione.
Can
you hear the drums, Fernando?
Do you still recall the fateful night
We crossed the Rio Grande?
I can see it in your eyes
How proud you were to fight
For freedom in this land
Riesci a sentire i tamburi Fernando?
Ricordi ancora la fatale, spaventosa notte
In cui abbiamo attraversato il Rio
Grande?
Riesco a vederlo nei tuoi occhi
Com’eri orgoglioso di aver lottato
Per la liberta in questo paese
(Fernando, Abba)
Krasnojarsk (Shtorm), 5
Maggio 1848
Can
you hear the drums, Fernando?
I remember long ago
Another starry night like this
In the firelight, Fernando
You were humming to yourself
And softly strumming your guitar
I could hear the distant drums
And sounds of bugle calls
Were coming from afar
They were closer now, Fernando
Every hour, every minute
Seemed to last eternally
I was so afraid Fernando
We were young and full of life
And none of us prepared to die
And I’m not ashamed to say
The roar of guns and cannons
Almost made me cry
There was something in the air that night
The stars were bright, Fernando
They were shining there for you and me
For liberty, Fernando
Though we never thought that we could lose
There’s no regret
I had to do the same again
I would my friend, Fernando
Riesci a sentire i tamburi, Fernando?
Mi ricordo molto tempo fa
Un’altra notte stellata come questa
Alla luce del fuoco, Fernando
Stavi canticchiando da solo
E strimpellavi dolcemente la chitarra
Potevo sentire i tamburi lontani
E suoni di tromba venivano da lontano
Ora erano più vicini Fernando
Ogni ora e ogni minuto sembravano durare in eterno
Ero così impaurita, Fernando
Eravamo giovani e pieni di vita
E
nessuno di noi era preparato a morire
Non mi vergogno a dire
Che il rumore dei fucili e dei cannoni
Mi faceva piangere
C’era qualcosa nell’aria, quella notte
Le stelle splendevano, Fernando
Brillavano per me e te
Per la libertà, Fernando
Anche se non ho mai pensato che potessimo perdere
Non ho rimpianti
Se avessi la possibilità di rifarlo ancora
Lo rifarei, amico mio, Fernando
(Fernando, Abba)
Forradalom era bruciata.
Distrutta, calpestata.
Non c’era più niente, a
Forradalom.
Non c’era più niente di loro.
Le loro case in fiamme, i
loro sogni riversi.
E Natal’ja...
Feri lo sapeva, era come
se lo sapesse.
Natal’ja era morta, lo sentiva.
Quanto tempo era passato
dal giorno del loro matrimonio?
25 Febbraio 1848 - 5 Maggio 1848.
Molto meno di tre mesi.
Ma Natal’ja era incinta.
Di tre mesi.
E se era morta...
Eppure, Feri l’aveva
sempre saputo.
I martiri, gli eroi dovevano essere loro.
La sua pelle bruciava, la
sua mente era febbricitante.
Non aveva più una moglie.
Non aveva più un figlio.
Aveva perso la Rivoluzione.
No, non voleva tornare
quello di prima.
Non voleva morire davvero.
Non voleva perdere lei.
-Где моя
жена?! Где мой
сын?!-
Gdjé moya žyna?! Gdjé moy syn?!
Dov’è mia moglie?! Dov’è mio figlio?!
Feri strattonava
violentemente il suo fratello prediletto, che in quel momento odiava.
Jànos aveva le lacrime
agli occhi, ma a lui non importava.
-Mi vuoi dire dove sono, maledetto bastardo?!-
Poi svenne, stremato dalla
sconfitta e dalla disperazione.
Non poteva finire così.
Non poteva essere finito tutto.
-Che cos’hai tu in più di me, Jànos?! Cos’hai in più per aver sposato la donna che ami,
per aver avuto due figli da lei, per essere felice?! Cos’hai in più negli occhi
e nel cuore, nella pelle, nel destino? Hai il mio stesso sangue, io ho dato il mio sangue per te... E poi
perché?!
A cosa è valso salvarti, se tu non sei riuscito a
salvare lei?
Lei era tutto quello che
avevo, era tutto, era tutto! Tu hai
rovinato tutto... Tu...
Non ti è bastato il mio sacrificio?!-
Jàn non sapeva cosa dire,
era sconvolto e disperato, e in cuor suo gli dava ragione.
-Мне
жаль... Мне жаль...
Я не хотел... Я
не хотел...-
Mne žal’... Mne žal’... Ya ne khotel... Ya ne
khotel...
Mi dispiace... Mi
dispiace... Io non volevo... Non volevo...
-Che cos’hai in più per essere ancora vivo?!-
In quel momento, Feri l’avrebbe
anche ucciso.
L’avrebbe ucciso lui.
La sua Alja, il suo
amore...
Sua moglie, suo figlio...
Tutti morti, tutti persi, tutto finito!
Lui lo sapeva, che Natal’ja
era morta per salvare Jànos.
Suo fratello.
Ma era morta anche per
salvare lui.
Ed era soprattutto colpa
sua, perché lui per primo aveva salvato Jànos.
Quel maledetto bastardo di Jànos.
Il suo fratello
prediletto, un traditore.
Un ragazzino che non
valeva neanche un attimo, neanche un raggio di quella Rivoluzione. Neanche un frammento del suo cuore.
Jànos, marito, padre,
vigliacco.
Disertore.
Usurpatore.
Per chi era morta, la sua
Natal'ja?!
Per una nullità che aveva
sempre avuto tutto.
Il tutto degli altri.
La sua prima vera felicità.
-Non sei più mio
fratello... Ma perché, Jàn? Cosa ti
avevo fatto di male?!
Cos’avevo visto in te quando
ti ho coperto gli occhi, quando ti ho strappato a quel dolore sacrificando la
mia mente, la mia ragione, cos’ha visto Alja in te quando ti ha strappato alla
morte, quando si è fatta ammazzare al tuo
posto?! Cos’avevi di tanto speciale?!
L’infanzia. I sogni ancora intatti. La bellezza di un cielo eternamente limpido.
La purezza, l’innocenza. Il sorriso chiaro, senza cicatrici.
Avevi tutto quello per cui noi abbiamo sempre
combattuto, vero? Tu ce l’avevi già...
Noi siamo morti per difenderlo. Per difenderti. Tu sei la cosa più preziosa che
avevamo...
E grazie a Lys non ti ho perso-
Feri si era calmato, si
era calmato a metà del suo folle discorso, perché Jànos piangeva, e le lacrime
del suo fratellino le aveva sempre asciugate lui, a qualunque costo.
-Perdonami, Jàn... Perdona questo tuo stupido fratello invidioso.
È vero, tu sei tutto.
Sei tutto anche per me. Tu sei il futuro, Jàn. Sei il futuro di
Forradalom, di Budapest, mio e di Lys-
Jànos sorrise, straziato e
commosso, e gli buttò le braccia al collo.
Certo che l’avrebbe
perdonato.
Sempre.
Come poteva non farlo?
Lui era il suo eroe.
Feri era il presente.
Feri e Natal’ja erano il presente.
Il presente in fiamme.
-Lo vivrò per te, per voi, il futuro. Solo per te e
per la nostra Lys, mio adorato Feri.
Sangue del mio sangue, luce della Rivoluzione-
Per i sogni infranti.
Le lacrime di un cielo
squarciato, mortalmente ferito.
La follia, l’impotenza.
Il sangue negli occhi e
sulle labbra.
Il sorriso fragile, il
cuore spezzato.
Per Natal’ja e Feri, le stelle finite.
Jànos aveva la vita.
La forza della vita.
Meritava la vita.
Jànos, eroe della vita, per la vita.
Jànos aveva il permesso, il diritto di vivere.
Jànos era così bello, così
dolce, così vero...
Jànos avrebbe ricevuto la grazia dallo zar.
Gli voglio troppo bene, morirei per lui.
Alcune sorelle lo dicono per dire.
Altre lo farebbero, ma non ne hanno l’occasione.
Io l’ho fatto davvero, e va bene così.
Для тебя,
мой Jànos (Dlya tebya, moy Jànos. Per te, mio Jànos), io so
che ne è valsa la pena.
Natal’ja, 5 Maggio 1848.
Ma ieri sera quando son tornato
C’era un silenzio che gelava il cuore
Era un deserto, un luogo abbandonato
Più niente intorno, più nessun rumore
Ed inciampai nell'ombra di me stesso
In quella casa c’era tutto a posto
È quasi l’alba, nasce dietro le
persiane un mondo di cemento
E questo giorno che ora nasce piano piano, sì, mi fa paura
E quando un uomo scopre sul suo viso
Lacrime calde, chiare di bambino
Tutto l’orgoglio muore all'improvviso
Mi alzo ad un tratto, vado a un tavolino
E su quel foglio gocce di sudore
Gocce di pianto, pochi segni scuri
Ogni parola è un grido di dolore
Ti chiedo scusa, torna a casa, amore
(Tutto alle tre, Pooh)
Note
Alja e Feri навсегда,
Alja e Feri navsegda, Alja e Feri per
sempre.
Di chi ancora sta
aspettando le rose di un anno fa: La Grande Festa, Pooh.
Riferito a Feri ;)
In questo capitolo
finalmente vediamo il matrimonio di Alja e Feri, e il penultimo incontro tra
Alja e Farkas prima della fatidica notte del 5 Maggio, quando i Forradalmi,
dopo la morte di Alja, si rifugeranno a Shtorm per salvarsi dall'incendio del
loro quartiere.
L’ultimo sarà il 5 stesso,
quando lui le dirà che, se hanno bisogno, possono andare a Shtorm. Farkas, come
abbiamo già visto, non si è mai pentito di quello che ha fatto ad Alja, perché
pensava di avere una motivazione valida.
Voleva vendicare Ivan,
ucciso da Nikolaj nel 1833, appunto per Alja.
Poi, il figlio di Alja e
Feri...
Che non avranno mai, non
nascerà mai, perché Alja morirà quasi al terzo mese di gravidanza.
Il Feri dopo il
matrimonio, il Capitano guarito, e stavolta davvero.
Ma non ancora per sempre,
perché il 5 Maggio è già troppo vicino.
E poi quella notte, il
ritorno della sua follia, il suo voler quasi uccidere Jànos, perché non ha
salvato Alja, e lui ed Alja invece hanno dato la vita per Jàn.
Jàn è il futuro, è l’unico
ad essersi salvato veramente.
E infatti poi Feri lo
capisce e gli chiede scusa, perché il suo piccolo Jànos, il suo fratellino
prediletto, è sempre stato una delle sue ragioni di vita.
Ci ho messo un’eternità a
finire questo lunghissimo capitolo, ma spero davvero che vi sia piaciuto...
Lo dedico alla fantastica
Lady Igraine, perché se lo merita tutto ;-)
A presto!
Marty