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Autore: Gwen Chan    27/01/2013    1 recensioni
Israel non parlava mai del suo passato.
Perché raccontare, perché riportare alla luce quanto ogni giorno l'uomo tentava di scordare, di seppellire nel profondo del suo essere, sempre più giù, sempre più giù, là dove finiva il dominio della coscienza e iniziava il regno dell'Es?
Che fossero solo incubi, che almeno non hanno il potere di ferire il corpo. Voleva convincersi che le torture, le percosse, il freddo da far colorare di viola la pelle, la fame tanto viva da stringere le budella, gli osceni, folli esperimenti praticati su di lui non fossero mai avvenuti, che fosse stato tutto un orribile sogno.

[27 Gennaio-Giornata della Memoria]
Genere: Drammatico, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Personaggi: OC!Israele/David Levi; OC!Tel Aviv/Rebecca
Citati: OC!Gerusalemme/Sarah; America/Alfred F.Jones; Russia/Ivan Braginsky
Avviso: tematiche forti
Rating: arancione

1949

 
 
Quasi era andata a sbattere contro il petto di David.
 
“Non sei stanca?”
 
Rebecca scosse vigorosamente la testa, sebbene sentisse le palpebre pesanti e tenere gli occhi aperti fosse uno sforzo che non avrebbe potuto sostenere ancora per molto.
 
“Lo!”
 
A conferma del diniego, accennò una piroetta, ma sbandò e fu costretta a poggiare di nuovo il piede a terra per evitare una caduta. In futuro sarebbe stata capace di comportarsi come una trottola fra i negozi, di districarsi in un elenco infinito di attività , infine di ballare tutta notte, senza per questo mostrare il minimo segno di sonnolenza, fresca e scattante dopo poche ore di riposo. E per le occhiaie sarebbe stata sufficiente una spolverata di fard.
Però, per ora e per ancora qualche anno, lei era solo una bambina che già  alle dieci di sera iniziava a sbadigliare.
 
Doveva essere stata l'una di notte quando David l'aveva trovata in salotto, i piedi nudi sul pavimento di marmo. La fissava severamente, Rebecca già  si presagiva qualche rimprovero. Sarah la rimbrottava continuamente ogni tanto anche Judith. Al pensiero della sorella avvertì un freddo vuoto nel petto; ne scacciò il ricordo.
Le scappò un gridolino di sorpresa quando il ragazzo si chinò alla sua altezza, l'afferrò da sotto le ascelle e la sollevò, sostenendola con le braccia. Rebecca scalciò un poco per farsi rimettere a terra, poi si arrese, a David, alla sua stretta e al sonno, e si accoccolò contro il petto del cugino. Udiva il rumore del suo cuore, aveva un battito stranamente veloce, eccessivamente veloce. Se lo era immaginato più lento, quel battito, più pacato; era adatto a uno scricciolo, era il frenetico pulsare del cuoricino di una bambina spaventata, non di un uomo adulto che aveva più anni di quanti dimostrasse.
 
Stare in braccio a lui, se si trascurava l'angoscia di quel suono martellante, era stranamente confortante, soprattutto se pensava a quanto in realtà fosse scostante nei suoi confronti, al punto che Rebecca si domandava se, oltre a un mero orgoglio, provasse un qualche vero affetto per lei. Era tanto distante e severo, almeno nei momenti in cui si occupava personalmente del suo addestramento. Ed erano la maggior parte.
 
Togli la sicura, tira indietro il cane, inserisci i proiettili. Più veloce. Non hai il tempo di ragionare. Devi essere più fluida, ogni secondo è vitale. Rapida. Ultimamente aveva iniziato a bendarla.
Devi essere un grado di farlo a occhi chiusi, anche se soffri di raffreddore o sei ferita. Di nuovo. Ancora. La tabellina del quindici? Non ti fermare. Tieni gli occhi chiusi. Di nuovo.
La addestrava con ogni genere di armi, sia da fuoco sia da taglio, soprattutto coltelli, le insegnava a lanciarli con un movimento fluido e a servirsene nel corpo a corpo. Infine veniva la lotta a mani nude. 
Spesso non sarai lucida, sarai ferita e esausta, devi imparare a rimanere vigile anche in quelle situazioni, soprattutto in quelle situazioni, essere in grado di analizzare all'istante i fattori in tuo possesso e usarli a tuo vantaggio. Così le ripeteva. Asseriva che lui aveva imparato troppo tardi, che se solo... forse... se fosse stato più attento ... Poi le mostrava ancora la sequenza di movimenti per smontare, rimontare e armare una Smith and Wesson; in pochi secondi era tutto finito, ma David continuava a lamentarsi, a ripetere che era troppo lento, troppo. 
 
Rebecca corrugò la fronte, incapace di comprendere appieno come quell'uomo e quello che ora la stava tenendo in braccio, cullandola lievemente, potessero essere le stessa persona; ne avvertiva il respiro contro i capelli. 
 
“Com'era la zia?” chiese d'un tratto. David sollevò un sopracciglio, magari era convinto che stesse già dormendo o forse era solo sorpreso per la domanda.
 
“Quale zia?”
 
“Voglio dire la tua imma. Sarah mi ha raccontato che avevi una madre. Com'era?”
 
Il tempo che il giovane cogliesse il senso della domanda, mettesse insieme le informazioni ed elaborasse una risposta, Rebecca già sprofondava nell'incoscienza. 
 
“Era bella, gentile, forte... Era mia madre.”
 
Volendo sottolineare con le ultime parole che sarebbe stato assurdo non considerare sua madre come bella. 
La voce si abbassò, rotta da qualcosa che poteva essere dolore o nostalgia o entrambe. 
 
“Aveva un buonissimo profumo, di olive e cedri, occhi scuri e liquidi. Mani affusolate e callose.”
 
“Come le tue? “
 
David non rispose e Rebecca si maledisse per aver parlato eccessivamente. Rovinava sempre tutto,
sebbene il più delle volte lo facesse senza volerlo o rendersene conto, se non quando era già tardi. Sapeva che non erano i calli a preoccupare l'altro, che c'erano altri segni, misteriose, lievi rosee cicatrici su ogni singolo polpastrello, il cui ricordo prontamente gettava il ragazzo in un apatico sconforto. La bambina avrebbe voluto conoscere il motivo, ma David si rifiutava di parlarne. 
 
“Tu però hai gli occhi verdi” Aggiunse in fretta per cambiare argomento. In famiglia era l'unico. 
 
“Ken. Che ne dici? Ora, andiamo a dormire?“
 
Suoni dolci, sussurrati, le parole di un bravo fratello maggiore, eppure ancora così piene di un lontano, incomprensibile dolore velato di profonda tristezza. 
 
“Dormi con me stanotte?”
 
“No. Non è una buona idea.”
 
David scosse la testa mentre la infilava nel suo lettuccio, rimboccandole attentamente le coperte, con movimenti lenti e pacati, perché il sonno che già si insinuava sotto le palpebre chiuse di Rebecca non fosse disturbato. 
 
No, non era una buona idea, l'avrebbe svegliata con il proprio continuo agitarsi sotto le lenzuola, con il suo parlare nel sonno (almeno stando a quanto ripetevano tutti quelli che avevano dormito con lui), con le sue urla. Un rivolo di sudore freddo gli corse lungo la nuca e la schiena; qualche ora di sogni agitati, infestati da mostri e fantasmi e poi sarebbe giunta la tanto attesa, la dolcissima aurora. Un giorno gli incubi sarebbero cessati, si ripeté gettandosi di traverso sul divano, un giorno le sue urla si sarebbero placate, l'ossessione sarebbe scivolata nell'oblio.
 
Sei anni dopo, le notti e le stanze della casa continuavano a essere squarciate dalle sue grida.
 
 

1955

 
Se ne vergognava, nel profondo, di quella sua sciocca, infantile debolezza. Conficcando le unghie e i denti nel cuscino pregava che le lacrime smettessero di scorrere dispettose lungo le sue guance, ma invano. Puntualmente si svegliava ansimando, le lenzuola fradice, le mani che cercavano a tentoni la luce, il panico che gli prendeva la gola nel trovarsi nel buio. Solo dopo essere riuscito ad accendere la lampada sul comodino, si permetteva di respirare, di lasciare che il sollievo lo investisse; era nel suo letto, nella sua camera, nella sua città. Era a casa. Affondò il viso nel copriletto, aspirandone il profumo di limone, quel sentore che gli riempiva le narici e scacciava il sangue, la polvere, la puzza dei medicinali, di qualunque schifezza ci fosse nelle siringhe che gli conficcavano nel braccio, la nausea, il dolore atroce, la paura, il terrore. Capitava, quando i sogni erano troppo reali o vividi, che Rebecca o Sarah o chiunque fosse nella stanza accanto lo trovasse sul pavimento, seduto con le ginocchia strette al petto e un lenzuolo gettato sulla testa, a dondolare e a fissare il vuoto. A ripetere preghiere al vento.
 
“Non morire. Respira.
Domani, non morire fino a domani. Adonai, dove diamine sei? Avevi detto che mi avresti protetto. Non ce la faccio più ” singhiozzava.
 Di giorno tornava a essere il solito orgoglioso e impaziente ragazzo che tutti conoscevano; una nazione fiera.
 
David aveva sempre fame. Non che spalancasse la dispensa e il frigorifero a qualsiasi ora e li svuotasse senza regole, però quando mangiava, a colazione, pranzo, cena ed eventuali altri pasti comandati, era chiaro che non lo faceva per piacere del gusto e dei sapori.
Fame, nient'altro.
Inghiottiva in fretta, percorso da una certa furia animalesca di cui si vergognava, emersa per colpa loro e mai del tutto scomparsa, con la paura che il piatto che aveva davanti scomparisse, che qualcuno glielo portasse via o che, peggio, glielo facesse cadere.
Oppure c'erano momenti in cui i suoi movimenti rallentavano in maniera esasperante; toglieva per minuti la crosta del pane, poi lo sminuzzava in minuscoli pezzetti, portati alle labbra come se fossero qualcosa di insolito e si stupiva ancora di più che rimanessero buoni nel suo stomaco, che le budella non gli di attorcigliassero, portandolo a contorcersi, stretto tra la fame e un corpo non più adatto a accogliere il cibo.
 
E la cucina era il luogo in cui Rebecca aveva scoperto che l'uomo andava ad attendere che le tenebre si dissipassero.
Non se ne era accorta subito, dopotutto quando rincasava, alle due o alle tre, desiderava solo gettarsi sul letto, vestita, magari con ancora le scarpe addosso, non importava, e non si preoccupava nemmeno di accendere la luce. Né badava alla lama luminosa che filtrava da sotto una delle porte, che si spegneva al suo passaggio.
Rare volte aveva tempo di fermarsi a parlare col cugino,  lui andava a dormire e si alzava sempre prima di lei. Non che la faccenda la preoccupasse al punto da toglierle il riposo.
Era cresciuta, Rebecca, era diventata una donna forte e splendida, vivace e coraggiosa come la città che incarnava. 
 
Si passò una mano fra i capelli, tagliati pochi mesi dopo il suo bat mitzvah, qualche anno prima, e mai fatti ricrescere da allora, mentre spalancava l'anta del frigorifero, afferrando il primo barattolo che le capitò sotto mano: languorino da mezzanotte. 
 
"Non è salutare mangiare a questi orari, ma posso capirti."
 
Rebecca sobbalzò, la sua attenzione corse a individuare l'arma di difesa più vicina, esattamente come le aveva insegnato David. 
 
"Calma, sono io."
"David? Sei tu? Che cosa ci fai in cucina? A quest'ora?"
"Aspetto."
"Vuoi una tisana?"
"Toda."
 
Da allora, sebbene non sempre la ragazza si alzasse durante la notte, era conscia che il più delle volte, se lo avesse fatto, avrebbe trovato David sveglio.
 
"Hai fame?" chiese, scolando il tè, una di quelle volte, "C'è del semifreddo avanzato in frigo" aggiunse, mettendogli davanti al viso quello che rimaneva del dolce. David vi affondò il cucchiaio con aria assente. Una volta il gelato gli appariva come un dono concesso dal paradiso, anche ora in verità. Peccato che fosse tanto freddo. Ad Alfred piaceva, già. Era andato in visibilio quando Rebecca lo aveva portato in una piccola gelateria gestita da immigrati italiani in centro; anche lui aveva le sue rogne, con Ivan e tutto il resto. Il ragazzo si incantò, col cucchiaio sospeso a mezz'aria. Capitava che un'improvvisa associazione di idee ridestasse in lui memorie soppresse, tanto potenti da sottrarlo dal contatto con la realtà.
"Com'è il tè?"
 
Per fortuna c'era Rebecca.
"Buona" rispose laconico.
"Come quello di
Sarah?"
"Ci devi lavorare ancora. Ma nemmeno le tisane di Sion eguagliano il liquido più delizioso che io abbia mai bevuto."
Rebecca sgranò gli occhi con curiosità.
"Una brodaglia di non so quale surrogato, ma era potabile e calda, offerto da mani gentili quando avevo sete."
Strinse le mani attorno alla tazza fumante, senza preoccuparsi dell'eventualità di scottarsi, anzi contento del calore, sospirò e si perse di nuovo tra i suoi demoni. Una volta Rebecca gli aveva domandato se anche lui credeva negli spiriti maligni e nei diavoli di cui tanto gridava Sarah, orride creature direttamente vomitate dal seno putrido della Gehenna.
"No, no perché ho visto i veri mostri." aveva sussurrato.
 
Una lievissima, sottile, quasi impercettibile struscia rosata già faceva capolino nel cielo d'inchiostro.
"Sono passati dieci anni." interruppe il silenzio che si era creato nella cucina.
"Dieci anni. I bambini di allora sono adulti ormai, ma per quelli come noi è solo un soffio. Dieci anni."
 
 
Attraverso la nebbia in cui annaspava la sua mente gli giungevano voci affannate, celeri e preoccupate. Ne riconosceva un paio, poi sprofondava nell'oblio lottando per non perdere se stesso in quella profondità. "È incredibile che sia ancora vivo, in grado di reggersi sulle sue gambe e di parlare, anche se dopo qualche parola non abbia più aperto bocca." Una pausa, una voce diversa dalla precedente, poi di nuovo la prima. "Ah,  capisco. Certo è strano e difficile da credere, ma penso di averne avuto già la prova, ero convinto che non sarebbe sopravvissuto alla prima notte, invece è passata ormai una settimana. Ovviamente la mia è una diagnosi superficiale, ma deve avere di sicuro gravi danni agli organi interni. Le unghie sono state strappate, c'è il rischio che le ferite più recenti vadano in cancrena. È un miracolo che abbia ancora tutte le venti dita. Questo parlando della salute fisica, perché per quella mentale non so cosa pensare o sperare. Non mi sorprenderebbe uno sviluppo verso la regressione o la pazzia, ne manifesta già qualche lieve sintomo."  
Arthur, Arthur perché ti sei voluto intromettere nei miei affari, impedire che la mia gente tornasse nella terra dei suoi antenati, tenere un piede in due staffe?
 
Con uno sforzo ritornò alla realtà presente, Rebecca lo fissava preoccupata. David ficcò un po' di semifreddo nel tè, lo osservò galleggiare e sciogliersi prima di ripescarlo.
"Hegel." osservò, concentrato sulle scaglie di cioccolato in sospensione nella tazza più che sulla ragazza.
"Come?"
"Hegel, un filosofo tedesco, per il quale tutto quanto succede ha la sua ragione
d'essere. Tutto risponde alla Storia, semplificando di molto. Riguardando indietro, non aveva poi così torto. Guardami, l'annientamento è stato il prezzo da pagare per riavere questa terra,ma è troppo alto. È sbagliato."
Rebecca ascoltò e gli prese le mani, disegnando cerchi distratti sui palmi callosi. Ne sfiorò i polpastrelli.
"Queste cicatrici hanno dieci anni?"
"Lo. Molti di più, se avessero solo dieci anni, ora non sarei qui. A volte mi chiedo se il mio essere nazione mi abbia salvato o se sia stato la mia condanna. Mi hanno usato come cavia per le loro folli ricerche."
La voce si spense in un brusio indistinto, David disegnò cerchi distratti sul tavolo, gli si velarono gli occhi di lacrime. Il viso di Rebecca gli appariva indistinto, ma poteva sentire la pressione delle mani di lei sulle sue.
 
"Vuoi parlarne?"
"No!" rispose con un'aggressività di certo eccessiva per il contesto, salvo poi nascondere la faccia in una mano, pizzicando stancamente la l'attaccatura del naso fra pollice e indice, e borbottare delle scuse.
"Non capiresti" aggiunse con aria esausta; Rebecca si strinse nelle spalle, dopotutto non era la prima volta che qualcuno le ripeteva che era troppo giovane, troppo immatura, troppo lontana dalle tradizioni per comprendere speciali situazioni. Il passato recente di David era la prima voce della lista di quanto per Rebecca era off-limits.
 
Perché raccontare, perché riportare alla luce quanto ogni giorno l'uomo tentava di scordare, di seppellire nel profondo del suo essere, sempre più giù, sempre più giù, là dove finiva il dominio della coscienza e iniziava il regno dell'Es?
Che fossero solo incubi, che almeno non hanno il potere di ferire il corpo. Voleva convincersi che le torture, le percosse, il freddo da far colorare di viola la pelle, la fame tanto viva da stringere le budella, gli osceni, folli esperimenti praticati su di lui non fossero mai avvenuti, che fosse stato tutto un orribile sogno.
 
Posso dimenticare, ma non posso perdonare. Ci sarebbero voluti almeno altri dieci anni perché ribaltasse la frase: posso perdonare, ma non posso dimenticare.
 
Dimmi come possa esistere giustizia. L'uomo che ha distrutto il mio corpo e la mia psiche, che ha praticato studi barbari sulla mia gente, morirà impunito nel suo letto. Il collo dell'angelo della morte non conoscerà la pressione della corda. Dimmi dov'è la giustizia. *
 
"A volte mi chiedo se il mio essere nazione mi abbia salvato o sia stato la mia rovina. Forse se non avessero voluto scoprire sul mio corpo i segreti dell'immortalità, di cosa ci rende differenti dai normali esseri umani, allora non mi avrebbero fatto quello che hanno effettivamente fatto. Non si sarebbero accaniti come fanatici furiosi.”
Tacque, forse per stanchezza o forse perché pensava di essere già andato troppo oltre con le informazioni. Rebecca si alzò, fece il giro del tavolo, gli posò una mano sulla spalla, gli prese le mani fra le sue. Lo fece alzare: la bimba che accompagna il vecchio.
"Stanotte dormo con te" annunciò con semplicità, pacata e decisa al tempo stesso.
"Sono un uomo adulto."
 
"Non importa. Sarah mi ha raccontato che dormivi con lei. Dormire con qualcuno è utile, scaccia la paura." spiegò candidamente. David sbuffò, sbadigliò rassegnato.
Rebecca continuava a tenerlo per il polso, accompagnandolo con dolce fermezza verso la camera da letto; il ragazzo le scompigliò i capelli: un gesto ruvido e rapido, in cui però era racchiuso tutto quell'affetto che non era mai riuscito a esprimere né ci sarebbe riuscito in futuro. Con Sarah il rapporto era un misto di fisicità e religione, Rebecca era diversa. Sarah era la radice del passato, Rebecca la speranza del futuro.
La rocca di Sion e la Collina di Primavera**.
 
Abbiamo fondato una città nella terra dei nostri avi, è una bambina vivace, dovresti vederla. Fa stringere il cuore di commozione.
Così qualcuno gli aveva scritto, anche questo gli aveva impedito di impazzire.
 
Ringraziò di essere vivo, di essere a casa, di avere un inno e una bandiera, che la stella azzurra fosse tornata a sventolare, di avere quel corpo caldo, infilato in un pigiama celeste, vicino nel letto.
Ancora avrebbe urlato, ancora gli incubi sarebbero emersi dall'inconscio, ma quella notte non sarebbe stato solo ... poteva andare avanti, sì la Nazione Errante avrebbe trovato il suo legittimo posto nel mondo. Un giorno.
Aspirò il profumo di Rebecca e chiuse gli occhi.
 
 
 
Note linguistiche
Lo: no
Ken: sì
Imma: mamma
Adonai: Signore
Gehenna (pronuncia gheenna): inferno. Propriamente era la discarica fuori da Gerusalemme.
Bat mitzvah: cerimonia di maturità religiosa ebraica delle bambine.
Per Rebecca ho usato la scrittura italiana, ma in realtà la pronuncia è Ribqa o Rivka.

  • Riferimento al dottor Mengele che, fuggito in Argentina, non sarà mai arrestato
  • **Tel Aviv significa appunto Collina di Primavera

Note:
E’ passato un anno da quando ho pubblicato “In Memoriam” e devo ammettere che all’inizio questa fan fiction non era stata pensata per la Giornata della Memoria, ma più scrivevo più prendeva quella particolare piega.
In questo anno sono matura un pochino di più e ho scoperto che alcune persone si sentono offese dalla storie commemorative. Pertanto volevo assicurare che non è assolutamente mia intenzione offendere nessuno e che scrivere è solo il modo che ho scelto nel mio piccolo per non dimenticare.

   
 
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