Il ritorno
4 Novembre
Caro diario,
un nuovo giorno è alle porte. Il Sole è sorto anche oggi, il
cielo è limpido e non ci sono nuvole sulla Virginia Occidentale. Lo posso
vedere dal finestrino che questa notte ho lasciato abbassato. Tutto fa
presupporre una giornata pacifica. Eppure questa strana sensazione non mi
abbandona neanche in questa mattina così abitudinaria. Ho fatto quel sogno, di
nuovo. Quello della villa ottocentesca con quella famigliola felice. Soltanto la
mamma e i due figli che aspettavano il padre. Era Natale. È sempre Natale in
quella casa. Loro sono felici e la mamma canta così bene. Il francese le rende
la voce più dolce e soave. Non posso fare a meno di amare quel canto, di
guardarla con riverenza come quei due bambini così puri e amabili. C’è un calore
immenso in quella casa. Un calore che io devo aver quasi dimenticato da quando
sono andata via di casa. E questo ci riporta qui. A Mystic Falls. A casa. Si
sta avvicinando e l’atmosfera insolitamente calda, settembrina, quando le
foglie cadono dagli alberi. E qui la distesa della foresta sembra infinita.
Come infiniti sono i dubbi che mi assalgono nel sentire il vento sferzarmi i
capelli. È aria di casa quella che sento? È arrivato davvero il momento di
tornare? Mi sono davvero arresa? Quando mi sono licenziata, mi sono sentita
libera. Non ero più costretta a vivere in quel mondo falso e ipocrita che,
purtroppo per me, era divenuta la rivista che prima avevo tanto amato. Il
problema, però, rimane: è davvero tempo di tornare a Mystic Falls? Sono passati
due anni da quando sono andata via. Due anni. Non ho più notizie dei miei
amici, della mia famiglia, della mia scuola. È stata la scelta migliore.
Fuggire senza guardarsi indietro. So di aver fatto soffrire molte persone, me
stessa tra le tante, ma non riuscivo più a far finta che andasse bene così.
Codarda. Sì, so di esserlo, ma a chi importa? Almeno Fashion Magazine mi ha
dato un po’ di serenità. Tutto quello che cercavo. Adesso sono pronta ad
ammettere le mie colpe dinanzi alle persone che amo. Dinanzi a Elena, per come
ci siamo lasciate. Tra urla, lacrime e tanto, tanto dolore. Dinanzi a Jeremy
per averlo lasciato solo ad affrontare quel mostro enorme che è la perdita
delle persone più amate. Dinanzi alla zia Jenna perché io, io che avrei potuto
aiutarla a badare a noi, l’ho abbandonata così, senza una spiegazione
ragionevole. Solo per seguire i miei interessi. Adesso basta. La penna trema
sulla carta. È arrivato il momento di smettere di scrivere. Spero che domani
possa voltare pagina e iniziare qualcosa di bello. Un nuovo capitolo. Lo spero
davvero.
Phobe Gilbert smise di scrivere il suo diario, per poi
riporlo nella propria borsa nera ed elegante, di Gucci. L’ultimo regalo che
Ethan le aveva donato prima della loro fine. Guardò verso il sedile del guidatore
e notò il sorriso divertito sul viso ancora, per certi tratti, infantile del
suo fotografo preferito. Alto, slanciato, venticinquenne, Nate Knight era di
certo uno dei pochi ragazzi a cui avrebbe concesso la sua intera fiducia. Gli
avrebbe affidato la sua stessa vita in una situazione di pericolo perché era
certa che il ragazzo l’avrebbe salvata.
« Ehi Phobe, Siamo arrivati. Bentornata a casa,» esclamò
allegro il suo compagno d’avventure. Trovare Nate era stata una fortuna. Nate
era originario di Grove Hill, a pochi
kilometri da Mystic Falls. Si erano conosciuti il primo giorno di lavoro quando
Phobe, ancora inesperta, s’era scontrata con la bella Charlotte Cooper, la
ricca ereditiera della famiglia Cooper, proprietaria della rivista. Per poco non
le aveva rovesciato il caffè bollente, stile italiano ovviamente, - come il suo
capo, il fratello della suddetta, le aveva richiesto,- sull’abito Armani bianco
che indossava. Nate l’aveva praticamente salvata dalle sue grinfie e l’aveva
aiutata ad ambientarsi in quel nuovo mondo ancora sconosciuto.
« Grazie per il passaggio, Nate. Sei un tesoro. Ci sentiamo
presto,» mormorò dolcemente prima di scoccargli un bacio sulla guancia glabra. Sarebbe
stato perfetto come uomo. Bello, intelligente, acuto, molto riflessivo, ricco
abbastanza da permettersi una vita dignitosa con qualche piccolo lusso ogni
tanto. Sì, un uomo da sposare. Se si tralasciava il piccolo dettaglio della sua
omosessualità, certamente.
« Bellezza, se dovessi avere qualche problema, fammi un fischio
e sono subito da te. Non c’è bisogno di ringraziare,» le garantì facendole
l’occhiolino prima che la ragazza chiudesse lo sportello con un sorriso pieno
di riconoscenza. Sperava che fosse così. Che si sarebbero rivisti in un futuro
che si augurava essere prossimo. Si mise il borsone in spalla e l’osservò andar
via. La mano sinistra, quella non impegnata a mantenere la stringa del
bagaglio, scattò in alto e continuò a rimanere in quella posizione sino a
quando non lo vide scomparire dietro l’angolo che portava all’incrocio con la
statale. Quando si guardò intorno, notò che l’argutezza di Nate non falliva
mai. L’aveva lasciata dinanzi al cancello del cimitero cittadino, dinanzi ai
suoi cari. Sospirò. Avrebbe preferito rimandare quella sorta di incontro, ma
non poteva sottrarsi. Chinò per un attimo il capo, lo sguardo fisso sulle sue
comode scarpe da ginnastica bianche che indossava. Non era certo il suo
abbigliamento tipico, ma aveva bisogno di qualcosa di molto più pratico per
quel lungo, lunghissimo, interminabile viaggio. Annuì risoluta. Sarebbe partita
da lì. Dal cimitero. Avrebbe messo in piedi la sua nuova vita a partire da
quella più vecchia. Sì. Il cimitero sarebbe stato il suo punto d’appoggio.
Decisa aprì il cancello, che cigolò sinistro, e avanzò tra le lapidi candide
verso quelle più vicine al James River, dov’era situata quella dei suoi
genitori.
« Ciao mamma. Ciao papà,» li salutò posando il borsone sul
terreno umido di rugiada dinanzi alla pietra marmorea dei suoi genitori.
Carezzò la scritta sotto le loro date prima di sedersi sulla base dell’angelo
di roccia dietro di sé, « Sono tornata,» continuò con ovvietà, mettendosi più
comoda prima di ispirare profondamente. Sapeva che era inutile ciò che stava
facendo. I suoi genitori erano morti due anni prima. Non erano altro che
polvere sotto quattro metri di terra. Eppure parlare a quella lapide la fece
sentire meglio. Come se dinanzi a sé avesse la sua cara mamma, quella che
considerava un’amica alla quale tutto poteva essere raccontato senza paura di
un giudizio severo o di uno sguardo risentito. Come se dinanzi a sé avesse il
suo forte papà, l’uomo che l’avrebbe protetta da ogni insidia e da ogni
pericolo, l’uomo di cui si era sempre fidata ciecamente e l’uomo che non
l’aveva mai delusa, « Mi sono licenziata. Non era posto per me. Avevi ragione
tu, papà. Ma ora sono qui. Rimedierò ai disastri che ho combinato,» promise
loro con voce rotta dalle lacrime che le erano arrivate agli angoli degli occhi
scuri, « Ci vediamo presto,» quasi fuggì, afferrando il borsone per poi
volgersi verso l’uscita di quel luogo pacifico, di quel rifugio di anime. Si
accorse delle lacrime che le bagnavano le guance e le asciugò con il dorso
della mano. Si era ripromessa di non piangere. Non più. Era così stanca di piangersi
addosso per tutti gli avvenimenti che le erano capitati in quei mesi. Da quando
lei ed Ethan s’erano lasciati non aveva avuto un attimo di tregua. Aveva
provato a lavorare, ma non c’era riuscita. Certi giorni faticava persino a
mangiare il minimo indispensabile per non svenire nel bel mezzo delle riunioni
dei redattori. La scelta di tornare a casa era venuta da sé. Phobe non era mai
stata una ragazza orgogliosa, per sua immensa gioia, e l’idea di tornare sui
suoi passi non l’aveva turbata molto. Ciò che la turbava, invece, era il
pensiero di un’Elena così arrabbiata da rifiutarsi di perdonarla, o di un
Jeremy dimentico di quel bene che li aveva sempre legati, di quella complicità
che animava il loro rapporto. Mentre quei pensieri le assalivano la mente così
stanca di rimuginare ancora, continuava a passeggiare senza una meta precisa.
Si accontentava di camminare. Camminare l’aiutava sempre. Era l’unico modo per
sfogarsi. Una volta era riuscita a percorrere quattro isolati di Kansas City
solo perché aveva avuto una discussione con Celine. Camminò con lo sguardo
basso per minuti. Solo una cosa la fece bloccare: lo scontro con qualcuno
davanti a lei. Maldestra. « Scusi. Mi
spiace,» si affrettò a scusarmi, comprendendo benissimo che fosse colpa sua e
del suo strano modo di sfogarsi. Certamente anche l’altra persona doveva aver
avuto altro per la testa, però era stata lei a sbattere contro quello che
sembrava essere un muro, « Non guardavo la strada,» continuò imbarazzata prima
di sollevare lo sguardo di un caldo marrone chiaro e immergerlo in quello verde
di un ragazzo sulla ventina. Quasi sgranò gli occhi e schiuse le labbra per ciò
che vide. Era sicuramente il ragazzo più avvenente che avesse mai incontrato. Un
dio greco nelle vesti di un diciassettenne. Sembrava un modello, uno dei tanti
che aveva visto a Fashion Magazine. Ma lui era di gran lunga migliore. I
modelli sembravano plastificati, come se la palestra e l’esercizio fisico, di
qualunque natura si trattasse, li avessero fatti divenire di cartone. Ma lui
era vero. Vivido, reale. E, cielo, aveva anche un corpo niente male. Il muro
contro il quale si era scontrata altro non erano che i suoi pettorali fasciati
da una t-shirt nera con lo scollo a V.
« Non si preoccupi. Colpa mia,» esclamò cordiale, prendendo
il borsone che le era caduto nello scontro e porgendoglielo con gentilezza,
sorridendo. Aveva anche un sorriso accogliente.
« Ti ringrazio…,» si interruppe, non sapendo come
continuare. Imbarazzata. Non le capitava da tempo, oramai. Da quando stare con
Ethan era divenuto così quotidiano da apparirle quasi scontato. Non aveva dato
peso a nulla nel loro rapporto e giorno dopo giorno si erano persi senza
possibilità di tornare indietro. Un peccato, sì, ma non aveva sofferto poi
molto per quella mancanza improvvisa. Non più del necessario.
« Stefan. Stefan Salvatore. Molto piacere,» si presentò cordiale,
porgendole la mano destra che la ragazza prontamente afferrò. Aveva la pelle
morbida e liscia e poteva percepire un profumo irresistibile provenire dalle
sue vesti. Hugo Boss, ne era certa.
« Phobe,» riuscì soltanto a sussurrare lei.
« Vuoi una mano? Sembra pesante,» constatò riferendosi al
borsone che conteneva tutta la sua vita. Fu tentata di dirgli di sì, poi si
ricordò del viaggio, delle scarpe, del suo abbigliamento del tutto spartano e
no, quella non era affatto una buona idea. Presentarsi in quel modo era più da
sua sorella che da lei. Elena non aveva mai badato molto né alla moda né all’eleganza.
Riusciva a essere bella con poco e di quello si era sempre accontentata.
« Oh no, non preoccuparti. Mi fermerò qui per un po’. Ho
viaggiato dal Nevada alla Virginia senza fermarmi a pranzare e ora ne ho un disperato
bisogno,» gli spiegò un po’ dispiaciuta. Stefan sorrise, a tratti divertito, a
dire il vero, poi annuì chinando di poco il capo e arcuando le folte
sopracciglia scure. Un’espressione quasi malandrina. E furba. Non poteva negare
che le piacesse.
« Capisco. Buon pranzo,» le augurò allegro. Uscì di poco dal
suo campo visivo e Phobe si accorse di essere arrivata al Grill. Proprio il
posto in cui desiderava essere. Chissà se Mattie ci lavorava ancora. Chissà se
Mattie si ricordava ancora di lei. Una smorfia irritata le apparve agli angoli
della labbra a cuore. Sciocchezze. Era ovvio che Mattie si ricordasse di lei.
Avevano trascorso un’intera infanzia e adolescenza insieme. Si conoscevano
dalla culla e Mattie per lei era come un fratello maggiore. Stefan si avvicinò
a una moto nera, una Triumph, la riconosceva benissimo poiché suo fratello era
un appassionato del genere.
« Stefan,» lo chiamò alzando di poco la voce perché aveva
già acceso la moto d’annata, un vero gioiellino avrebbe pensato suo padre, « Io
e te ci siamo mai visti? Hai un viso familiare, eppure non riesco a collegarlo
a nulla,» aggiunse quasi imbarazzata. Quegli occhi, quegli occhi li aveva già
visti. Grandi, verdi come le foglie di quercia, con delle pagliuzze marroncine.
Innocenti. Candidi come quelli di un bambino. Qualunque donna si sarebbe potuta
innamorare di uno sguardo del genere. E lei non era da meno.
« Non credo. Non sono stato in Nevada di recente,» le comunicò
prima di rivolgere un bel sorriso, togliere le scarpe dall’asfalto e dare gas alla
moto. Scomparve presto dalla sua vista e Phobe si sistemò meglio la spallina
del borsone sulla spalla. Il peso sembrava essere quasi sparito.
« Mystic Falls si è modernizzata. Cielo, che bel ragazzo,»
non poté impedirsi di commentare prima di scuotere il capo con un sorriso
energico. Il suo stomaco borbottò ricordandole che il viaggio era stato
abbastanza stancante. Si affrettò a entrare nel locale e si guardò intorno. Non
era molto pieno. Soltanto poche persone ai tavoli intente a pranzare mentre al
bancone c’era solo un ragazzo moro che non aveva mai visto in vita sua.
Dovevano esserci stati dei nuovi arrivi in città. Interessante. Individuò
subito il suo migliore amico, che non era per nulla cambiato, prendere le
ordinazioni a un tavolo vicino a lei. Si avvicinò velocemente e sorrise tra sé
nel notare quanto gli fosse mancato il suo secondo fratello, « Matthew Donovan,
il cameriere più sexy che sia mai esistito. Potrei svenire. Quella maglietta
blu ti fa risaltare gli occhi,» commentò attirando l’attenzione del ragazzo
biondo che stava servendo il tavolo di quella che le sembrava una grande,
grande famiglia. Quattro fratelli, i genitori e una ragazza che sembrava essere
sua coetanea.
« Phobe. Sei tu?» esclamò incredulo, lasciando quasi cadere
il taccuino con le annotazioni. Phobe sorrise, di un sorriso aperto, sincero e
luminoso, che irradiò anche gli occhi di un caldo color nocciola, come quelli
di sua sorella. Matt non attese altro e si fiondò subito tra le braccia della
vecchia amica che non vedeva da troppo tempo.
« Sì, mi chiamo ancora così,» mormorò contro il suo orecchio
destro prima di stringerlo ancora più forte a sé. Quanto le era mancato, « Che
muscoli,» esclamò sciogliendo l’abbraccio fraterno con il ragazzo, « Tanner vi
fa ancora sudare sangue,» scherzò battendo una mano sui pettorali ben definiti
del diciottenne di fronte a lei.
« Quando sei tornata?» le domandò incredulo di vederla
davvero lì. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui aveva potuto
scorgere lo sguardo limpido e innocente del suo caro Mattie. Un tempo
indefinibile. Un tempo che aveva cambiato tante situazioni. Lei stessa era
cambiata, e molto. Ma in fondo al cuore sapeva bene di essere la stessa
ragazzina un po’ troppo sognatrice di due anni prima. E Mattie era sempre il
ragazzo dolce, gentile e comprensivo che aveva sistemato l’auto di suo padre e
che le aveva insegnato a cambiare l’olio al motore.
« Un’oretta fa,» rispose scrollando le spalle strette e
fasciate da una felpa di un grigio chiarissimo.
« Scusi, noi vorremmo ordinare,» esclamò la ragazza bionda al
tavolo dietro di loro e Phobe le rivolse uno sguardo di scuse. Non aveva tutti
i torti in fondo.
« Vai a lavoro. Sbrigati. Prima che il signor Wilson ti
licenzi,» lo spronò divertita prima che Matt le posasse un bacio sulla fronte,
facendole cenno di accomodarsi a un tavolo, « E quando finisci con i signori,
potresti portarmi un triplo cheeseburger, per favore? Non mangio da ieri
mattina,» gli spiegò ricevendo come risposta uno sguardo esasperato e tornare a
prendere le ordinazioni dei signori. La ragazza bionda, dagli occhi azzurri e
veramente molto bella non smise di guardarla fino a quando non si fu accomodata
a un tavolo vuoto alla sinistra del loro. Phobe non alzò il proprio sguardo e
posò il borsone sulla sedia di fronte a lei prima di lasciarsi cadere e
allungare la gambe dinanzi a sé. Si stiracchiò un po’ e sbadigliò portandosi
una mano alle labbra. Una bella sensazione finalmente. Una bella sensazione che
scomparve quando si accorse delle due ragazze a quattro tavoli di distanza dal
proprio, nei pressi del biliardo, « Forza e coraggio, Phobe,» sussurrò per
impedirsi di alzarsi dalla sedia e fuggire via dal Grill. Percepiva un
formicolio alle gambe e per poco non deglutì come spaventata. Si impose di
calmarsi, respirando profondamente come le aveva insegnato Celine dopo il corso
di yoga. E per un attimo tutta l’ansia scomparve. L’attimo dopo tornò più forte
di prima poiché negli occhi, così tanto simili ai propri, lesse tutta la
consapevolezza del mondo prendere il posto dell’improvvisa sorpresa, « E bentornata
a casa.»