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Autore: aubkae    30/01/2013    1 recensioni
Dopo che tutto è finito, c'è questo: diciassette gradini e una porta. L'ha pianificato, questo, all'infinito, ha esaminato ogni contingenza. Nella sua testa la prima parte fila sempre liscia. Si tratta solo di salire delle scale.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Note della traduttrice: buongiorno fandom /0\ questa è una delle fic post-Reichenbach che preferisco in assoluto. Ho fatto del mio meglio per rendere bene in italiano il ritmo, che è abbastanza particolare e di grande effetto – ovviamente la versione inglese è trecentomila volte meglio e ve la consiglio caldamente: http://archiveofourown.org/works/332463
(Il giorno in cui imparerò a inserire i link sarà un giorno felice -.-) (Se cliccate sul tondino blu sulla pagina dell’autrice verrete trasportati direttamente al profilo di aubkae su AO3, che forse è più indolore come procedimento)(E vi beccate anche le altre sue storie, che sono fantastiche).
Si trovate imperfezioni, orrori lessicali, grammatici e quant’altro o semplicemente qualcosa che vi turba, non esitate a dirmelo. Spero vi piaccia :*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sherlock aveva pensato a questo momento, alle scale e alla porta. L’aveva pianificato meticolosamente, aveva esaminato le possibilità e calcolato le probabilità, la sua revisione basata su nuove informazioni e nuove connessioni fra nuclei di dati già esistenti.
Era stato… difficile.
Diciassette scalini, e una porta. Ordinario. La gente fa le scale e apre porte ogni giorno. Non è nulla, nulla, insignificante, noioso.
Eppure.
Una settimana prima, Sherlock aveva ucciso l’ultimo dei cecchini. Era stato un colpo fortunato, era stato il suo primo vero omicidio, e dopo aveva vomitato. La maggior parte delle persone sarebbero sorprese dal saperlo, lo sa. Sherlock pensa che John capirebbe.
Un’ora prima, Sherlock era seduto su una certa panchina in un parco. Una senzatetto gli si era avvicinata e gli aveva detto che la signora Hudson era andata da sua sorella e che John era senza dubbio a casa, e Sherlock aveva in mente di pianificarlo meglio ma era finito in qualche modo in un taxi con un indirizzo sulla sua lingua, come se quello fosse il suo posto, ancora.
In questo momento, Sherlock è in piedi in un corridoio con il cuore a mille che minaccia di soffocarlo, e sul punto di ritornare dal mondo dei morti. Sta facendo questo da nove minuti e dodici secondi.
Si era detto che quando (se) fosse riuscito a tornare qui, avrebbe memorizzato ogni dettaglio. Ogni nuova scheggia nella vernice, ogni crepa nelle assi del pavimento, il fango delle scarpe di John sullo zerbino, tutto quanto, tutte le tracce lasciate mentre la vita andava avanti senza di lui. Non aveva mai avuto una casa prima, non aveva mai sentito la mancanza di un posto (una persona) abbastanza da accorgersene; ora vi sono questo terribile viscerale disperato fervore, questa violenza emozionale. Prevedibili e inaspettati a un tempo.
Assaporerà il momento, allora. Come dovrebbe fare. E dopo aver finito, si limiterà a salire le scale.
Sherlock è immobile in piedi, fissando gli scalini e non osservando un bel niente.
Diciassette scalini.
John apre la porta. “Ho sempre creduto in te,” dice. “Ti conosco.”
Sherlock ricorda tutto di John, le macchie di colore nei suoi occhi, l’innalzamento e l’abbassamento di tono della sua voce, l’efficienza dei suoi movimenti, l’odore di pulito-tè-cotone-olio di pistola-casa-sicurezza della sua pelle, ma i fatti non sono nulla paragonati a questo.
Diciassette scalini.
John apre la porta. Sherlock dice “John,” e si scusa, e spiega, e niente viene fuori nel giusto modo; è tutto un affastellarsi di frasi le une sulle altre e paragrafi di testo bloccati che non hanno senso e non giustificano nulla, come se Sherlock avesse messo da parte parole per John per tutto questo tempo e dicendo il suo nome le avesse rilasciate tutte in un fiume in piena, il che ha senso, davvero, John ha questo effetto su di lui.
“Non ti merito,” dice quando John gli afferra le spalle e gli dice di smetterla di andare in iperventilazione se non vuole svenire.
“Cazzo se non mi meriti,” dice John, le dita sopra il frenetico pulsare del suo polso. “Ma sono qui, idiota. Sono qui (1).”
Diciassette scalini.
John apre la porta. Sherlock dice qualcosa di incredibilmente irrispettoso e insensibile, e poi esaurisce completamente le parole davanti allo shock e al dolore di John. John lo fa entrare nell’appartamento, ma la distanza tra di loro aumenta un poco di più e ferisce un poco più in profondità. Si chiede se allora è questo, l’ultimo taglio, quello che li fa farà sanguinare a morte.
Diciassette scalini.
John apre la porta. Colpisce Sherlock in faccia con un pugno, mandandolo a sbattere indietro contro il muro. Nel momento in cui il suo naso gronda sangue sul suo cappotto, Sherlock sente qualcuno ti ama echeggiare nella sua testa. Corregge il tempo verbale, perché può non essere bello ma almeno è esatto.
“Vattene,” dice John. La sua voce è vuota e gelida, ed ecco, dunque, è finita, è tutto finito, tutto.
Diciassette scalini.
John apre la porta. Cammina attraverso Sherlock e scende le scale, perchè Sherlock è morto e i morti non ritornano indietro.
Diciassette scalini.
Sherlock apre la porta. John è sul divano, sangue e materia cerebrale spruzzati sopra tutta la carta da parati della signora Hudson. E’ una facile decisione, finalmente, dopo tutto questo tempo. Andrà ovunque pur di stare con John, dappertutto.
Diciassette scalini.
John apre la porta. Il volto gli diviene esangue, e cade in ginocchio. Sherlock si inginocchia a sua volta, afferra le spalle di John, incapace di sopportare la distanza.
“Ti prego,” dice Sherlock, il suo viso contro il collo di John e le dita di John nei suoi capelli. “Ti prego. Penso di amarti.”
Diciassette scalini.
John apre la porta. Tira dentro Sherlock per il cappotto, lo bacia contro il muro, lo fa a pezzi con le sue mani, si dà a Sherlock in cambio. Finiscono aggrappati l’uno all’altro sul divano, vogliosi e patetici e così perfetti, e Sherlock pensa che forse vorrebbe che fosse sempre così, da ora in poi, sempre.
Diciassette scalini.
John apre la porta. Sherlock va nel panico e fugge via.
Diciassette scalini.
Mycroft apre la porta. “Sei troppo in ritardo,” dice. “Lei è dolce, e normale, e così insipida. Ma lo ama.” Rotea il suo ombrello mentre Sherlock si appoggia al muro. “E’ già qualcosa, non credi?”
“Mandi avanti gli affari di quel fornaio da solo,” dice Sherlock, e volta il viso in modo da non vedere la pietà negli occhi di Mycroft.
Diciassette scalini.
Sherlock apre la porta. L’appartamento è vuoto. Gli sono state date false informazioni, e John non è qui, John potrebbe essere dovunque, John doveva essere al sicuro, questo era lo scopo di tutto, Sherlock si è lasciato sfuggire qualcosa, si è lasciato sfuggire tutto quel che era davvero importante, e dov’è John.
Diciassette scalini.
Jim Moriarty apre la porta. “Hai capito tutto male, mio caro. Pensavi di essere l’unico con un asso nella manica, vero? Giocare pulito è così noioso, e io sono davvero,  davvero deluso.”
Dietro di lui, John lo saluta con la mano.
- No. No, no, no, fine, cancella!
E’ del tutto possibile che John lo odierà o lo lascerà o non vorrà più vederlo (più probabile di qualsiasi altro scenario, è costretto ad ammettere). Ma non questo. Sherlock dubita di ogni cosa, sì, ma se vi è qualcosa di certo al mondo è l’onestà di John Watson.
Sherlock si affonda le unghie nei palmi, prende un profondo respiro, e si obbliga a concentrarsi. Desidera, improvvisamente e violentemente, della cocaina. No.
Vi sono dettagli scritti ovunque nel corridoio d’entrata, tracce di John e della signora Hudson e di chiunque abbia fatto visita recentemente. Mycroft, Lestrade, Harry, una donna che indossava uno stucchevole profumo alla rosa e scarpe che le facevano male ai piedi, un uomo con un bambino e un pesante cane dalle zampe corte, un gruppo di ragazze adolescenti – chi sono tutte queste persone? Non c’è modo di saperlo. E’ passato troppo tempo.
Le sue mani stanno cominciando a dolergli. Il suo respiro è irregolare e troppo forte. I suoi piedi sono incollati al pavimento. Non riesce a vedere nulla nei dati a disposizione. Non sa cosa accadrà.
Diciassette scalini. E una porta.
Solo diciassette scalini, ma in qualche modo sono insormontabili, peggio che saltare giù da un palazzo e fuori dalla sua stessa vita.
Le scale non sono il problema, dopotutto.
E’ tutto orrendo, il senso di colpa e la paura e il soffro-perché-John-soffre. E’ terribile a gestire tutto questo. Il peggio è la speranza, quella cosa delicata e incredibilmente testarda raggomitolata nel suo petto, fatta di luce e rasoi in parti uguali.
Sherlock inghiotte con qualche difficoltà. Guarda la sua stessa mano toccare la ringhiera, la sua stessa scarpa sollevarsi. E’ insolitamente sporco e trascurato, ma è così tanto che non mette piede a Londra che non è riuscito a lavarla via dai propri piedi.
E’ appoggiato pesantemente al corrimano con un piede sospeso in aria quando lo sente.
Sopra di lui – un suono scricchiolante seguito da un raschiare. I polmoni di Sherlock smettono di funzionare ma il suo cervello si mette in moto: è il suono di John che si alza dalla scrivania. Riesce a vederlo nella sua testa come se stesse guardando filmati di sorveglianza. Vi sono passi, John è senza scarpe, zoppica leggermente (oh Dio). Diversi piccoli rumori di cose spostate, il fruscio della stoffa. E’… il suono di John che si mette le scarpe e il cappotto.
John sta uscendo. John sta per uscire fuori dalla porta e scendere le scale. John è a qualche metro di distanza, niente fra di loro se non diciassette scalini e una porta, e Sherlock è ancora fermo lì.
Si muove allora, l’adrenalina che lo spinge su per le scale due gradini alla volta. Otto balzi, famigliari-sconosciuti scricchiolii sotto i suoi piedi. Manca l’ultimo gradino, il diciassettesimo, cade in avanti, mulinando le braccia e salvandosi all’ultimo con una mano sul telaio della porta.
Sherlock aveva pianificato tutto questo, all’infinito, ampiamente. Sembra stranamente appropriato che quando il momento infine arriva, lui vi entri dentro allo sbando, impreparato. Aveva pensato di essere preparato a tutte le contingenze quando aveva liberato deduzioni rapide come un fulmine contro un medico militare dalla faccia triste in un laboratorio al Bart’s una vita fa, non è vero, e guarda com’è andata a finire.
John apre la porta.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note della traduttrice: …forse avrei dovuto dire all’inizio che se non vi piacciono i finali aperti questa non è la storia per voi – ma! dove sarebbe stato il bello altrimenti? :D *schiva pomodori*
(1): John letteralmente dice “You have me”, il quale è anche un modo per significare “ci sono, non ti lascio”, che è la traduzione che ho scelto di adottare – unicamente per gusto personale, eh, solo perché in italiano secondo me viene più spontaneo dire “Sono qui” piuttosto che “Mi hai”. Ma se vi sembra troppo libera come scelta, ditemelo e correggo rait nau. :D
Edit: a chi avesse letto questa storia prima della correzione effettuata: quando Sherlock dice a Mycroft “mandi avanti gli affari di quella panetteria da solo”, intende alludere in maniera insultante alla sua passione per i dolci e per i prodotti da fornaio in generale. Ammetto candidamente di non aver colto il significato esatto a una prima lettura, e di averlo tradotto in modo del tutto sbagliato (sembrava che fosse Mycroft stesso a gestire la panetteria) (della serie: quando non sono occupato a governare l’Inghilterra, passo il mio tempo libero a infornare michette e babbà) (L’IMMAGINE, VI PREGO) (pfff XDDD) (adoro questo tipo di strafalcioni dovuti al misunderstanding) (lo so che non suono per niente professionale, mi dispiace).
  
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