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Autore: WhiteWinterLady2    28/01/2013    1 recensioni
Ettore e Andromaca. Una delle scene più commoventi della letteratura classica. Con questa shot ho voluto ricreare il loro ultimo incontro, rimanendo quanto più vicina al testo, ma allo stesso tempo ampliando o storcendo alcuni aspetti e introducendo i pensieri dei personaggi.
Spero gradiate ;) Nel caso, fatemelo sapere.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ἕκτωρ&Ανδρομάχη

Era pronto.

Scudo al braccio, armi desiderose di spargere sangue, elmo scintillante sotto i raggi del sole di mezzodì.

Per sicurezza, controllò ancora una volta le lame, la punta della lancia, la robustezza dell'armatura. Tutto perfetto.

Bene.

Ora non era più soltanto un uomo. Era un guerriero.

Ed era pronto ad andare incontro al suo destino.

Attraversò sicuro le piazze della città, con passo fermo, coraggioso, carico di adrenalina. Prefigurava già l'affanno e la delusione del nemico ad ogni colpo parato, aveva già nelle narici l'odore secco della polvere, la polvere della sua terra, che i loro passi avrebbe smosso e del sangue che sarebbe sgorgato dagli arti avversari dopo ogni attacco vincente. Ma, soprattutto, pregustava il momento in cui avrebbe trapassato quel corpo, tanto fiero e valoroso, con la sua lancia, spingendola così a fondo da rimaner sicuro che persino l'anima restasse trafitta, fino a che il soffio vitale non fosse uscito dalle sue labbra e gli occhi, ormai stanchi, non gli si fossero chiusi. Pensava ad uccidere. Pensava alla vittoria.

Tutto, pur di inabissare l'ombra della morte e il segreto fremito di paura che gli scuoteva il cuore.

Raggiunse le porte Scee. Al di là, l'esercito invasore attendeva che la Sorte facesse il suo corso.

Il guerriero si fermò, prese un respiro. Era certo che, se avesse vinto, il suo popolo avrebbe avuto ancora una speranza, e lui avrebbe conquistato l'eterno rispetto di chi combatteva o da tempo aveva deposto le armi, vinto dalla vecchiaia. Sarebbe stato sicuro che tutto ciò che per lui era bello e giusto avrebbe continuato a vivere. E avrebbe garantito un futuro ai suoi cari. Alla sua famiglia.

Ma nel caso avesse perso... No, non voleva neanche pensarci.

Una figura bianco vestita catturò la sua attenzione: gli veniva incontro. Era Andromaca.

Andromaca,

illustre figlia di Eezione, abitatore dell'alta

Ipoplaco selvosa, e dei Cilìci

dominatore della città di Tebe.

Andromaca, amore mio...

Dietro di lei, un ancella portava tra le braccia un bambino bellissimo, splendente come una stella. Il padre lo aveva chiamato Scamandrio, quasi lo considerasse un dono portato dalle acque dello Scamandro”, il fiume da cui ogni singola vita a Troia dipendeva, ma tutti già lo chiamavano Astianatte, “il signore della città”. L'eroe troiano sorrise orgoglioso, e non seppe che dire. Intanto Andromaca lo guardava fisso, il volto rigato dalle lacrime. Gli strinse una mano.

“Ettore, ti prego”, lo supplicò con la sua voce dolce. “Questa impresa è disperata, e lo sappiamo entrambi. Per favore, ascoltami. Se oggi scendi in battaglia, ti perderò, gli Achei non desiderano altro che abbatterti, e allora per me sarà la fine. Ti supplico, se non vuoi farlo per me, almeno fallo per amore del tuo unico figlio: resta con noi, non abbandonarci.”

Il guerriero non rispose.

“Tu sei la sola cosa cara che mi sia rimasta in questo mondo. Achille uccise mio padre, e la mia città fu distrutta. I miei sette fratelli andarono incontro allo stesso destino e caddero, uno ad uno, sotto i colpi del Pelide. Solo mia madre, la mia dolce madre, sopravvisse, ma, anche lei, mi fu tolta. Ed ora non mi resti che tu, Ettore. Tu che per me sei padre, madre, fratello, amico e tenero marito. Abbi pietà di me e di tuo figlio, ti prego. Se dovessi morire oggi, non potrò far altro che seguirti. Perché non sopporto l'idea di vivere ancora senza di te. E ho paura, paura di non farcela se tu non ci sarai. Per cui, te lo chiedo in ginocchio, dammi ascolto. Raduna i tuoi uomini, continuate a combattere e a difendere le mura. Ma... non andare là fuori...”. La voce le si spezzò.

L'eroe di Ilio rimase muto. Serrò le palpebre. Il dolore della sua sposa stava diventando il suo.

Quanto vorrei non doverti dire addio... Quanto vorrei potermi svegliare accanto a te ancora un giorno, uno soltanto... Quanto vorrei essere soltanto il tuo uomo e nulla più...

Poi aprì gli occhi e li puntò dritti in quelli di lei. Pose una mano sulla sua guancia. Le fronti si toccarono.

“Non credere che per me sia facile, Andromaca, perché non lo è. In questo momento ho il cuore diviso a metà, e non sai quanto sia straziante. Una parte brama la vendetta, brama il sangue e la gloria, mentre l'altra non smette di sussurrarmi che non ne vale la pena e mi supplica di restare qui, con te, perché ti ama troppo e non tollererebbe una separazione, sarebbe troppo atroce. È quella parte che, stanne certa, qualunque cosa accadrà, in vita o in morte, ti sarà sempre fedele, per sempre. Ma oggi sono costretto ad ignorarla: oggi devo scendere in battaglia, devo. Per te. Per nostro figlio. Per mio padre. Perché i Troiani non diano del codardo al più valoroso tra i figli di Priamo, perché non dicano che non ha difeso la sua gente a dovere. Io sono la loro speranza, la loro forza dipende da me, e non posso deluderli, sebbene il mio cuore sente che un giorno, che non sarà oggi, anche le nostre mura cadranno, e per noi non ci sarà pace. Ma se credi che questa sia la mia unica preoccupazione, ti sbagli, ti sbagli di grosso. Il mio più grande tormento è il pensiero di vederti schiava di quei cani, sola, sofferente, umiliata da coloro che diranno che tuo marito, quell'Ettore tanto prode e coraggioso, non è riuscito a difenderti, e, insieme a te, il suo popolo. È questo che non mi dà tregua. E non posso permettere che accada...”

Andromaca lo strinse a sé, trattenendo a stento le lacrime. Ettore le cinse le spalle con un gesto delicato e disperato. Poi, sciolto l'abbraccio, si ricordò del figlio e gli aperse le braccia.

Acuto emise un grido

il bambino, e reclinato il volto,

tutto lo nascose nel seno della nutrice,

atterrito dalle fiere armi paterne,

e dal cimiero che di chiome equine

in cima all'elmo orribilmente ondeggiava.

Il padre sorrise intenerito, così come la madre. Allora Ettore si tolse l'elmo, quell'elmo terribile e scintillante, e lo pose a terra.

Ora il guerriero non c'era più. Ora era soltanto un padre, un marito. Solo un uomo.

Prese in braccio il bambino, lo baciò, lo cullò dolcemente. Poi lo alzò verso il cielo e supplice esclamò: “Giove e tutti voi, dei cielesti, vi scongiuro, fate che mio figlio cresca robusto e degno del suo popolo. Fate che diventi lo splendore della sua gente, l'orgoglio e la forza sua.

Fate che vedendolo tornare dalla battaglia

carico delle armi dei nemici uccisi,

qualcuno dica: Non fu così forte il padre.

E il cuore materno nell'udirlo esulti”.

Detto questo, l'eroe troiano restituì il piccolo alla sua donna, che lo accolse con un misto di pianto e di sorriso. Ma non seppe allontanarsene: un caldo dolore gli impediva di andare. Tornò allora a cingere Andromaca, e con lei il loro bambino.

“Amore mio, ti prego, non essere triste. Fa troppo male vederti piangere. Confida negli dei: se oggi non è il mio giorno, nessuno potrà condurmi all'Ade, nemmeno Ade in persona. Ora va', ci sono mille faccende che chiedono la tua attenzione. Aspettami nella nostra stanza: al tramonto sarò da te”.

Entrambi vollero credere che sarebbe andata così. Si aggrapparono con le unghie al pensiero che si sarebbero rivisti. Ma l'ombra della morte già strisciava alle spalle dell'eroe, ed entrambi lo sapevano.

Le labbra si sfiorarono per l'ultima volta.

Un'ultima volta si guardarono negli occhi.

Poi Ettore raccolse l'elmo, lo indossò e non fu più soltanto un uomo.

Era un guerriero ed era pronto alla battaglia.

 

Testo riadattato della traduzione di Vincenzo Monti presente nel libro “Le più belle poesie d'amore di tutti i tempi”.

  
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