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Autore: miss potter    26/01/2013    4 recensioni
"Oh, Sherlock. Sei impossibile!"
"Casomai impassabile, John. Niente è impossibile."
Genere: Commedia, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                             Di gatti che evaporano e conigli bianchi col panciotto




 
Non erano molti i momenti che John Watson riusciva a dedicare a se stesso dopo quasi due anni passati ad impazzire tra le mura trasudanti di inquietudine al 221B di Baker Street.
A dire la verità, erano davvero pochi, pochissimi per essere meritevoli di essere definiti tali.
Insomma, tra esperienze pre mortem in praticamente tutte le indagini, alambicchi potenzialmente esplosivi disseminati in ogni dove per casa e le crisi isteriche di un coinquilino incapace di intrattenersi da solo senza qualche bell’omicidio all’orizzonte, John sembrava aver perso ogni cognizione di quello che un uomo davvero si potrebbe meritare dalla vita.
Un pomeriggio in santa pace davanti ad un buon libro, ad esempio.

Quella mattina, aveva convinto Sherlock ad andare a fare la spesa, proponendogli come unica alternativa la pulizia di bagno e cucina. Ovviamente, quel sociopatico ad alta funzionalità (sicuramente non per i lavori domestici), rabbrividendo davanti all’immagine di se stesso con un paio di guanti gialli ed uno spazzolone in mano, si era subito infilato il cappotto, borbottando qualche maledizione tra sé e sé, aveva preso porta e soldi di John, dirigendosi al supermercato.
Quindi, quel pomeriggio il medico sarebbe stato libero, finalmente padrone di fare, e non fare, quello che cavolo voleva.
Perciò, invece di armeggiare con detersivi vari e spugnette, onore che comunque avrebbe lasciato a Sherlock volente o nolente a costo di insozzare la sua nota qualità morale nel mantenere le promesse, si concesse un paio di ore stravaccato in poltrona con in mano il primo libro che estrasse dall’immensa babele di letture che popolavano polverose lo scaffale del detective. Ovviamente evitando a vista libri portanti titoli come “Tecniche d’avanguardia per riconoscimento e preparazione di esplosivi” o “Storia del crimine: Jack lo squartatore è ancora tra noi?” o ancora “Minerali e pietre dell’entroterra inglese” per non nominarne altri con titoli ancor meno stimolanti.
Si abbandonò sulla sua amata poltrona di pelle lisa, avvolgendosi nella coperta di lana macchiata di tè e tirò un sospiro di sollievo, assaporando il profumo del silenzio.
Alice nel Paese delle Meraviglie, di Lewis Carroll” annunciò John a se stesso, rigirandosi tra le mani la copertina scarlatta del libriccino. “Strano che sia presente nella lista mentale e fisica dei libri di Sherlock…”
Ad un tratto, fu come trafitto da una scarica elettrica ad alta tensione. Un’idea gli attraversò la mente, veloce come un monello di strada dopo averne combinata una delle sue, digrignando i denti in una smorfia di complice ed innocente malvagità.
Immerso nella calda atmosfera di serena e meritata solitudine e punzecchiato da quell’improvvisa voglia di fare pagare al coinquilino tutti i principi di infarto causatigli quella settimana alle calcagna di assassini e terroristi internazionali, aprì il libro e si inabissò nella lettura che lo accompagnò, perfida, per un abbonante paio di ore e mezzo.

“John! Sono a casa” esclamò il detective, appoggiando pesantemente i sacchetti straripanti di alimenti a lunga conservazione sul pavimento in ingresso. “Incredibile come certe commesse riescano ad essere così stupide. Volevano farmi pagare la marmellata il doppio della cifra che vale in realtà, solo perché a loro dire era quello il prezzo di listino. Eppure ho cercato di convincerle del fatto che non ero intenzionato a pagare i conservanti che…”
Si bloccò in quel suo flusso ininterrotto togliendosi il cappotto e gettando lo sguardo in soggiorno, non avendo riscontrato alcuna reazione.
“John?” ripeté con un tono di voce leggermente più alto, ed entrò in salotto.
Il medico era proprio lì, seduto compostamente sulla sua poltrona, eclissato dietro al Times del giorno prima, indifferente a chiunque e a qualsiasi cosa nel raggio di chilometri.
Sherlock sollevò le sopracciglia, stupefatto dal quell’insolito atteggiamento di sufficienza che non includeva tra le cose che gli andavano propriamente a genio.
Si avvicinò al dottore lentamente, picchiettando col polpastrello dell’indice la pagina del giornale dietro alla quale si era misteriosamente trincerato il coinquilino, restando guardingo, quasi timoroso che da un momento all’altro, dall’altra parte di quelle pagine spiegazzate, saltasse fuori chissà che creatura malintenzionata.
“John? Mi vorresti spiegare…”
“Chi sei tu?”
Quella domanda sgattaiolò fuori dalle labbra di John come un insulto per il detective che quasi non scoppiò a ridere.
Il medico, in un gesto brusco, aveva improvvisamente abbassato il giornale e trafitto con i suoi occhi color blu notte il permafrost oculare di Sherlock che, basito, incrociò le braccia sul petto, indeciso se prenderlo a schiaffi o chiamare direttamente l’ospedale psichiatrico.
“Stai scherzando, spero?” soffiò il detective, in quel momento molto più simile a un gatto infastidito col pelo irto sul chi vive.
Il medico, per nulla intimorito, non spostò lo sguardo di un millimetro da quello del suo coinquilino, anzi lo intensificò maggiormente, scavalcando sfrontato le pagine del quotidiano che stringeva fermamente tra i due pugni contratti.
“Chi sei tu?” ripeté con la stessa tonalità di voce di poco prima, ferma e terribilmente preoccupante per la fama da persona mentalmente stabile quale si era sempre dimostrata John Watson.
Sherlock era pietrificato. Senza rendersene conto, aveva spalancato la bocca e strabuzzato gli occhi, tanto che John, nel suo io padrone di se stesso, temette che gli cascassero giù dalle orbita da un momento all’altro. Non si nascose che in quel preciso istante avrebbe voluto scattargli una fotografia e mandarla al Madame Tussauds per farne una copia identica in cera da portarsi a casa ed ammirare nei suoi momenti no.
A quel punto, forse per curiosità o per semplice noia, Sherlock decise di stare a quello che alla fin fine gli sembrava essere nient’altro che un gioco, un vero e proprio stupidissimo gioco di cui ignorava il motivo e lo scopo.
“Ehm, io… io sono Sherlock Holmes, consulting detective” disse, ansioso di sentire la risposta della controparte, una statua di ghiaccio che continuava a fissarlo apaticamente.
“Che vuoi dire con questo? Spiegati!” esclamò John, corrucciato come quando si è davanti a un dilemma particolarmente complesso.
Sherlock ritenne necessario prendere posto sulla sua poltrona, onde evitare di rovinare a terra dallo sgomento che gli stava procurando quella bizzarra circostanza.
“Ebbene,” continuò il detective, appoggiandosi allo schienale della poltrona e congiungendo le mani sotto il mento “aiuto la polizia a risolvere casi quando la loro inefficienza è più splendente del solito” sentenziò arcigno, piegando il lato destro della bocca in un sorriso arrogante.
John ripose il giornale sul tavolinetto in legno vicino alla sua sistemazione, ripiegandolo a dovere per poi tornare a piantare gli occhi su Sherlock, impassibile.
“Perché?”
A quell’ennesima domanda senza alcun senso logico né morale, dopo qualche secondo di puro sbigottimento Sherlock scosse la testa e fece per alzarsi, rimproverando a se stesso di aver anche solo pensato di sprecare le sue preziose energie mentali dietro a uno che probabilmente si era completamente bevuto il cervello.
Eppure, pensò, la sua scorta segreta di cocaina era ben nascosta, dentro la calotta cranica di Wilson1.
Tuttavia, fu bloccato nel suo intento dalla mano di John che si sporse verso di lui facendogli segno di riaccomodarsi.
“Stai qui, ho qualcosa di importante da dirti!”
Il detective lo squadrò interrogativo prima di riprendere la posizione iniziale, senza appoggiarsi allo schienale questa volta, seriamente preoccupato per la salute psichica del suo coinquilino ma, allo stesso tempo, interessatissimo a quel caso umano più unico che raro.
Lo sguardo perplesso di Sherlock lo spronò a proseguire.
“Tieni i nervi a posto” dichiarò il medico, accavallando le gambe.
Il detective non riuscì più a trattenersi ed esplose in una fragorosa risata che risuonò in tutto l’appartamento sperando di contagiare così anche John il quale sicuramente si sarebbe ripreso da quella sottospecie di psichedelica pantomima, scusandosi in ginocchio per avergli fatto perdere tempo prezioso oltre a quello che aveva già perso in coda alle casse del supermercato poco prima.
“John, ehm…” riuscì a bofonchiare, tra una risatina isterica e qualche leggero colpo di tosse, cercando di darsi un minimo di contegno. “I miei nervi sono a posto e, sinceramente, devo esprimerti tutta la mia più sincera preoccupazione per la sorte dei tuoi visto che siamo seduti qui da circa cinque minuti e in tutto questo tempo non hai fatto altro che delirare.”
John finse di assumere un’aria affranta, quasi offesa a quelle parole, come se il suo ego fosse stato leso in maniera irreversibile.
Tuttavia, non perse del tutto quell’indifferenza di fondo che cominciava a cadergli proprio a pennello. Si strinse nelle spalle e continuò quella partita mentale nella quale sembrava essere momentaneamente in vantaggio.
“Beh, è inevitabile. Siamo tutti matti qui. Io sono matto. Tu sei matto!” disse tranquillamente il medico sfoggiando un sorriso a trentadue denti.
Gli occhi di Sherlock si cristallizzarono dietro a un velo di puro orrore a quelle parole. Se non fosse stato che si trovava davanti a John Watson, medico e soldato in Afghanistan, suo coinquilino, collega e migliore, unico amico avrebbe già alzato la cornetta e chiamato un dottore più bravo, sicuramente più sano di quello che lo stava fissando con un’espressione decisamente sinistra.
“Senti,” continuò il detective allargando le mani e cominciando a gesticolare, disperato “non so di che cosa ti sia fatto nelle ultime due ore e mezza che sono stato via, ma davvero John, non è divertente!”
E poi, rifletté sulle parole del coinquilino che continuava a sparargli addosso quel sorriso ebete che avrebbe desiderato tanto cancellare dalla sua vista con un destro ben assestato.
“E comunque, di grazia, perché dovrei essere matto? Tra i due, in questo momento mi sembra che quello non propriamente a posto sia tu, paradossalmente parlando…” continuò il detective.
“Devi esserlo,” fece John “altrimenti non saresti venuto qui.”
Quella risposta, ovviamente, non soddisfece Sherlock, proprio per niente.
“In parte ti do ragione, amico mio. Non avrei mai pensato che un giorno io e la mia adorata mente ci saremmo trovati in questa situazione, a risolvere casi d’interesse nazionale un giorno per poi finire a farneticare con chi credevi che tra i tre fosse quello con più senso pratico e ragionevole il giorno dopo.”
John si lasciò sfuggire un sorriso che prontamente cercò di nascondere passandosi due dita sulle labbra, gesto che ovviamente non fu ignorato dalle invincibili proprietà osservative del detective che cominciò ad intravedere un barlume di speranza nel riconoscere il suo vecchio, maledettamente ordinario e prevedibile Watson.
“Dovresti farti tagliare i capelli” affermò John, ricomponendosi dietro a quella sua trincea di indifferenza e sorrisi demenziali.
Sherlock si portò una mano in testa in un gesto involontario, come se lo avessero avvisato di avere qualcosa tra quei ricci effettivamente un po’ incolti per fare i rappresentanti dei perfetti ingranaggi che cigolavano senza sosta sotto il cuoio capelluto.
“Me lo dici ogni giorno. E ogni giorno ti rispondo che sono puri e semplici dettagli assolutamente poco utili, se non decisamente superflui, al compimento del mio lavoro” rispose il detective, adombrandosi.
John non badò a quella risposta, anche perché nel suo lungo monologo mentale non ricordava di avere in serbo nessuna replica abbastanza coerente per quel contesto.
“Sai dirmi perché un corvo assomiglia a una scrivania?”
Sherlock adorava gli indovinelli, e ancora di più amava sorprendere coloro che glieli proponevano fornendo la soluzione in brevissimo tempo. Tuttavia, era abituato a tutt’altro genere di enigmi, del tipo dell’animale con quattro zampe la mattina, due a mezzogiorno e tre alla sera, ai trenta bianchi destrieri sul colle rosso2 o a cose di questo tipo, se non anche più complesse. In cuor suo, o meglio, in cervello suo non ricordava di aver mai sentito parlare di corvi e scrivanie.
John lo squadrò da capo a piedi, felice di vederlo in difficoltà mentre si grattava ansiosamente il mento e spaziava con lo sguardo verso la scrivania che tenevano in soggiorno, forse speranzoso di trovarci sopra  qualcosa che potesse essergli utile come indizio per la risoluzione dell’enigma.
“Corvi e scrivanie…” iniziò a riflettere. “Avanti, in realtà sai che è una sciocchezza! Risolvi casi ben più complessi… Corvo, nero, uccello, uccello nero, torre di Londra, nera torre di Londra… Scrivania, legno, legno marrone, legno nero, scrivere, scrivere in nero, scrivere in nero su una torre di legno… No no no!” pensò tra sé e sé, cominciando ad innervosirsi borbottando sull’apparente banalità della cosa.
I pensieri e le ipotesi si accavallavano frenetiche nel cervello del detective che non avrebbe mai ammesso, soprattutto a se stesso, di non essere in grado di risolvere l’indovinello.
Ad un tratto, lo sguardo di Sherlock si andò a posare sulla cancelleria di John in perfetto ordine vicino al suo portatile e il suo volto sembrò illuminarsi seguito da quello di John, in attesa della risposta.
“Le penne!” esclamò il detective alzando le braccia al cielo in segno di vittoria “Come ho potuto non arrivarci prima?! Corvi e scrivanie sono accumunati dalla presenza di penne!”
L’io razionale del medico si meravigliò, ancora una volta, dell’impeccabile esattezza logica del coinquilino e trattenne a fatica il suo usuale ‘Fantastico!’ o ‘Magnifico!’ per continuare quella divertentissima commedia di delirio di pura razza britannica.
“Raccontami una storia!” esclamò il medico, incrociando le gambe sulla poltrona come un bimbo di cinque anni quando prega il genitore di narrargli  una fiaba.
Sherlock fu risvegliato da quell’espressione soddisfatta che assumeva ogni qualvolta che risolveva un caso e fu catapultato nuovamente nella folle realtà del salotto.
“Veramente non sono bravo a raccontare le storie, anche se ne conoscessi qualcuna” rispose il detective, stringendosi nelle spalle, imbarazzato.
“C’erano una volta tre sorelline,” intervenne John di gran fretta “Elsie, Lacie e Tillie, e vivevano in fondo a un pozzo…”
“Che?! Come fanno a vivere in fondo a un pozzo, John? È impossibile. Cosa mangerebbero? Rane e fanghiglia?” lo interruppe Sherlock basito, appoggiando la testa alla mano chiusa a pugno.
“Mangiavano melassa” sentenziò il medico, con tutta la naturalezza del mondo.
“Melassa?!” ripeté il detective non credendo alle proprie orecchie “Nessuno può vivere di melassa!”
Si ritrovò a sorridere, immaginandosi John Watson, non propriamente amante dello zucchero, in fondo a un pozzo ingozzandosi di melassa.
“Infatti erano malate, molto malate” rispose John, assumendo un’aria particolarmente melodrammatica man mano che si addentrava nel vivo della vicenda.
“Ci credo! Finita la storia? Possiamo volgere la nostra attenzione a qualcosa di più serio adesso?”
“E imparavano a disegnare!” continuò John, incurante del disperato invito del collega.
“Oh, ma che brave!” lo canzonò Sherlock mimando un applauso “E cosa disegnavano mai?”
“Melassa!” fu la risposta del medico il cui tono di voce assunse la sfumatura di quello di chi si vede costretto a sottolineare l’ovvio.
“Oh, Cristo.”
Al detective sembrava di aver corso i 400 metri piani, o di essere salito sull’Everest in triciclo da quanto quella conversazione lo spossò. Si portò le mani al volto chiudendo gli occhi e cercando di cancellare per qualche secondo la vista di quell’esperimento mal riuscito qual era il suo coinquilino, massaggiandosi poi le tempie e scompigliandosi i capelli come quando rifletteva su qualcosa di particolarmente contorto, disperso nel suo infrangibile palazzo mentale che in quel momento sembrava essersi crepato sotto il peso di quel terremoto di illogicità.
Ad un tratto, la sua mente annebbiata fu squarciata da un lampo di luce tanto inaspettato quanto chiarificatore: ricordò le storie che Mycroft gli leggeva quando era piccolo per farlo desistere dal rimanere alzato tutta la notte a fare esperimenti e così finalmente metterlo a letto.
Ad un certo punto, un corteo di personaggi strampalati e irreali, matti come cappellai e buffi come carte da gioco parlanti, popolarono i suoi ricordi di bambino ribelle. Conigli bianchi col panciotto, regine assassine, neonati che si trasformavano in porcellini, bruchi mentalmente fumati, gatti sorridenti e aragoste danzanti. E finalmente quel gioco così strano gli apparve più chiaro del cielo d’estate.
Decise di rispondere con le stesse armi.
“John?”
“Parla pure.”
“Mi daresti un ditale?3
Quella domanda lasciò totalmente spiazzato il medico e non riuscì a batter ciglio neanche quando notò l’arrossarsi improvviso delle guance di Sherlock che, come un felino annoiato, si sporse verso John acquattandosi  ai suoi piedi in ginocchio.
Pareva davvero un bambino: due occhioni cerulei e un viso incolume dai segni dell’età.
“Come?”
I loro sguardi s’intrecciarono tra le molecole d’aria tra loro, inebriandosi dell’assoluto mistero che s’infusero l’un l’altro.
“Lascia che ti spieghi” fece Sherlock, risalendo lentamente lungo la figura del coinquilino il quale, decisamente spiazzato da quel comportamento, cercò di affondare il più possibile contro lo schienale del divano.
Poté percepire il caldo respiro di Sherlock posarsi sulle proprie labbra e lì fiorire in un brivido di piacere che gli increspò ogni centimetro di pelle del corpo, donandogli una sensazione indescrivibile e mai provata prima. E ancor prima che John potesse trovare le parole giuste per controbattere nell’immenso casino che popolava la sua mente, si ritrovò le soffici labbra del coinquilino premute sulle proprie in una sorta di bacio acerbo come un neonato, morbido e puro come la risata del primo bambino del mondo.
Chiusero gli occhi quasi allo stesso tempo, beandosi di quel contatto tanto inaspettato quanto da tempo desiderato, figlio di un affetto profondo che oramai sembrava ridicolo continuare a nascondere, soprattutto a se stessi.
Il medico riuscì a ricordare la provenienza di quelle parole, il significato del ditale, e sorrise inconsapevolmente mentre Sherlock ancora indugiava con la lingua sul suo labbro inferiore.
“Perché sorridi?” fece quest’ultimo.
“Riflettevo sul e vissero per sempre felici e contenti.”
“E qual è il verdetto?”
“Che, a volte, le fiabe non sono poi così lontane dalla realtà” sussurrò John, cogliendo dalle labbra protese del compagno un nuovo, tenero bacio. 




Note:
(1) Ebbene sì. Ho chiamato il teschio di Sherlock come il pallone da pallavolo di Chuck in "Cast Away". Boh, forse perchè prima di conoscere John, era il suo unico amico in polvere ed ossa.
(2) Ringrazio Mr. Tolkien per lo spunto *sbatte ripetutamente le ciglia*. E' uno degli indovinelli di Bilbo Baggins a Gollum:
Trenta bianchi destrer
sul colle rosso
battono e mordono
ma nessuno s'è mosso
(da "Lo Hobbit")
(3) In "Peter Pan" di J. Barrie, il ditale è il bacio che Wendy vuole dare a Peter il quale ne ignora il significato.




Author's Corner: Ta dàààà.
Da appassionata sfegatata per "Alice nel paese delle meraviglie" mi inchino a quel geniaccio di Lewis Carroll, l'unico vero ispiratore per questa storia.
Spero di avervi strappato un sorriso. Ce n'è sempre bisogno, no?
Thank you for reading and for your comments!

miss potter




  
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