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Autore: Antilla    29/01/2013    1 recensioni
Ispirata alla canzone 'Le cose che abbiamo in comune' di Daniele Silvestri.
Klaine, con lo zampino di Wes e Rachel.
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A Blaine non sono mai piaciuti gli speed date, li crede per le persone che non hanno più fiducia nel destino, ma poi ci si ritrova dentro e capisce che nessuna considerazione è mai stata così sbagliata.
Genere: Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le cose che abbiamo in comune.


Ancora non mi capacito di come sia arrivato qui; probabilmente avevo bevuto quando ho accettato di venirci.
La reputavo una delle cose più tristi del mondo, giusta solo per le persone talmente ciniche e fredde da non credere più nell’amore che ti colpisce all’improvviso, negli scambi di sguardi con estranei che si trasformano in uno scambio di numeri.
Lo pensavo adatto solo a coloro che non credono più nel destino e nella sua potenza, che rendono i sentimenti simili a contratti. Ogni volta che ho sentito parlare di questi maledettissimi speed date, mi è venuto da pensare a due persone che, sedute ai lati opposti di un tavolo, firmano un passaggio di proprietà.
 
La commercializzazione delle emozioni.
 
Probabilmente Wes e Rachel mi credono così disperato da avermi convinto, quasi sicuramente aiutati da qualche sostanza non ancora ben identificata, a parteciparvi.
Questo locale, che fino a dieci minuti fa trovavo delizioso, non mi è mai sembrato tanto ripugnate.
Le luci abbassate, suppongo per ricreare un’atmosfera più rilassata, non fanno che darmi ai nervi e aumentare la mia voglia di fare dietro front.
Spero che quei due pazzi abbiano almeno pensato al fatto che sono gay e che non ho nessun interessa a incontrare una donna mezza depressa sulla quarantina, esasperata dai due figli che ha lasciato a casa.
In quel caso la mia presentazione sarebbe “Ciao, sono Blaine Anderson, ho ventidue anni e, scusami tanto, ma mi piacciono i ragazzi. ”
 
Quando il moderatore prende la parola, sono già seduto su una scomodissima sedia in legno, che avverto come la più atroce delle torture. 
“Buona sera bella gente” esclama la voce che credo mi accompagnerà per tutta la sera e poi nei miei più brutti incubi.
In un'altra situazione mi sembrerebbe anche simpatica, ma al momento riesce solo ad infastidirmi. “Siete fortunati ad essere venuti proprio stasera, perché questo sarà uno speed date molto speciale.”
 
‘Dio, che culo!’ penso, ironico.
 
Ci provo davvero a sorridere e a non sembrare l’apatico di turno, quello con la puzza sotto al naso, ma proprio non ce la faccio: tutto in questo posto o mi innervosisce o mi trasmette un’infinita tristezza.
Fortunatamente i miei carnefici mi hanno mandato in una serata per soli gay, noto poco dopo. La cosa non mi fa sentire meglio. Nient’affatto.
 
“È abbastanza semplice il meccanismo, soprattutto per alcuni di voi che sono assidui frequentatori, ma lo rispiego ugualmente. Parlerete con ciascuna persona seduta al vostro tavolo per dieci minuti, i quali saranno scanditi dallo squillo del timer; allora ci sarà la turnazione e cambierete partner. Si continua così per tutta la sera e nel frattempo potete ordinare quel che volete.”
 
Che cosa deprimente.
 
Mentre davo inutilmente attenzione al tipo, di fronte a me si è accomodato un uomo sulla sessantina.
 
Ripeto: che cosa deprimente.
 
Però mi sorride e il suo sguardo malinconico colpisce diretto la mia sensibilità.
 
“La novità stasera sono i tavoli infondo. Se una coppia dopo dieci minuti vuole continuare a parlare, può trasferirsi li, approfondire la conoscenza e fare una consumazione gratuitamente.”
La gente intorno a me applaude entusiasta, come se gli avessero assicurato che uno degli uomini di fronte a loro sarà quello delle loro vite.
 
Devo ripeterlo?
 
“Divertitevi ragazzi!” conclude lo speaker, azionando il timer e facendo suonare la campanellina d’inizio.
 
La mia ora è appena scoccata.
 

***

 
Passo i minuti successivi a trattenere le lacrime e no, non si tratta di esasperazione.
Il sessantenne, che ho scoperto chiamarsi Paul, mi ha raccontato di frequentare gli speed date di mezza città con l’intento di trovare negli occhi di qualche uomo lo stesso bagliore che c’era in quelli del suo defunto marito. Mi confessa di non essere certo di poterlo scovare, anzi ne è quasi sicuro, ma dice che vale la pena provare visto che non ha nient’altro da fare. Lo lascio parlare per tutto il tempo e realizzo che forse da questa serata qualcosa di buono potrei trarne. Quando il timer lampeggia sullo 00:00 e dobbiamo salutarci, lui stringe delicato la mia mano e mi sussurra: “Sei un bravo ragazzo, Blaine, e sono sicuro troverai qualcuno perfetto per te come Adam lo era per me.”
Ricaccio indietro le lacrime che minacciano di rigarmi il volto e sorrido timido.
 
La calma e la pacatezza che mi ha trasmesso la chiacchierata con Paul svanisce quando si siede Dean, un ragazzo dai tratti asiatici che assomiglia terribilmente a Wes. Il mio istinto è quello di urlare e mettergli le mani al collo, anche perché, oltre alla somiglianza con l’uomo che mi ha cacciato in questo casino, scopro anche abbia un atteggiamento parecchio arrogante.
Odio le persone che mi trattano come se fossi un bambino solo perché sono un po’ introverso e la mia faccia urla ‘sono un bravo ragazzo’.
Quando esclama “Su, piccolo, sciogliti un po’”, stringo i pugni così forte da graffiarmi i palmi con le unghie.
I dieci minuti sprecati a cercare di fare conversazione con questo tipo mi sono sembrati ore e quando il timer suona di nuovo non trovo nulla a trattenermi dall’andare via.
Mi alzo in fretta e sfilo la giacca dallo schienale della sedia, con la speranza che nessuno si accorga della mia fuga. Mi volto verso l’uscita e c-
 
“Non ti ho ancora detto come mi chiamo e già vuoi andartene?”
 
Merda.
 
Chiunque in questa città – New York è piena di stronzi, vedi Dean – se ne andrebbe a gambe levate senza nemmeno rispondere, ma, forse purtroppo, io sono Blaine Anderson di Lima, Ohio, e fare dietro front per me è ovvio.
 

***

 
Mai guardarsi indietro è stato così bello.
 
Quello seduto al tavolo è un ragazzo coi capelli castano chiaro, gli occhi azzurri, due chiazze color oceano, e l’incarnato bianco e perfettamente levigato.
 
“Ti dico un segreto” gli dico, avvicinandomi appena, “volevo andarmene appena ci ho messo piede.”
 
Ci pensa su due secondi e si sporge sussurrandomi: “Te ne dico uno anch’io: è una cosa che abbiamo in comune.”
La mano che mette vicino alla bocca, come a voler nascondere le parole agli altri, mi fa tenerezza e soprattutto, mi fa sorridere.
 
Quando mi accorgo che è il calato il silenzio, mi gioco l’unico consiglio sensato che mi ha dato Rach: “presentati, è una cosa carina.”.
 
“Blaine, ventidue anni, dall’Ohio” dico, quasi fiero, allungandogli la mano.
La prende e la stringe con delicatezza, anche se spalanca gli occhi.
 
Che ho detto di sbagliato? Dio che casino.
 
“Questa va direttamente nella lista, che ho appena creato, delle cose che abbiamo in comune.”
 
“Hai anche tu ventidue anni?” tento.
 
“No. Sono Kurt e ho ventitre anni. Ma vengo anch’io dall’Ohio.”
 
“Westerville.” mormorò, indicandomi.
 
“Lima” risponde, imitando il mio gesto.
 
Silenzio, di nuovo.
Provo con il consiglio di Wes, forse non era poi tanto male.
 
“Un mio amico mi ha consigliato una specie di gioco per gli speed date.” Comincio subito e il suo annuire mi da il coraggio di continuare. “Domande veloci su argomenti diversi a cui entrambi rispondiamo. So che è stupido... il mio amico non è poi un genio, ma i-”
 
“Mi piace. È carino.” mi interrompe lui.
 
Incurvo le labbra, molto probabilmente in quel sorriso che Cooper ancora ama definire ‘da ebete innamorato’.
 
“Posso cominciare?” mi chiede, con gli occhi che brillano. Forse ha paura che gli possa rubare l’idea se fossi io a cominciare; non sa che le sue iridi color mare mi hanno svuotato la testa.
 
Annuisco appena e ricambio la dose di coraggio.
 
“Cibo. Che preferisci?”
 
Argomento facile, uno dei miei preferiti.
“Quello italiano. La cucina mediterranea è ottima. Non fa male ed è squisita.”
 
Batte la mano al centro del tavolo, come se ci fosse un campanello invisibile, e io lo guardo stranito.
“Cose che abbiamo in comune.” dice entusiasta, mentre il tanto amato sorriso di Cooper riappare sul mio volto.
 
Rido appena.
“Fuori tutta la notte o dormire al caldo, sotto al piumone?” chiedo, ancora con le labbra all’insù.
 
“Coccole e sogni, non ho dubbi.”
 
Stavolta sono io a colpire il tavolo con li polso, per far trillare il nostro campanello immaginario. Non c’è bisogno che io lo confermi, tanto lui sta già ridendo.
 
Si riprende dopo un attimo e si accarezza piano le mani, pensieroso.
 
“Viaggi: pochi giorni o settimane?”
 
“Mesi” rispondo convinto. “Anche anni, se potessi. Che siano posti lontani o vicini, sperduti o affollati, non importa. Si viaggia per cercare qualcosa e potrebbe essere ovunque.”.
 
Finisco di parlare e il timer suona.
 

***

 
Non so bene cosa è successo nei cinquanta minuti successivi.
Non so se è stato lui a chiedermi di andare nei tavoli infondo o se sono stato io.
Non so bene quando abbiamo ordinato questi due drink, né ricordo a cosa abbiamo brindato.
Abbiamo parlato di musica, di questo ne sono certo, poi di danza. Studia alla NYADA, me l’ha ripetuto un paio di volte e sa che la Parson è la scuola che frequento.
Ma non chiedetemi altro, vi prego.
Non domandatemi quando mi sono innamorato del modo in cui si carezza piano il contorno del viso, di come si morde il labbro un attimo prima di ridere. Non invitatemi a dirvi quando mi sono perso tra le sue ciglia folte o tra i capelli che si tocca di tanto in tanto. Non so parlarvi nemmeno del modo perfetto con cui le nostre  labbra si sono toccate.
 
 “Le cose che abbiamo in comune sono così tante che quasi spaventa. Entrambi viviamo da più di vent'anni ed entrambi comunque, da meno di trenta. Ci piace mangiare, dormire, viaggiare, ballare, sorridere e fare l'amore. Lo vedi, son tante le cose in comune, che a farne un elenco ci voglio almeno tre ore. Ad ogni domanda, una nuova conferma, un identico ritmo di vino e risate

E poi l'emozione di questo primo bacio? Le labbra precise, perfette, incollate. Ti ho abbracciato, ho studiato il tuo corpo, ho visto che in viso eri già tutto rosso. E intanto ho scoperto stupito e commosso che hai le mie stesse identiche ossa. E allora ti chiedo, non è sufficiente?
Cos'altro ti serve per esserne certo? Con tutte le cose che abbiamo in comune. L'unione fra noi non sarebbe perfetta?”
 
Sono sicuro. Questo gliel’ho detto.
Lui ha tentennato un po’.
“Non saprei. Sono stato bene con te.”
 
“Allora cos'è? Cosa ti serve ancora? A me è bastata un'ora!”


The end.
 

Come ho scritto anche nell'intro, questa os è ispirata alla canzone 'Le cose che abbiamo in comune' di Daniele Silestri.
Stavo facendo una mia personale riot su questo cantautore e l'idea mi è scoppiata in mente: non ho saputo trattenermi.
Grazie se siete arrivati fin qui e grazie ancor di più se perderete del tempo a recensirla; mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate.
Domani ci sarà l'aggiornamento di Just look at me, la long che ho incorso, e forse potrebbe arrivare un'altra os, ovviamente Klaine.
A presto splendori.
Petronilla.

P.S. Non so se qualcuno ha notato Wes e Rachel (se non l'avete fatto, ve lo sto dicendo io). Nella mia miniplot per questa os loro stanno assieme.
Perchè? Perchè mi sono innamorata di loro in Little Number e volevo metterli, anche se io sono decisamente una Fincheliana. 

 
  
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