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Autore: Natalja_Aljona    25/01/2013    1 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Quattrocentodue


Quattrocentodue

1831 – 1848

Diciassette anni dopo

Alja e Feri navsegda

Da chi ancora sta aspettando le rose di un anno fa

 

Stasera sto riabbracciando

Voi tutti e me stesso un po’

Mi stavo dimenticando

Che grande famiglia ho

(La Grande Festa, Pooh)

 

Krasnojarsk, 25 Febbraio 1848

 

Tanti auguri di un eterno batticuore

E che quel che sembra amore poi lo sia

(La Grande Festa, Pooh)

 

-Sei sicura, mamma? Sei sicura?-

Appollaiata a gambe incrociate sul letto di sua madre, Céline guardava Natal’ja intrecciarsi i capelli davanti allo specchio, con gli occhi scintillanti e un sorriso indecifrabile.

Era bella, sua madre, con i lunghissimi capelli biondi indomabili a cui però lei riusciva sempre a fare tutte le pettinature più prodigiose e la limpidezza diamantina di uno squarcio di cielo rubato al sogno più bello nei grandi occhi grigiazzurri.

Bella con l’abito bianco del suo secondo matrimonio, nonostante sotto le palpebre avesse ancora e avrebbe avuto sempre gli spilli di cristallo delle lacrime per il suo primo marito.

Bella con i suoi ventidue anni che sarebbero durati ancora due giorni, perché il 27 Febbraio sarebbero scoccati i ventitré, il suo primo compleanno dopo la morte di Gee e l’ultimo, l’ultimo compleanno della vita di Lys.

Bella con i bagliori della sua nuova realtà stretti forte tra i pugni, infranti sulle nocche bianchissime.

Una realtà che sarebbe durata solo tre mesi, ma tre mesi in cui avrebbe realizzato tutti i sogni, accarezzato tutti i cieli e illuminato tutti gli amori.

Una realtà in cui sarebbe stata la moglie di Feri Desztor.

Alja si girò di scatto verso la figlia.

Alcesti Caelie Gibson, nove anni compiuti, i suoi stessi lunghi e ondulati capelli biondissimi, i suoi stessi splendenti occhi d’argento.

Il suo stesso amore per Gee.

La prima figlia che aveva avuto dal suo grande amore greco, quell’invincibile ragazzino dai capelli nerissimi che col suo cuore tra le dita e ventisei anni passati troppo in fretta era stato impiccato, ma la forca di Riyadh non era bastata a strapparglielo.

Forse la sua piccola, adorata Céline non sarebbe riuscita a capirlo, perché lei stava per sposare Feri, perché lei di Feri si era innamorata davvero, diciassette anni prima, e adesso era il loro turno.

Le accarezzò fugacemente una guancia, fugacemente come faceva lui prima di un duello o di una battaglia, e le sorrise, le sorrise come una giovane donna innamorata maledettamente sicura di quello che stava per fare, ma con ancora la paura di ferire i suoi figli.

-Sono sicura, Line-

-Lui... Lui non è come papà. Lui è cattivo, mamma. Lui voleva ucciderlo, papà-

-Lui non è cattivo, tesoro. Lo è stato, qualche volta lo è stato. Ma è disperato, Line.

Mi ama come nessuno al mondo è in grado di amare senza morire, Feri-

-E tu quanto lo ami, mamma?-

-Come prima. Come sempre. Come lui-

Céline strinse i denti e annuì.

 

Lo perdonerai.

Un giorno lo perdonerai anche tu, Line.

Il Capitano ucciderà tua madre, ma salverà Forradalom.

 

Aiace se ne stava imbronciato sul suo letto, con le ginocchia strette al petto e l’aria corrucciata.

I capelli nerissimi più arruffati che mai, perfino più di quelli di suo padre, gli occhi color carbone densi di tristezza e delusione, le labbra piegate in una smorfia.

Mamma, perché?

Perché mi fai questo?

Io lo odio, il tuo Capitano.

Ma non ce l’aveva con lei, nonostante tutto.

Non sarebbe mai riuscito ad arrabbiarsi davvero con la sua Natalys.

Era come Gee, Aiace.

Dentro magari era distrutto, i suoi occhi magari avevano pianto fino a sprofondare in un buio feroce, come strappati dalle fiamme, ma la perdonava sempre, anche a costo di star male di più.

Alja, insieme a Sparta, era tutta la sua vita.

Era sua madre, la ragazza più fantastica che avesse mai conosciuto, anche se, a voler essere proprio pignoli, mancava quel piccolo dettaglio, alla fine abbastanza insignificante.

Non era stata lei a partorirlo.

Aperta sulle sue ginocchia c’era la Vita Parallela di Coriolano e Alcibiade del mitico, grande Plutarco, uno degli scrittori preferiti di suo padre e suoi.

Nella Vita di Alcibiade, poi, c’era una frase che pareva essere scritta da Plutarco apposta per Gee.

“Ebbe molte e violente passioni, e la più accesa fu lo sfrenato desiderio di essere sempre il primo - come è evidente dalle storie che si ricordano della sua giovinezza”.

Le storie che si ricordano della sua giovinezza...

Beh, di suo padre ci si poteva ricordare solo della giovinezza.

Era morto a ventisei anni, Gee.

Era bella, quella Vita.

Bella e straordinariamente toccante, ma in quel momento Aiace era terribilmente distratto.

Si era perso più o meno nel punto in cui Caio Marcio Coriolano, esiliato da Roma per volere della plebe, si presentava a casa di Tullo Aufidio ad annunciare la sua intenzione di schierarsi con i Volsci, ed era per questo che adesso il glorioso libro si trovava riverso sulle ginocchia del primogenito undicenne di Geórgos di Spárti.

Il 21 Novembre di quell’anno avrebbe compiuto dodici anni e sarebbe stato definitivamente orfano.

Avrebbero ucciso Alja, la sua adorata Alja, l’avrebbero uccisa gli Zaristi.

Lui non lo sapeva, non lo sapeva ancora.

Sarebbe corso da lei e l’avrebbe convinta a tornare subito a Sparta, lontana da Feri Desztor, dalle disperate, vane illusioni di libertà dei Forradalmi e da quella Russia schiava dei Romanov, se solo l’avesse sospettato.

Ma non sapeva, e l’unica cosa a cui riusciva pensare a quel momento era l’imminente matrimonio di sua madre con il tanto odiato Feri Desztor, ventottenne eroe ungherese e futuro carnefice dello zar.

 

Anch’io andrò in chiesa, oggi.

Sorriderò a lei e fulminerò con lo sguardo lui.

Magari mi porterò dietro la Vita Parallela di Coriolano e Alcibiade, leggerò della congiura contro Coriolano proprio mentre lui dirà il suo “igen” e immaginerò con tutte le mie forze che al posto di Marcio i Volsci stiano massacrando Feri Desztor.

Stringerò forte la mano di mia sorella e cercherò lo sguardo di mio fratello, rubando un po’ di coraggio a loro.

Il coraggio di sopportare che, dopo la morte di mio padre, con la celebrazione di un maledettissimo matrimonio ortodosso, con tanto di fede portata all’anulare destro, mia madre appartenga ad un altro uomo.

A quel bastardo d’uno zingaro ungherese.

Proprio a lui.

 

Nella sua mente, Aiace sarebbe piombato in chiesa a metà del rito, avrebbe percorso di corsa la navata verso quella disgraziata di sua madre, l’avrebbe afferrata brutalmente per un polso e le avrebbe sputato in faccia le parole più velenose che fosse riuscito a trovare.

Le avrebbe gridato come osava fare questo, fare questo a suo padre, al grande eroe spartano Geórgos dei Kléftes, ch’era stato cremato sul Taigeto con tutti gli onori solo l’anno prima, nel fiore dei suoi ventisei anni e nel fiore del loro matrimonio.

Gliel’avrebbe gridato con le lacrime agli occhi e il sangue nel cuore e lei sarebbe scoppiata a piangere e crollata in ginocchio contro il pavimento freddo della Cattedrale, spiegazzando il suo bellissimo abito bianco e spettinando i suoi capelli biondi.

Avrebbe scosso la testa, si sarebbe tolta la fede dal dito, avrebbe guardato Feri e tra le lacrime avrebbe mormorato che non poteva, no, non poteva sposarlo, non poteva tradire il suo defunto marito, il suo unico amore, perché anche lei, come Didone di Cartagine sulle ceneri di Sicheo e contro tutte le stelle del cielo aveva fatto un giuramento di eterna fedeltà.

Poi sarebbe uscita e con un debole ma luminosissimo sorriso gli avrebbe teso la mano, lui gliel’avrebbe stretta e sarebbero usciti insieme dalla chiesa, seguiti da Céline e Nikolaj, sarebbero saliti sulla prima nave per i Balcani e sarebbero tornati a Sparta.

Non sapeva ancora, Aiace, che Natal’ja aveva già detto addio alla Grecia, che ormai era troppo tardi per tornare, troppo tardi perché il 5 Maggio 1848 era troppo vicino.

Nella sua mente, Aiace avrebbe distrutto ancora una volta tutti i sogni d’amore di Feri Desztor nei confronti di sua madre, avrebbe calpestato anche l’anima di Forradalom.

Pur di strappare Natal’ja a quel mondo in cui era nata ma che presto l’avrebbe uccisa.

Pur di strappare Natal’ja a quella fatale Rivoluzione.

Eppure non ce l’avrebbe fatta.

Non ce l’avrebbe fatta neanche lui.

 

Nikolaj, forse, dei tre fratelli Gibson quel giorno era il più tranquillo.

Era con Malintzin Desztor al Campo di Rose, e la guardava con gli stessi occhioni turchesi adoranti con cui sette anni dopo, quindicenne, le avrebbe chiesto di sposarlo.

Tra le dita si rigirava una ciocca dei capelli della ragazzina, nerissimi come i suoi, e sorrideva, sorrideva fino a star male, a star male dalla felicità.

Forse era già innamorato allora, forse quasi.

Di sicuro, Nikolaj e Malintzin sarebbero stati gl’innamorati più simili a Natal’ja e Feri che fossero mai esistiti.

Nikolaj irraggiungibile come sua madre, ma per via dei mille tormenti psicologici e dell’epilessia, Malintzin troppo innamorata e troppo masochista, ma alla fine ce l’avrebbe fatta, a salvarlo.

A sposarlo.

Ad amarlo e ad essere amata per sempre da lui.

Il futuro Capitano di Forradalom.

-Tu sei contento, Kolja? Sei contento che tua madre sposi mio zio?-

Nikolaj annuì solennemente, anche se con una stretta al cuore.

Suo padre, dall’Ade, cos’avrebbe pensato di lui?

-Non è vero- sentenziò la piccola ungherese - islandese - siberiana, guardandolo un po’ di traverso, ma in fondo sempre con dolcezza.

Non ce la faceva, ad avercela con lui, perché lui aveva ragione.

Era difficile tradire un padre, o almeno credere di tradirlo.

Anche se quel padre era morto, anche se quel padre...non c’era più.

Solo allora Niko ebbe il coraggio di chiederglielo.

-Dici che lui la perdonerà?-

Gee, in fondo, Alja l’aveva perdonata sempre.

Perché quella volta avrebbe dovuto essere diverso?

Forse perché lui era morto e lei avrebbe sposato Feri?

Oh, no, davvero.

Non sarebbe stato affatto diverso, neanche quel giorno.

 

Feri aveva un sorriso radioso, assolutamente diverso da quello che gli aveva graffiato le labbra negli ultimi quindici anni.

Aveva ventotto anni, quasi ventinove, e per lui che sognava di sposarsi a diciotto, nell’ormai lontano 1837, quel giorno sarebbe stato il più dolce e luminoso da quando era nato.

Innamorato di Natal’ja da diciassette anni e finalmente ricambiato.

Lui e Lys l’avevano deciso la notte prima, di sposarsi.

La notte prima, quando avevano fatto l’amore.

Ora non sarebbe mai più rimasto senza di lei.

La piccola Natal'ja, la ragazzina che aveva salvato da Omsk, la sua ossessione da quando aveva dodici anni.

La stella di Forradalom, l’angelo dei Desztor.

Lui l’aveva sempre amata.

L’aveva aspettata per diciassette anni.

 

Abiti eleganti non ne aveva, così anche quel giorno era vestito come al solito, come un selvaggio e sregolato zingaro ungherese.

La camicia bianca con le maniche arrotolate fino all’avambraccio, rivelando troppe delle sue maledizioni.

Sul suo polso destro, incastrato tra il viola - azzurro delle vene e il candore niveo della pelle, quel 0348 nitido come il primo giorno, come uno sfregio mortale.

E più su, sulle braccia, su ogni lembo di pelle lasciato scoperto, un fitto intreccio di cicatrici di guerra, gloriosi solchi di proiettili zaristi, tanti da lacerare la vista.

Bello di quella sua bellezza vissuta e distrutta, consumata da tre anni di prigionia, diciassette di amore non corrisposto e cinque di Guerra Civile.

Bello, ma tanto, tanto da far mancare il fiato, con i suoi capelli neri sempre scomposti e gli occhi neri dal taglio più nordico che mai.

Si capiva, si capiva subito, ch’era uno zingaro, un ribelle, un criminale.

Si capiva che al Manicomio lui ci aveva lasciato troppe stelle e troppi sogni trascinati con le mani sanguinanti, come cadaveri alla deriva, ma gliele avrebbe restituite Alja, gliele avrebbe restituite il cielo.

Il cielo negli occhi di sua madre fucilata a trentun anni, il cielo negli occhi di un fratello minore così amato che per la sua salvezza, per la sua innocenza, Feri aveva sacrificato tutto il suo futuro.

Ma per il suo Jànos ne era valsa la pena.

Quanto poteva costare tenere gli occhi aperti, vedere e non piangere, asciugare le lacrime dei suoi fratelli ed essere il più forte di tutti solo per loro?

Non certo troppo, mai troppo, per uno come lui.

Per uno che aveva perso la ragione e il cuore nel suo sacrificio, e per questo sarebbe stato condannato sempre, perché troppe volte gli sarebbe mancata la pietà.

Ma stava per sposarsi, adesso, Feri Desztor.

Stava per sposarsi e non sentiva più le cicatrici.

Solo le mani gelide e tremanti di Natal’ja sulla pelle come la notte prima.

Dio, con quale intensità, quale feroce bramosia aveva desiderato l’amore e il corpo di quella ragazzina...

L’anima, tutto quanto.

L’oro dei suoi capelli, l’argento dei suoi occhi, lo sconcertante bianco della sua pelle, la luce del suo cuore e dei suoi sogni.

La purezza che ormai la sua piccola Lys aveva perso, il coraggio che le avrebbe portato via la vita.

Feri si guardò distrattamente allo specchio.

I pantaloni grigi sgualciti con cui aveva vinto così tante battaglie, gli stivali di pelle nera dei tempi del servizio militare del 1840, lo sguardo stravolto dall'estasi e dall’emozione.

Sul comodino accanto al suo letto, i mozziconi delle ultime ventisette sigarette che aveva fumato quella mattina.

Forse era un attimino troppo agitato...

Ma ancora non poteva crederci, che tra pochissimo Natal’ja sarebbe stata sua.

Sua.

Solo sua.

Sua per sempre.

Geórgos di Sparta era morto e non poteva più venire a rivendicarla, non poteva più portargliela via.

Mai più.

 

Valle a chiedere scusa e basta

In un mondo più no che sì

(La Grande Festa, Pooh)

-Riferito a Farkas e Natal’ja-

 

Mancava poco meno di un’ora al matrimonio, quando Natal’ja sentì bussare alla porta.

Con i capelli intrecciati a metà e l’abito sgualcito del giorno prima andò ad aprire con una distratta noncuranza, dato che non aspettava nessuno di preciso, ma c’erano tantissime persone che avrebbero potuto cercarla in quel momento, praticamente tutta la sua Forradalom.

Per questo quando vide Farkas Dragan con uno strano sorriso sulle labbra e uno sguardo che davvero Lys non riuscì a capire, la biondina quasi lasciò andare l’estremità dell’elaborata treccia a cui stava lavorando in quel momento e la cui rovina avrebbe irrimediabilmente compromesso la tanto sospirata acconciatura, e il cuore le balzò il gola.

D’istinto indietreggiò quanto più poté, con gli occhi sbarrati e il respiro spezzato, ma lui, stranamente, rimase sulla soglia, con il solito sorriso serafico e una vaga aria di scherno.

Dopo dieci anni quel ragazzo le faceva ancora quel terribile effetto.

Ma Alja sentiva i lividi e le cicatrici di dieci anni prima scottare ancora sulla pelle ogni volta che vedeva anche solo di sfuggita il biondino rumeno o uno dei suoi degni compari di Shtorm.

-Stai tranquilla, Natal’ja. Non ti farò mai più così male. Non io.

Non sono io, il cattivo della tua storia. Davvero, non sono io. Purtroppo non sono io.

Volevo solo chiederti... Sapere s’era vero. È vero che tu e il Capitano... È vero che tu e Desztor... È vero che vi sposate?-

-È vero, Farkas-

Era la prima volta che lei, Natal’ja di Forradalom, la ragazza che più aveva odiato in tutta la sua vita, forse senza un vero motivo, lo chiamava per nome.

Farkas.

Gli diede una sensazione stranissima, indescrivibile, ma non necessariamente sgradevole.

Come un brivido attraverso le ossa.

Un brivido come un raggio di sole.

Poi scrutò intensamente gli attenti occhioni celesti della biondina, sgranati e molto probabilmente spaventati, e non riuscì a trattenere una risata di scherno, perché era cresciuto, sì, aveva ventisette anni adesso, e dal 1838 ne erano passati esattamente dieci, ma non sarebbe mai cambiato davvero del tutto.

-Non guardarmi così, Nataljetshka. Sai benissimo che se per tua disgrazia tornassimo indietro a quel 26 Luglio ti massacrerei di botte esattamente come quel giorno.

Te lo vuoi mettere in quella tua adorabile testolina bionda o no, che te le meritavi tutte?-

-Non l’ho ucciso io, il vostro prezioso Ivan-

-Ma tuo cugino l’ha ucciso per te. È praticamente la stessa cosa-

-No, non lo è. E comunque allora non lo sapevo. L’ho scoperto quel giorno. Solo quel giorno-
Farkas digrignò i denti.

-Ma non cambiano le cose- sputò con ferocia -Ivan era come un padre per me e gli altri.

Tu lo sai, Natal’ja, lo sai, com’è morto il mio vero padre...

Non potevo permettere che qualcuno dicesse che non avevo saputo vendicare neanche lui-

-Vai via. Adesso vai via- gl’intimò Lys, con la voce tremante ma ugualmente risoluta.

Farkas le percorse lentamente una guancia con un dito gelido, puntandole addosso i suoi occhi azzurrissimi assottigliati all'inverosimile e iniettati di sangue.

-Tanti auguri per le tue seconde nozze, Zirovskaja. Tanti auguri, sgualdrina-

-Vai via... Via!-

Natal’ja lo spinse lontano dalla soglia quanto bastava per chiudersi la porta alle spalle e la sbatté con tutte le sue forze, quella porta, scossa.

Nonostante fossero passati dieci anni, Farkas Dragan, il ragazzo che il 26 Luglio 1838 alle porte di Shtorm l’aveva quasi uccisa di botte con i suoi amici, rimaneva e sarebbe rimasto uno dei pochi uomini di cui aveva ancora una paura folle, probabilmente il terzo dopo lo zar e Viktor Zarkhov.

 

E c’è chi non credevo amico

E invece sbagliavo io

(La Grande Festa, Pooh)

-Riferito a Natal’ja e Farkas-

 

-Alja! Chi era? Come stai? Oh, mio Dio, sei spaventosamente pallida...-

Agitatissima, l’ormai venticinquenne Helga Björg Dolokova Desztor, con la lunga treccia bionda ondeggiante sul semplice vestito bianco e gli occhi azzurri colmi di preoccupazione, corse incontro alla sua amica più giovane.

Era incredibile come la ragazza più altera e glaciale di Forradalom fosse diventata dolce e materna, negli ultimi anni.

Forse perché una madre lo era davvero, dal 1840.

E poi perché erano cresciuti tutti, in quei diciassette anni, i ragazzi di Forradalom.

-Tutto bene... Tutto bene, Hell. Davvero-

-Sei sicura?-

Natal’ja annuì e la biondina islandese le scoccò uno sguardo sospettoso, niente affatto convinto, ma non le chiese altro.

-Allora vieni di là e continuiamo coi capelli, se vuoi far svenire il tuo bel Capitano sulla navata, schianto che non sei altro. Non hai lasciato l’estremità della treccia, vero? Non hai osato?-

-Tranquilla, Hell...- sorrise Alja, e l’Islandese tirò un sospiro di sollievo.

-Hai i capelli più belli di tutta la Russia, ma se avessi mandato all’aria tre ore di pettinatura per un attimo di distrazione giuro che te li avrei strappati uno per uno-

-Non l’ho fatto...-

-Buon per te, tesoro. Torniamo di là, allora-

Di là, ovvero in camera di Lys, le aspettava anche Hajnalka, con millecento nastri per le mani, la spazzola stretta tra i denti e la pazienza al limite.

Solo Natalys poteva decidere di organizzare un matrimonio in un giorno.

O meglio, di farlo organizzare a loro.

Non che per quello di Helga avessero avuto poi molti giorni di anticipo.

Jànos aveva preteso di trascinarla all’altare il giorno stesso ch’era tornato dalla Norvegia con Feri e Lys, e poi era successo qualcosa di simile.

Lei e Lörinc rimanevano gli unici due Forradalmi non ancora sposati.

Lö si poteva dire che avesse sposato l’Esercito Cosacco e le selvagge e sconfinate steppe del suo Kazakistan, ma lei...

Lei sarebbe mai riuscita a convincere Theodorakis?

Quel benedetto Spartano le avrebbe mai concesso un matrimonio, un’unione ufficiale?

Quasi quasi lo odiava, in quei momenti.

E le si stringeva un nodo allo stomaco, se pensava che Natal’ja, la sua migliore amica, a ventidue anni era già alle seconde nozze...

E ancora una volta con un uomo che l’aveva praticamente implorata di sposarlo, giorno e notte per diciassette anni.

Suo fratello.

Ma sarebbe arrivato il giorno...

Sarebbe giunto il momento...

Theo gliel’avrebbe chiesto, prima o poi.

Con le fiamme di una devastante speranza a lacerarle il cuore e lacrime tremanti dietro le palpebre, si sforzò di sorridere a Lys ed Hell quando entrarono.

-Tutto bene, Haj?-

-Tutto bene, certo-

 

Tutt’al più

Mi offenderai

E poi mi caccerai

Dicendomi che oramai

No, non t’interessa più

Una ragazza che

Serviva solamente

Per divertirsi un po’

(Tutt’al più, Patty Pravo)

-Riferito ad Hajnalka e Theodorakis-

 

L’abito bianco di Lys non era un vero e proprio abito da sposa.

Era di satin, sì, il candido satin niveo che Alja adorava, sebbene un po’ stropicciato e non proprio all’ultima moda, di un modello molto semplice e piuttosto modesto -come si confaceva ad una miserabile fiammiferaia di periferia, una volgare zingarella dei vicoli, avrebbero malignato le ragazze di buona famiglia-, ma a Lys piaceva tantissimo ugualmente, tanto più che lei gli abiti davvero eleganti non li sapeva proprio indossare.

Pareva un normale abito da giorno giusto un pochino più raffinato, che sarebbe stato adatto per una festa di paese, non certo per le Assembly Rooms di Bath o per i migliori saloni di Mosca e San Pietroburgo.

Perlomeno, aveva commentato molto praticamente e forse fin troppo maliziosamente Jàn, Alja sarebbe riuscita a non ammazzarsi inciampandovi e Feri non ci avrebbe messo troppo tempo a toglierglielo, la prima notte di nozze.

Nell’insieme, avevano tutti il sospetto che Lys sarebbe stata un incanto, quel giorno.

 

Guerrieri del Nord dai capelli gessati

Ne hai visti passare!

(Emilia, Lucio Dalla, Francesco Guccini & Gianni Morandi)

 

Mancava esattamente mezz’ora al matrimonio e la pettinatura di Lys era quasi pronta, quando bussarono ancora alla porta.

-Vado io- decise immediatamente Hell, risoluta.

-Tu, Haj, finiscile le trecce, e tu, Lys, non muoverti-

Entrambe grugnirono in risposta, ed Helga sorrise soddisfatta.

Il bussare alla porta, nel frattempo, s’era fatto sempre più impaziente e furioso.

Sembrava che stessero letteralmente per buttarla giù, quella povera porta.

-Chi è?- gridò la prudente Islandese, e una voce cupa le rispose:

-La Terza Sezione-

Ad Hell mancò il fiato, e invano cercò di dare alla porta un inesistente quinto giro di chiave.

-Abbiamo un mandato d’arresto per Natal’ja Zirovskaja. Aprite immediatamente la porta-

La voce era terribilmente seria e minacciosa, ma in sottofondo c’era anche...

Una risata.

Una risata isterica, già.

In un comprensibile moto di stizza, Helga spalancò la porta.

-Ebbene, Pál Desztor?-

Il biondino ungherese fece finta di niente, sfoderando il più angelico dei suoi meravigliosi sorrisi, ma diede una gomitata al fratello minore, che stava dando veramente un pessimo spettacolo.

-E tu, Csák, vedi di darti un contegno. Se continui a ridere così rischi di soffocarti-

Era incredibile, davvero.

Pál aveva trentaquattro anni, quasi trentacinque, e Csák ne aveva appena compiuti trentuno.

Eppure erano ancora i soliti inguaribili dementi di sempre.

-Natal’ja Zirovskaja la potrete arrestare solo dopo che vostra sorella avrà finito di acconciarle i capelli, siamo intesi?!-

Ma...

-Dove sono i miei eroi troppo biondi e troppo ungheresi?-

Inseguita da un’esasperata Hajnalka armata di spazzola e nastri azzurri, Natal’ja si precipitò tra le braccia dei suoi fratelli adottivi, ai quali saltò al collo senza alcuna pietà per la sua elaboratissima, praticamente eterna acconciatura.

Helga si mise le mani tra i capelli.

Hajnal le rivolse un sorriso impotente, scrollando le spalle.

Esattamente come Pál e Csák erano due autentici decerebrati...

Natal’ja era un disastro assoluto come sposa.

 

Ci avevano pensato Pál e Csák, poi, a finire d’intrecciare i capelli a Lys, strabiliando Hell e smentendo ogni sua drammatica aspettativa.

Per essere due soldati avevano discrete abilità come acconciatori, i suoi cognati.

Sette minuti prima del matrimonio, Natal’ja era miracolosamente pronta, con i chiari capelli splendidamente acconciati che spiccavano come oro vivo sul vestito bianchissimo, le ballerine bianche e il cuore ormai fuori controllo.

Pál la guardava con un orgoglio quasi paterno e Csák con un pizzico d’invidia per suo fratello, che presto l’avrebbe avuta tra le braccia e nel letto, quella deliziosa ragazzina.

Alja intuì i suoi pensieri dall’ammirazione del suo sguardo e gli scoccò un’occhiataccia.

Loro erano fratelli, no?

E lui viveva per l’Esercito.

-Mi sto solo rallegrando per la fortuna di mio fratello- si giustificò l’Ungherese, a voce talmente bassa che lo sentì solo lei e Lys sorrise.

-Se lo dici tu...-

-Oh, Aj’latan, ma lo sai! Tu sei troppo giovane per me!-

-Per fortuna!-

Lys gli fece la linguaccia e lui rise, scuotendo la testa.

Era ancora una bambina, Nataljetshka.

Non si era lasciata distruggere né dalla prigione né dalla guerra, e neanche da Feri.

Per questo suo fratello ne era tanto perdutamente innamorato.

Forse se ne sarebbe innamorato anche lui, se non fosse stato Tenente di Cavalleria.

E se lei non fosse stata sua madre e sua sorella.

-Posso accompagnarti io in chiesa?- le chiese d’un tratto, d’un fiato.

Sapeva bene ch’era Jànos il suo testimone, ma glielo chiese lo stesso.

-Ma Jàn...-

-Tu stai sempre con Jàn! E poi è già stato il tuo testimone una volta, lui-

-Va bene...- sospirò lei, ma con gli occhi che le ridevano.

-Ti prego, Lys...-

-Ho detto che va bene!-

-Ah... Va bene?-

Gli occhi neri del giovane Desztor s’illuminarono.

-Va benissimo, Csák-

Il biondino ungherese le tese una mano, radioso.

-Sembri una principessina austriaca appena scappata da Schönbrunn per rifugiarsi nel Wienerwald dal suo amante brigante, uno zingaro danubiano-

-In un certo senso...-

Csák le pizzicò affettuosamente una guancia e le sorrise.

-Finalmente vi sposate, eh? Tu e il tuo amante ungherese...-

-Già... Finalmente-

 

Come entrò in chiesa, però, Natal’ja perse ogni parvenza di compostezza.

Del resto, come avrebbe potuto fare altrimenti, con Jànos che molto seraficamente, incurante del luogo sacro, fumava una sigaretta, e Feri che, in preda ad un inquietante nervosismo isterico, ordinava le candeline delle offerte ancora spente in gruppi piramidali da cinque?

-Мой Капитан!- gridò, prima di lasciare la mano di Csák e di corrergli incontro.

Gli saltò letteralmente al collo e lo baciò, senza nessuna considerazione per gli “spettatori”.

Aveva sbagliato momento, ne era consapevole.

Ma a sposarsi, quel giorno, erano il Capitano e la Regina di Forradalom.

-Lys, i capelli!- le gridò Helga, disperata, ma la biondina non la ascoltò, e quando si sciolse dall’abbraccio di Feri era tutta arruffata esattamente come al solito, ma ugualmente innegabilmente bellissima.

 

Feri Desztor из Forradalom - Красноярск, 25 Февраль 1848 - Алья и Feri навсегда.

Feri Desztor iz (di) Forradalom - Krasnojarsk, 25 Fevral’ 1848 - Al’ja i Feri navsegda.

Navsegda.

Per sempre.

Inciso in grafemi piccolissimi, perché era una frase dannatamente lunga per una fede nuziale -ma il Capitano era stato piuttosto persuasivo con l’orefice-, ma pur sempre...meraviglioso.

 

Faremo insieme un’altra casa
Io e te che siamo un’altra cosa
Io e te che siamo la stessa cosa
Faremo insieme la nostra casa

(L’altra donna, Pooh)

 

[...]

 

Quanto amore dal tuo sonno

Lui svegliò per sé

(Per te qualcosa ancora, Pooh)

 

[...]

 

Lei si spoglia e gli dice
O sei pazzo o sei Dio
A mischiare il tuo mondo col mio

Lui è artista di strada
È un poeta, un cow boy
Contro cosa si è messo non sa
Lei è stella e non viene
Da un giardino del cielo
Ma da dove nessuno va via

(Stella, Pooh)


Quando Natal’ja si era addormentata, dopo la loro prima vera notte d’amore, poiché col sopraggiungere del sonno aveva allentato la stretta sulla mano di Feri, il Capitano aveva fatto delicatamente scivolare via le sue dita da quelle di Lys e si era alzato ad accendere il camino.

Lei il freddo non lo sentiva, ma fuori infuriava un inverno feroce, e la sua pelle era così gelida... Era lui che scottava, di febbre e d’amore.

Non era per dire, Feri aveva davvero trentanove e mezzo di febbre.

Gli era salita quella mattina, con i preparativi del matrimonio, e di notte, con Lys tra le braccia, era aumentata vertiginosamente.

Era una reazione corporea tremendamente esagerata, ma quando aveva infilato la fede all’anulare destro di Lys -secondo il rito ortodosso- gli era sembrato d'impazzire per la seconda volta.

Ma stavolta di felicità.

Mentre lui armeggiava con la legna e il fuoco, Alja lo cercò nel letto con una mano.

-Мой Капитан...- lo chiamò in un mugolio assonnato, non trovandolo.

-Arrivo, моя любовь- la rassicurò dolcemente Feri, raggiungendola.

Aveva un’aria stravolta, lui, a piedi nudi sul pavimento gelido, con i pantaloni infilati di fretta da poco e con la cintura slacciata, poiché temeva che il rumore della fibbia potesse svegliare Lys, senza camicia e con i capelli nerissimi sconvolti, gli occhi lucidi e due occhiaie spaventose.

-Stai bene?- gli chiese Alja, sorridendogli.

-Insomma...-

Aveva ancora la febbre altissima, ma un languore dolcissimo nel cuore e una tale voglia di baciarla...

Fu Lys a baciarlo, poi, tendendogli la mano e trascinandolo di nuovo con lei sul letto.

-Я люблю тебя- gli sussurrò poi, guardandolo seriamente negli occhi.

Lui la strinse a sé e sospirò, estasiato.

Non le rispose, non ce n’era bisogno.

Quante volte gliel’aveva gridato nei sogni, col Danubio ancora azzurro e la vita ancora sua, quante volte gliel’aveva giurato tra le lacrime e il cuore infranto nella realtà...

Quella volta non glielo disse, ma lei lo sapeva.

Feri Desztor era davvero guarito da Omsk.


Una fretta d’amore, senza pensare
Senza forse nemmeno poesia
Ma adesso cammino con un figlio per mano

E i suoi occhi somigliano ai tuoi

(Destini, Pooh)

 

Krasnojarsk, 17 Marzo 1848

 

Stella è la femmina del capobranco
Chi la tocca non ha futuro
Nei cunicoli della città
Stella ha bucato la frontiera, stella
Si strappa dalla sua catena
Finalmente è lei che sceglierà
Non è un letto di piume che inseguono
Ma un progetto di libertà

(Stella, Pooh)

 

Quel giorno Feri compiva ventinove anni, ma per la luce quasi abbagliante che gli splendeva nei begli occhi color ossidiana, sempre allegri e ridenti, ne dimostrava diciannove.

Quei diciannove anni che per lui avevano comportato una crescita perfino più violenta che i tre trascorsi ad Omsk, perché a diciannove anni, nel 1838, Feri aveva ucciso per la prima volta. Brillavano, adesso, gli occhi del Capitano, brillavano in ogni istante del giorno, ogni giorno, e di autentica felicità, non più arsi e logorati dalla passione disperata che fino all’anno prima aveva rischiato di ucciderlo.

Passione per ogni cosa che faceva, passione per Natal’ja.

La prima era sempre stata la sua unica forza, la seconda repressa e tenuta prigioniera nel cuore. Erano finiti, quei tempi.

Quei tempi in cui lo chiamavano “eroe”, ma davanti a lei finiva sempre sconfitto.

Quei tempi in cui faceva la Rivoluzione per una ragazza che non c'era.

Per una ragazza che non poteva tornare.

Erano finiti, e adesso era suo marito.

Lei era Natal’ja Eileen Desztor, la sua donna.

La sua.

Feri sorrideva sempre e non la lasciava mai.

Era disperatamente felice, come non era mai stato.

Di una felicità che lo provava fisicamente, che gli scottava sulla pelle come un sole vivo, un sole che aveva rotto il cielo di ghiaccio della Siberia e gli aveva strappato il cuore, gli aveva regalato Lys.

Gli aveva restituito la sua Lys.

Quella del 1834.

Quella di prima per partire per Liverpool.

Era così tenero e buffo che quei suoi ventinove anni non li dimostrava per niente.

Sembrava ancora un bambino, il piccolo Feri Desztor di via Rákos, il ragazzino innamorato del Danubio e della sua Budapest che i suoi fratelli chiamavano kicsi hős, piccolo eroe.

Non era mai veramente finita, l’infanzia di Feri.

Non gliel’aveva uccisa la Fortezza di Omsk.

Quel giorno compiva ventinove anni, ma era quasi impossibile da credere.

Lui ventinove anni li aveva dimostrati molto prima, ma adesso proprio no.

Quella mattina, Natal’ja era nel suo letto, nel loro letto, ma Feri non c'era, era uscito da poco. Con i capelli biondi sciolti e sparsi sul cuscino, un lembo del lenzuolo stretto tra le dita e il cuore che le batteva forte.

Chissà se lui se l’aspettava, se l’aveva previsto.

Chissà se ci aveva mai pensato.

Sicuramente nel 1834, prima che lei partisse per Liverpool, ci aveva pensato.

Nonostante fossero entrambi così giovani, ci avevano pensato.

Così, per sognare un po’.

Avevano sognato un figlio.

Feri l’aveva sognato senza di lei, in uno dei tanti giorni in cui lei non c’era stata, con un buio di stelle di ghiaccio negli occhi, nella penombra della sua camera.

Un sogno spezzato da Gee, che gli aveva strappato l’unica madre che lui avrebbe voluto per quel figlio.

E da allora, i figli di Natal’ja erano stati solo i figli di Natal’ja.

Lui non c’entrava niente.

Poteva guardarli, poteva sorridergli.

Ma da loro, nel 1843, era riuscito anche a farsi odiare.

Ma adesso, adesso era successo...

Ed era suo figlio.

Il loro figlio.

Il figlio di Natal’ja e Feri.

Era successo davvero.

Con un sorriso sognante si passò le mani sulla pancia fin troppo piatta per la sua solita eccessiva magrezza, e socchiuse gli scintillanti occhi argentei.

Non vedeva l’ora che tornasse Feri.

Non vedeva l’ora di dirglielo.

A ventitré anni appena compiuti, la sua quarta gravidanza.

Il primo figlio del Capitano.

Chiunque l’avesse vista in quel momento senza conoscerla -cosa comunque abbastanza improbabile, dato ch’era in sottoveste a letto in camera di Feri-, probabilmente non avrebbe trovato nulla di strano nel suo entusiasmo e nella sua felicità.

Ma Lys...

Beh, diventare madre non era mai stato il suo sogno.

Né da bambina né da adolescente né da giovane donna quale era adesso.

Era cresciuta, questo sì. 

Non sarebbe mai diventata una madre modello, ma avrebbe cercato di limitare i danni il più possibile.

Era ancora e sarebbe stata sempre troppo incosciente, ma per fortuna c’era Aiace, che nonostante i suoi undici anni e mezzo era di gran lunga il più responsabile della famiglia, l’unico davvero in grado di ridimensionare un po’ quella scapestrata di sua madre.

A quasi dodici anni Aiace sembrava già un uomo.

Era il figlio di un soldato quindicenne ucciso troppo giovane e di una sorta di prostituta di lusso senza cuore e con dieci anni in più di lui.

Lisistrata aveva letteralmente sedotto suo padre, che con lei aveva tradito la piccola Natal’ja, la sua fidanzata e promessa sposa russa allora undicenne.

Lui si era sempre sentito in colpa nei suoi confronti per questo.

Era il figlio dell’amante, e detestava il pensiero di aver fatto soffrire Lys anche quando era ancora troppo piccolo per potere rendersene conto.

Era questa, la fragilità di Aiace.

Era troppo simile a Gee.

Gee, il suo Gee.

Lys ci pensava sempre, sempre.

Non avrebbe mai dimenticato i suoi occhi ridenti, i suoi capelli spettinati, la sua pelle scura e il suo accento greco.

Non avrebbe mai dimenticato il suo primo marito, il padre dei suoi primi quattro figli.

Mai.

Per Gee aveva pianto per un anno intero, giorno e notte, come non aveva mai fatto in tutta la sua vita.

Sul rogo funebre di Gee sarebbe morta anche lei, bruciata viva per amore.

Non l’aveva fatto.

Theo non gliel’aveva permesso.

Theo l’aveva salvata, strappata e portata via di lì.

E adesso lei aveva regalato a Feri quel che restava del suo cuore, certa che Gee l’avrebbe perdonata, perché lui era un uomo d’onore.

Gee avrebbe capito ch’era diverso.

Alja amava davvero Feri, ma in modo troppo diverso da come aveva amato lui.

D’improvviso sentì i suoi passi, il rumore dei suoi stivali.

Feri era tornato.

Il cuore prese a batterle così violentemente da tuonarle nelle orecchie come l’eco di una di quelle battaglie ormai lontane, le battaglie rimaste a Sparta e nell’ultimo sguardo di Gee.

Alja affondò la testa nel cuscino, nascondendo sulla federa candida un sorriso inquieto ed emozionato.

Quando Feri si avvicinò al letto, vide solo una massa di capelli biondissimi scomposti e sentì il battito furioso di un cuore non meno eroico del suo, da qualche parte sotto i capelli.

-Alja?- mormorò, tra il confuso e il divertito.

-Cosa stai facendo, esattamente?-

Si sedette sull’orlo del letto e la sentì strillare.

-Капитан! Мой волосы!-

Kapitan! Moy vólosy!

Capitano! I miei capelli!

-Извините!- Izvinite! Scusa!, si affrettò a scusarsi lui, spostandosi.

-Allora?- gli chiese dopo un po’ la biondina, impaziente.

-Allora... Cosa?-

-Come lo vuoi chiamare?-

-Ah! Jàn si è finalmente fatto spedire un petauro dello zucchero dalla Nuova Guinea?

Ma sei sicura che il nome lo lasci decidere a noi?-

-Нет...-

-E allora...-

-Feri, мой любовь...-

-Che c’è?-

-Potresti spiegarmi perché se ti parlo di nomi tu pensi che Jàn abbia ordinato un petauro dello zucchero?-

-Beh, perché ce ne parla da anni... Lui va pazzo per quel genere di roditori. E per le cavallette-

-Tuo fratello è completamente scemo, мой Капитан-

-Ѐ anche tuo fratello, Lys!-

-Certo. Lo so-

Feri sorrise, accarezzandole dolcemente i morbidi e serici capelli dorati.

-Di che nome stavi parlando, allora?-

Natal’ja, finalmente, emerse dalle profondità delle lenzuola e gli lanciò uno sguardo smarrito e preoccupato.

-Beh...-

Gli cercò una mano e gliela strinse forte.

-Feri...-

-Да?-

-Я беременная- Ya berémennaja, Sono incinta, sussurrò lei, tutto d’un fiato.

A quel punto, avrebbe voluto che lui dicesse qualcosa.

Che le rispondesse, magari.

Ma quando lo fece, avrebbe preferito mille volte che non avesse mai detto niente.

-Di me?-

Alja dapprima sgranò gli occhi scioccata, ma rimediò subito, o quasi.

-Di Jànos- replicò, assolutamente seria.

-Ti ho mai raccontato di quella notte in cui... Prima che ci sposassimo, ovviamente-

-Tu non sei mai andata a letto con nostro fratello...- sentenziò il Capitano, tranquillo.

-Нет- ammise Natal’ja, dopo un po’ -Non ancora-

E in tutto questo probabilmente Feri non aveva ancora capito il concetto fondamentale.

Se non avesse saputo almeno a grandi linee che il 1848 era il suo ultimo anno di vita, Lys avrebbe sperato di essere ancora in tempo per sposare un uomo intelligente.

In realtà, né Gee né Feri era veramente stupido...

Ma avevano entrambi la straordinaria abilità di sembrarlo, per la maggior parte del tempo.

Alja guardò Feri con occhi pieni di speranza e aspettative di una fulminante illuminazione...

Che arrivò.

-Ждать... Ты беременная?!-

Ždat’... Ty berémennaja?!

Aspetta... Sei incinta?!

Il Capitano aveva lanciato un grido altissimo, più alto dell’urlo di guerra dei Cosacchi, e Lys per poco non era precipitata giù dal letto.

-T...tak- mormorò in polacco, con un fil di voce -A... Appunto-

-Беременная!- ripeté Feri, fuori di sé.

E Lys sperò con tutto il cuore che non fosse sul punto di abbracciarla, perché gli abbracci di Feri in quelle situazioni facevano molto, molto male...

-Sono incinta, quindi non mi massacrare-

Lo abbracciò lei, ma piano piano, con delicatezza.

Anche se comunque Feri era un po’ come Aiace, la rocca degli Achei.

La rocca di Forradalom.

Poco o niente avrebbe potuto scalfirlo, tantomeno la piccola Lys.

Piccola solo con lui, dato che, tolto Feri, era la più alta di tutti i Forradalmi.

-Мой сын?! Én fiam?!-

Moy syn? (russo), Én fiam (ungherese): Mio figlio?!

-Nostro, Feri. Nostro. Mica solo tuo!-

-Oh, certo...-

Feri si sdraiò sul letto accanto a lei, tenendole la mano con occhi sognanti.

-Come lo vuoi chiamare?-

Il giovane Ungherese alzò gli scintillanti occhi neri sulla parete di fronte a lui e incontrò, in ordine, lo sguardo sognante e fiero di Aleksandr Sergeevič Puškin e quello risoluto e ardito di Emel’jan Ivanovič Pugačëv.

Li guardò a lungo, pensieroso, dopodiché declamò, con un sorriso abbagliante:

-Aleksandr Emel’jan Ferovič Desztor-

Natal’ja inarcò un sopracciglio biondo, anche se a dir la verità quei nomi le piacevano tantissimo.

-Anche se è una femmina?-

-Нет, нет, ждать...-

Njét, njét, ždat’...

No, no, aspetta...

-Se è una femmina... Lidija, come la sorella di Nočen’ka... Ѐ un bel nome, no?-

-Красивый- Krasívyj, Bellissimo, rispose Alja, con un sorriso.

-E poi... Fammi pensare, Zsófike in russo... Sof’ja-

-Lidija Sof’ja Ferovna Desztor?-

-Esattamente-

-Oh, beh... Ѐ stupendo-

Feri intrecciò le dita alle sue e socchiuse gli occhi.

Nel cuore aveva tutti i grandiosi progetti degl’innamorati folli, degli eroi vittoriosi, degli uomini a un passo dal Paradiso.

-Lo so-

 

Quando tu ti stai vestendo mentre ti vorrei spogliare
Le altre vite precedenti ce le siamo raccontate
E facciamoli avverare questi sogni a mezza estate
Guardo il cielo sopra al mondo, e se il futuro è una scommessa
Basta solo la conferma che ami me come te stessa
Sempre più

(Sogno a mezza estate, Pooh)

 

[...]

 

Un messaggio senza età viaggia da quel mondo

Chiama cuori coraggiosi persi o messi al bando

Cerca naufraghi d’amore, sconosciuti eroi

Nessuno è mai tornato, perché il futuro è là

Non c’è nessun frutto proibito, non c’è dolore

(Dove comincia il sole, Pooh)

 

Lo zar aveva saputo che Natal’ja Zirovskaja era incinta di Feri Desztor, ed era troppo pericoloso.

Lo zar l’aveva saputo, e aveva preso i suoi provvedimenti.

Era assolutamente necessario distruggere il futuro della Rivoluzione.

 

Can you hear the drums, Fernando?
Do you still recall the fateful night
We crossed the Rio Grande?
I can see it in your eyes
How proud you were to fight
For freedom in this land

 

Riesci a sentire i tamburi Fernando?
Ricordi ancora la fatale, spaventosa notte

In cui abbiamo attraversato il Rio Grande?
Riesco a vederlo nei tuoi occhi
Com’eri orgoglioso di aver lottato

Per la liberta in questo paese

(Fernando, Abba)

 

Krasnojarsk (Shtorm), 5 Maggio 1848

 

Can you hear the drums, Fernando?
I remember long ago
Another starry night like this
In the firelight, Fernando
You were humming to yourself
And softly strumming your guitar
I could hear the distant drums
And sounds of bugle calls
Were coming from afar

They were closer now, Fernando
Every hour, every minute
Seemed to last eternally
I was so afraid Fernando
We were young and full of life
And none of us prepared to die
And I’m not ashamed to say
The roar of guns and cannons
Almost made me cry

There was something in the air that night
The stars were bright, Fernando
They were shining there for you and me
For liberty, Fernando
Though we never thought that we could lose
There’s no regret
I had to do the same again
I would my friend, Fernando

 

Riesci a sentire i tamburi, Fernando?
Mi ricordo molto tempo fa

Un’altra notte stellata come questa
Alla luce del fuoco, Fernando
Stavi canticchiando da solo

E strimpellavi dolcemente la chitarra
Potevo sentire i tamburi lontani
E suoni di tromba venivano da lontano


Ora erano più vicini Fernando
Ogni ora e ogni minuto sembravano durare in eterno
Ero così impaurita, Fernando
Eravamo giovani e pieni di vita

E nessuno di noi era preparato a morire
Non mi vergogno a dire
Che il rumore dei fucili e dei cannoni

Mi faceva piangere

C’era qualcosa nell’aria, quella notte
Le stelle splendevano, Fernando
Brillavano per me e te
Per la libertà, Fernando
Anche se non ho mai pensato che potessimo perdere
Non ho rimpianti
Se avessi la possibilità di rifarlo ancora
Lo rifarei, amico mio, Fernando

(Fernando, Abba)

 

Forradalom era bruciata.

Distrutta, calpestata.

Non c’era più niente, a Forradalom.

Non c’era più niente di loro.

Le loro case in fiamme, i loro sogni riversi.

E Natal’ja...

Feri lo sapeva, era come se lo sapesse.

Natal’ja era morta, lo sentiva.

Quanto tempo era passato dal giorno del loro matrimonio?

25 Febbraio 1848 - 5 Maggio 1848.

Molto meno di tre mesi.

Ma Natal’ja era incinta.

Di tre mesi.

E se era morta...

Eppure, Feri l’aveva sempre saputo.

I martiri, gli eroi dovevano essere loro.

La sua pelle bruciava, la sua mente era febbricitante.

Non aveva più una moglie.

Non aveva più un figlio.

Aveva perso la Rivoluzione.

No, non voleva tornare quello di prima.

Non voleva morire davvero.

Non voleva perdere lei.

 

-Где моя жена?! Где мой сын?!-

Gdjé moya žyna?! Gdjé moy syn?!

Dov’è mia moglie?! Dov’è mio figlio?!

Feri strattonava violentemente il suo fratello prediletto, che in quel momento odiava.

Jànos aveva le lacrime agli occhi, ma a lui non importava.

-Mi vuoi dire dove sono, maledetto bastardo?!-

Poi svenne, stremato dalla sconfitta e dalla disperazione.

Non poteva finire così.

Non poteva essere finito tutto.

 

-Che cos’hai tu in più di me, Jànos?! Cos’hai in più per aver sposato la donna che ami, per aver avuto due figli da lei, per essere felice?! Cos’hai in più negli occhi e nel cuore, nella pelle, nel destino? Hai il mio stesso sangue, io ho dato il mio sangue per te... E poi perché?!

A cosa è valso salvarti, se tu non sei riuscito a salvare lei?

Lei era tutto quello che avevo, era tutto, era tutto! Tu hai rovinato tutto... Tu...

Non ti è bastato il mio sacrificio?!-

Jàn non sapeva cosa dire, era sconvolto e disperato, e in cuor suo gli dava ragione.

-Мне жаль... Мне жаль... Я не хотел... Я не хотел...-

Mne žal’... Mne žal’... Ya ne khotel... Ya ne khotel...

Mi dispiace... Mi dispiace... Io non volevo... Non volevo...

-Che cos’hai in più per essere ancora vivo?!-

In quel momento, Feri l’avrebbe anche ucciso.

L’avrebbe ucciso lui.

La sua Alja, il suo amore...

Sua moglie, suo figlio...

Tutti morti, tutti persi, tutto finito!

Lui lo sapeva, che Natal’ja era morta per salvare Jànos.

Suo fratello.

Ma era morta anche per salvare lui.

Ed era soprattutto colpa sua, perché lui per primo aveva salvato Jànos.

Quel maledetto bastardo di Jànos.

Il suo fratello prediletto, un traditore.

Un ragazzino che non valeva neanche un attimo, neanche un raggio di quella Rivoluzione. Neanche un frammento del suo cuore.

Jànos, marito, padre, vigliacco.

Disertore.

Usurpatore.

Per chi era morta, la sua Natal'ja?!

Per una nullità che aveva sempre avuto tutto.

Il tutto degli altri.

La sua prima vera felicità.

-Non sei più mio fratello... Ma perché, Jàn? Cosa ti avevo fatto di male?!

Cos’avevo visto in te quando ti ho coperto gli occhi, quando ti ho strappato a quel dolore sacrificando la mia mente, la mia ragione, cos’ha visto Alja in te quando ti ha strappato alla morte, quando si è fatta ammazzare al tuo posto?! Cos’avevi di tanto speciale?!

L’infanzia. I sogni ancora intatti. La bellezza di un cielo eternamente limpido.

La purezza, l’innocenza. Il sorriso chiaro, senza cicatrici.

Avevi tutto quello per cui noi abbiamo sempre combattuto, vero? Tu ce l’avevi già...

Noi siamo morti per difenderlo. Per difenderti. Tu sei la cosa più preziosa che avevamo...

E grazie a Lys non ti ho perso-

Feri si era calmato, si era calmato a metà del suo folle discorso, perché Jànos piangeva, e le lacrime del suo fratellino le aveva sempre asciugate lui, a qualunque costo.

-Perdonami, Jàn... Perdona questo tuo stupido fratello invidioso. È vero, tu sei tutto.

Sei tutto anche per me. Tu sei il futuro, Jàn. Sei il futuro di Forradalom, di Budapest, mio e di Lys-

Jànos sorrise, straziato e commosso, e gli buttò le braccia al collo.

Certo che l’avrebbe perdonato.

Sempre.

Come poteva non farlo?

Lui era il suo eroe.

Feri era il presente.

Feri e Natal’ja erano il presente.

Il presente in fiamme.

-Lo vivrò per te, per voi, il futuro. Solo per te e per la nostra Lys, mio adorato Feri.

Sangue del mio sangue, luce della Rivoluzione-

Per i sogni infranti.

Le lacrime di un cielo squarciato, mortalmente ferito.

La follia, l’impotenza.

Il sangue negli occhi e sulle labbra.

Il sorriso fragile, il cuore spezzato.

Per Natal’ja e Feri, le stelle finite.

Jànos aveva la vita.

La forza della vita.

Meritava la vita.

Jànos, eroe della vita, per la vita.

Jànos aveva il permesso, il diritto di vivere.

Jànos era così bello, così dolce, così vero...

Jànos avrebbe ricevuto la grazia dallo zar.

 

Gli voglio troppo bene, morirei per lui.

Alcune sorelle lo dicono per dire.

Altre lo farebbero, ma non ne hanno l’occasione.

Io l’ho fatto davvero, e va bene così.

Для тебя, мой Jànos (Dlya tebya, moy Jànos. Per te, mio Jànos), io so che ne è valsa la pena.

Natal’ja, 5 Maggio 1848.

 

Ma ieri sera quando son tornato
C’era un silenzio che gelava il cuore
Era un deserto, un luogo abbandonato
Più niente intorno, più nessun rumore
Ed inciampai nell'ombra di me stesso
In quella casa c’era tutto a posto

 

È quasi l’alba, nasce dietro le persiane un mondo di cemento
E questo giorno che ora nasce piano piano, sì, mi fa paura
E quando un uomo scopre sul suo viso
Lacrime calde, chiare di bambino
Tutto l’orgoglio muore all'improvviso
Mi alzo ad un tratto, vado a un tavolino
E su quel foglio gocce di sudore
Gocce di pianto, pochi segni scuri
Ogni parola è un grido di dolore
Ti chiedo scusa, torna a casa, amore

(Tutto alle tre, Pooh)

 

 

 

Note

 

Alja e Feri навсегда, Alja e Feri navsegda, Alja e Feri per sempre.

Di chi ancora sta aspettando le rose di un anno fa: La Grande Festa, Pooh.

Riferito a Feri ;)

 

In questo capitolo finalmente vediamo il matrimonio di Alja e Feri, e il penultimo incontro tra Alja e Farkas prima della fatidica notte del 5 Maggio, quando i Forradalmi, dopo la morte di Alja, si rifugeranno a Shtorm per salvarsi dall'incendio del loro quartiere.

L’ultimo sarà il 5 stesso, quando lui le dirà che, se hanno bisogno, possono andare a Shtorm. Farkas, come abbiamo già visto, non si è mai pentito di quello che ha fatto ad Alja, perché pensava di avere una motivazione valida.

Voleva vendicare Ivan, ucciso da Nikolaj nel 1833, appunto per Alja.

Poi, il figlio di Alja e Feri...

Che non avranno mai, non nascerà mai, perché Alja morirà quasi al terzo mese di gravidanza.

Il Feri dopo il matrimonio, il Capitano guarito, e stavolta davvero.

Ma non ancora per sempre, perché il 5 Maggio è già troppo vicino.

E poi quella notte, il ritorno della sua follia, il suo voler quasi uccidere Jànos, perché non ha salvato Alja, e lui ed Alja invece hanno dato la vita per Jàn.

Jàn è il futuro, è l’unico ad essersi salvato veramente.

E infatti poi Feri lo capisce e gli chiede scusa, perché il suo piccolo Jànos, il suo fratellino prediletto, è sempre stato una delle sue ragioni di vita.

Ci ho messo un’eternità a finire questo lunghissimo capitolo, ma spero davvero che vi sia piaciuto...

Lo dedico alla fantastica Lady Igraine, perché se lo merita tutto ;-)

 

A presto!

Marty

  
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