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Autore: Aretusa    25/01/2013    1 recensioni
Jonathan Christopher Morgenstern, ha deciso di consegnarsi al Conclave e chiedere di essere perdonato per le colpe commesse da suo padre. Sa di non avere alcuna possibilità, ma che importa quando sei solo al mondo e ciò che ti resta non è altro che te stesso?
Il rituale di legame con il suo fratellastro Jace sembra averlo cambiato definitivamente, al punto che forse... forse, potrebbe anche arrivare ad innamorarsi.
Ma chi mai potrebbe ricambiarlo?
Chi amerebbe mai, una bestia?
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Izzy Lightwood, Jonathan
Note: Missing Moments, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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QUESTIONE DI SCELTE

 

 
 
«E’ assurdo!», disse Isabelle per la settima volta da quando avevano messo piede fuori dalla sala del consiglio.
Avevano lasciato Idris immediatamente, grazie al portale aperto da quello stranissimo stregone impiastrato di glitter e lustrini dalle discutibili preferenze modaiole, oltre che sessuali.
Il Conclave aveva concesso a Sebastian un periodo di  prova, durante il quale sarebbe dovuto rimanere sotto la tutela e la responsabilità dell’istituto di New York, mentre il nuovo inquisitore, Robert Lightwood, indagava sullo svolgimento dei fatti. Sua moglie Maryse, che al momento gestiva da sola l’intero istituto, avrebbe dovuto invece fare rapporto sul suo comportamento con cadenza mensile, in modo da tenere la situazione sotto controllo mentre il Conclave svolgeva le sue indagini.
Sebastian sapeva bene che, tutta quella messa in scena era stata architettata dal Conclave con il solo obiettivo di scoprire qualcosa di più sui piani di Lilith. Avevano ascoltato la sua confessione e deciso di concedergli una possibilità di redenzione, ma non gli credevano affatto, la verità era che credevano di poter scoprire grazie a lui dove si trovasse Lilith in modo da stanarla, riportarla completamente in vita e poi, eliminarla una volta per tutte.
Definitivamente.
Al momento lui non era altro che uno strumento nelle loro mani.
«Izzy…»,  provò a dire Jace, ma lei girò i tacchi e gli piazzò un unghia laccata di rosso sul petto.
«Izzy un accidenti! Non pronunciare mai più il mio nome, razza di traditore… Sei solo un…».
«Isabelle. Adesso basta», la rimproverò Marise Lightwood, che fino a quel momento non aveva osato proferire parola. Aveva i capelli neri accolti in uno chignon scomposto, con alcune ciocche ribelli che uscivano da tutte le parti, incorniciandole i lineamenti affilati, spigolosi. «Jace, credo che dovresti andare da Clary. Avrà bisogno del tuo sostegno, e immagino che Jocelyn sarà…turbata». Pronunciò quella parola come se fosse perfettamente consapevole di stare usando un eufemismo, ma non potesse dire l’aggettivo adatto per paura che dalla bocca le uscisse qualcosa di troppo.
A Sebastian vennero in mente almeno una decina di termini più adatti.
Sconvolta, distrutta, scioccata, traumatizzata…
Jace annuì impercettibilmente e posò lo sguardo su Sebastian, come avvertimento, prima di congedarsi.
 «E’ stata una decisione del Conclave», disse poi Maryse, a nessuno in particolare, mentre il ragazzo si allontanava, «e le decisioni del Conclave non si discutono». Il suo tono di voce era fermo, deciso, duro. Sembrava volesse auto convincersi che quella fosse la verità. Si percepiva che non condivideva affatto quella decisione, ma allo stesso tempo era perfettamente consapevole che nessuno di loro avrebbe potuto fare nulla, per contrastare il Conclave. Erano solo le pedine di una scacchiera, i pezzi sacrificabili per un obiettivo comune molto più grande.
Isabelle incrociò le braccia sul seno e strinse i pugni, nervosa. «Lo so», disse, voltandosi verso Sebastian e lanciandogli un’occhiata truce, carica di odio e disprezzo, «la legge è dura, ma è legge».
«La legge dice un sacco di grandissime stronzate», intervenne Alec, con il viso paonazzo per la rabbia. Isabelle e la madre si voltarono verso il ragazzo, colpite. Non era cosa da tutti i giorni sentire parlare Alec Lightwood in un modo tanto avventato. Forse la sua frequentazione con il sommo stregone di Brooklyn stava davvero iniziando a cambiarlo. «Non vivrò sotto lo stesso tetto dell’assassino di mio fratello».
Colpito.
Sebastian sussultò e affondò le mani dentro alle tasche della giacca di pelle, affondando le unghie all’interno della carne dei palmi. Alec aveva ragione, nonostante tutto doveva riconoscere che anche per uno come lui sarebbe stato troppo da sopportare. Se avesse potuto sarebbe andato via all’istante, aveva vissuto solo per molto tempo, e anche quando Valentine era in vita non aveva mai ricevuto da lui l’affetto che un figlio dovrebbe ricevere da un padre. Forse avere una famiglia non era tutta questa gran cosa, come Clarissa sosteneva. Infondo, non avrebbe di certo potuto soffrire la mancanza di qualcosa che non aveva mai avuto veramente.
Ma non poteva.
Non poteva andarsene.
Questa era la sua unica possibilità di essere libero, di dimostrare che non era veramente un mostro, che anche  lui poteva avere un cuore.
Erano arrivati davanti al portone d’ingresso dell’istituto, quello che, agli occhi dei comuni Mondani sembrava solo una vecchia Chiesa dismessa e in rovina, con l’erba alta che cresceva dappertutto, rendendo invisibile il cemento e i licheni che si arrampicavano su per i muri ricoprendo ogni cosa, come in una giungla.
«E dove vorresti andare?», chiese Isabelle con le sopracciglia contratte. Era chiaro che stava cercando di parlare in un tono calmo per non irritare ulteriormente il fratello.
Non voleva che lui se ne andasse da un’altra parte, ma non poteva neanche dargli torto. Perfino Sebastian lo capiva: chi avrebbe mai voluto vivere con un mostro?
Anche lui si sarebbe odiato al posto loro.
A volte si odiava gia.
«Rimarrò da Magnus fino a quando questa storia non sarà stata chiarita e lui», disse, senza guardarlo, «sarà sparito definitivamente dalle nostre vite». Poi, presa lamano della sorella e disse: «Puoi venire con me, se vuoi».
Lei strinse la sua mano tra le proprie e per un attimo rimase a fissarle, incantata. L’intreccio delle loro dita, dal colore di pelle estremamente simile, ma dalle diverse dimensioni, mani da Cacciatori, segnate dall’ombra di vecchi marchi ormai sbiaditi e cicatrici di battaglia. La ragazza sembrò sul punto di scoppiare a piangere, o di tuffarsi tra le braccia del fratello implorandolo di portarla via con lui, ma non fece niente.
Non era possibile.
Non per lei.
Invece rivolse lo sguardo alla madre, piccola e immobile come una bambina sulla scalinata di pietra davanti al portone d’ingresso e fece un respiro. Lento, profondo, calcolato.
«No», disse, lasciando cadere le mani del fratello, «non posso».
Gli stampò un bacio frettoloso su una guancia e salì anche lei le scale d’ingresso.
Appoggiò la mano inanellata di piccoli cerchietti dorati sul portone e sussurrò qualcosa, una preghiera, forse, dopodiché il portone di legno si spalancò sotto il suo palmo.
«Andiamo!», disse a mo di ordine, senza voltarsi, quasi che per un attimo Sebastian ebbe l’impressione che stesse parlando al vento, o a se stessa. «Ti faccio vedere la stanza dove dormirai». Ma l’astio e la ruvidezza della sua voce non lasciavano dubbi sul destinatario di quell’ordine.
Sebbene avrebbe dovuto esserne toccato, o offeso, il suo tono di voce e l’espressione furiosa del suo viso, i capelli neri, lunghi e selvaggi che le si insinuavano dappertutto per via del vento, lo fecero sorridere.
Era come assistere alla scena di un cucciolo di pantera che cerca di dare ordini al suo domatore.
 
***
 
Dopo aver lasciato Sebastian e le sue valige davanti alla porta di una delle stanze vuote dell’aria residenziale dell’istituto, Isabelle Lightwood se ne andò in camera sua e si chiuse la porta alle spalle con un calcio che avrebbe anche potuto spaccare in due il legno pesante di cui era composta, se non avesse controllato la sua forza per paura delle ripercussioni di sua madre.
Aveva una voglia indomabile di rompere qualcosa, l’armadio, i vetri delle finestre, le teste di Jace e Clary, il letto.
Il letto.
Senza fermarsi a riflettere recuperò il suo cellulare dalla tasca della divisa da cacciatrice e compose a memoria il numero di Simon. Il telefono squillò a vuoto un paio di volte prima che lui rispondesse.
«Pronto?».
«Ho bisogno di vederti», esordì.
«Isabelle?», la voce di Simon, dall’altro capo del telefono sembrava sorpresa.
«Non sembri contento di sentirmi. Ti aspettavi che fosse qualcun altro?».
«No», rispose lui, «è solo che pensavo… insomma, stai bene?».
«Benissimo!», fece lei, «perché non dovrei stare bene?  Voglio dire, un mostro psicopatico dalle idee folli si è appena trasferito nella mia casa, ma a parte questo direi che va alla grande».
«Sebastian…».
«Non ho voglia di parlare di questo, ora», disse secca.
Simon tacque per un momento. «Ok, di cosa vuoi parlare allora?»
Isabelle, sbuffò contro il telefono. «Non voglio parlare, Simon», disse esasperata, alzando lo sguardo al soffitto decorato con i vortici di vernice dorata che lei stessa avevo dipinto qualche anno prima.
«Ah».
Ah. Ah? Ma che razza di risposta era? Gli aveva appena proposto di venire a letto con lei e quell’idiota non aveva altro da dire? Non che pretendesse chissà cosa, certo, ma poteva almeno mostrare un po’ più di esultanza. Insomma, lei era Isabelle Lightwood, e gli aveva appena offerto il tuo corpo. Quella non era esattamente la risposta che si era aspettata.
«Allora, quando possiamo incontrarci?», disse spazientita, cercando di passarci sopra. Dopotutto, era pur sempre con Simon che stava parlando, che altro poteva aspettarsi? Se lo immaginò nel soggiorno di Jordan, stravaccato sul divano malconcio e intento a giocare a qualche videogioco idiota di cui lei non aveva mai sentito parlare.
«Ecco», mormorò Simon, esitante, «il fatto è che sono da Clary. Sai, tutta questa storia di Sebastian ha sconvolto sua madre e pensavo di passare qui la notte, nel caso avessero bisogno di qualcosa».
Clary.Isabelle sospirò silenziosamente. Sempre Clary. 
«Credevo ci  fosse Jace con Clary».
Non aveva intenzione di fargli una scenata di gelosia, poteva capire la situazione, in parte, e comunque aveva superato quella fase da un pezzo ormai.
«E’ qui, infatti. Ma non me la sento di lasciarla da sola. Ha bisogno di me».
Ma non è sola, pensò Isabelle, io lo sono. 
Io ho bisogno di te.
Simon.
«Ma certo!», sbottò lei, senza nascondere l’irritazione nella propria voce. «Lei ha bisogno di te. Io me la caverò benissimo da sola. Andrò a cercare qualcun altro con cui parlare».
Che cavolo! Quella sembrava proprio una scenata di gelosia, invece. Avrebbe voluto mordersi la lingua. Accidenti a quel vampiro, lei era una Cacciatrice, e lui òa faceva trasformare in una stupidissima ragazzina insicura. Per di più, gelosa della migliore amica del suo ragazzo.
Poteva esserci qualcosa di più patetico?
Ah, gia. Il fatto che oltretutto, Simon non fosse nemmeno il suo ragazzo.
«Ma… hai appena detto che non volevi parlare».
«Simon Lewis!», grugnì furiosa, «tu sei davvero il vampiro più ottuso che mi sia mai capitato di incontrare, oltre che il mondano più mondano che esista in tutta New York!».
Riattaccò e chiuse con foga lo sportellino del telefono, lanciandolo sul letto disfatto.
Fuori dalla finestra, il cielo di New York iniziava a tingersi di scuro, passando velocemente dal celeste grigiastro all’azzurro intenso, ma le luci dei grattacieli e delle strade rendevano i colori fin troppo slavati, come un quadro ad acquarelli su cui si passa un pennello intinto troppo spesso nell’acqua.
A Idris il cielo era diverso. Tutti i colori erano diversi. L’azzurro del cielo, il verde acqua dei laghi e quello più scuro e intenso dei prati, il rosso, il giallo e il rosa dei fiori e persino il bianco delle nuvole, sembrava più bianco.
Idris. La patria dei Cacciatori. La loro casa.
Al contrario di Jace che era cresciuto li fino all’età di dieci anni, per Isabelle non era mai stato veramente così. L’unica cosa di più simile ad una casa in cui avesse mai vissuto era l’istituto. Quella era casa sua, in realtà. Non aveva mai sentito un particolare attaccamento per quel posto, sebbene non poteva negare che fosse un luogo meraviglioso e quasi incantato… magico.
Per Alec era diverso. Lui era nato li, infondo. Ma lei preferiva di gran lunga i colori sbiaditi di New York, a quelli intensi di Alicante, il traffico assordante della metropoli a qualsiasi or del giorno e della notte alla quiete silenziosa dei piccoli borghi illuminati dagli antichi lampioni alimentati dalle stregaluce.
Eppure, nonostante tutto, in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per andarsene via da quel posto. Lontano da casa e da quell’abominio che sarebbe stata costretta a vedere ogni maledettissimo giorno. Ma non poteva farlo, non poteva andarsene semplicemente via come aveva fatto Alec e lasciare sua madre completamente sola.
Non poteva.
Non lei.
Non. Lei.
Quello che avrebbe potuto fare però, era stringere la sua frusta dorata intorno al collo del mosto che dormiva a poche stanze dalla sua e guardarlo morire mentre soffocava lentamente.
L-e-n-t-a-m-e-n-t-e… 


***Note dell'autrice***

Anche il secondo capitolo è terminato.  Mi rendo perfettamente conto che questi due qui potrebbero essere completamente fuori luogo, insieme - voglio dire, sono fuori luogo ognuno per conto suo, figuriamoci come coppia - ma credo davvero che in fondo, qualcosa in comune c'è l'abbiano... molto in fondo, ecco. Bisogna scavare bene, insomma ^-^ eh eh. 
Che dire, è la prima FF che scrivo e sono ancora una principiante, ma spero con tutto il cuore che possa piacervi.
Chissà cosa accadrà tra la fascinosa Isabelle e l'enigmatico, crudele e pazzo Sebastian\ Jonathan. O come ho iniziato a chiamarli segretamamente io... La mia Bella e la mia Bestia?
Lo scoprirete alla prossima puntata!!!

P.s: Questa sapeva tanto di telenovelas di vecchia generazione.

Baci.
_RosaSpina_
   
 
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