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Autore: miss potter    07/02/2013    4 recensioni
"Sherlock, dobbiamo andare."
"Ah, ah. Ne voglio un'altra."
Genere: Commedia, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Lestrade , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gentile fandom,
cercando di trovare in qualche soffitta polverosa del mio palazzo mentale l'ispirazione per il terzo capitolo di Just be my dancing star, vi propongo intanto una storia, storiella, storiuccia che vegeta nelle mie cartelle da tempo immemore, sperando di strapparvi un sorriso e... qualche recensione!
Cordialmente,

miss potter






Tiocfaidh àr là1

 
 
 



“È totalmente fuori discussione.”
“E dai, Sherlock! Non fare il guastafeste, come al solito…”
L’ultimo caso di uxoricidio passatogli da Lestrade qualche settimana prima aveva portato i due coinquilini di Baker Street a Dublino, la movimentata capitale di quella verdeggiante, ospitale ed ebbra terra verso la quale il più petulante, irritante e paranoico dei due non dimostrò parecchio - pressoché nullo -  interesse, più per puri ed infantili pregiudizi nazionalistici inculcatigli dal fratello in tenera età che per altro.
“Semplicemente, non vedo l’utilità per il caso di fermarci in questo puzzolente covo di ubriaconi bavosi e di ballerini in calzamaglia e scarpette da tip tap, tutto qui” si lamentò il detective quando John propose di trascorrere l’ultima sera del loro soggiorno in un tipico pub irlandese al centro della città.
“Rilassati! Il caso l’hai risolto stamattina e sarà sempre meglio che poltrire in albergo, a letto, fissando le crepe del soffitto.”
Sherlock storse il naso, perplesso, ficcandosi poi le mani in tasca e guardando il collega con fare annoiato.
“A letto si possono fare molte cose più interessanti che guardare il soffitto, sai?”
John fulminò con lo sguardo il coinquilino, senza rendersi conto di essere passato da un ambra pallido ad un ciliegia piuttosto acceso in viso, cosa che ovviamente non sfuggì al detective, con l’immensa soddisfazione di quest’ultimo.
“Ad esempio leggere, John. Sempre così malizioso…” sbuffò, facendogli poi l’occhiolino con aria neanche tanto ingenua.
Il medico non perse tempo ad innervosirsi. Si limitò piuttosto ad alzare gli occhi al cielo e a strattonarlo per una manica del cappotto in direzione del pub, già gremito di persone festanti e tutte con una pinta di birra dello stesso colore delle loro guance e orecchie.
“Dai, sarà divertente!” John parlò ad alta voce per farsi sentire dal compagno nell’assordante fracasso di voci, canti folcloristici e vetri rotti che agitavano il piccolo ma accogliente locale.
Adocchiò subito un tavolino abbastanza appartato a un angolo in fondo, inserito in una graziosa ed ampia sala addobbata di deliziosi trifogli di carta velina e piccoli folletti di legno che testimoniavano la passata festa di San Patrizio della quale rimaneva ancora qualche ghirlanda verde sgargiante attaccata alle pareti e le recenti foto ricordo nelle cornici appese dietro al grande bancone di legno scuro.
L’atmosfera era a dir poco elettrizzante nonostante l’acre odore di alcol e tabacco che a John fece lacrimare un po’ gli occhi. Era dall’Afghanistan che non si concedeva, per così dire, una notte brava fuori casa. Infatti, ricordava che ogni tanto coi compagni d’arme si permetteva di alzare un po’ il gomito, nei rari momenti di tregua, per poi ripromettersi di non cadere un’ennesima volta in tentazione soprattutto quando, una mattina, si era risvegliato mezzo nudo con un cappello da cowboy in testa nel bel mezzo del deserto abbracciato ad una bottiglia di Tequila. Rabbrividì al solo ricordo delle imprecazioni dei capireparto quando in quell’occasione, la prima e l’ultima, erano dovuti andare in ricognizione sperando di non essere sorpresi e fatti fuori dai ribelli.
Sherlock si guardava intorno disgustato, schivando all’ultimo secondo un paio di ubriachi barcollanti che danzavano a braccetto al ritmo di fisarmoniche, flauti e di un solitario violino un po’ ammaccato e con qualche corda partita.
“Se continua così, finirà per spezzarlo in due, quel povero strumento” commentò Sherlock altezzoso, alzando un sopracciglio con l’aria di sufficienza che riservava agli elementi più stupidi che gli capitavano attorno e togliendosi poi il cappotto, seguito subito dopo dall’amico.
“Non cominciare, ti prego. Siediti e ordiniamo qualcosa da bere.”
John non fece in tempo a guardarsi intorno che gli si materializzò davanti una ragazza rossa e lentigginosa, dalla pelle pallidissima e gli occhi di un verde smeraldo davvero particolare, stretta in una uniforme verde prato che lasciava intuire un decolleté piuttosto abbondante che attirò subito la sua attenzione. La ragazza guardò il medico con vago interesse prima di aprire bocca.
“Benvenuti all’O’Donoghue’s Pub! Posso portarvi qualcosa?” esordì con voce cristallina sfoggiando un bianchissimo sorriso a trentadue denti.
Sherlock la squadrò da capo a piedi, corrugando la fronte in un’espressione che di amichevole non aveva neanche l’ombra. E John, dal canto suo, si preparò all’inevitabile catastrofe che, come dopo una tempesta estiva, avrebbe avuto come sua conseguenza la devastazione fisica e psicologica di non importa cosa o chi si fosse trovato disgraziatamente sul suo cammino.
“Magari un cameriere con corredo cromosomico XY. Le sue forme, signorina, sembrano risvegliare istinti che pensavo John avesse rinnegato da qualche mese, oramai” sibilò viscido, finendo la frase con un sorrisino che ispirava nient’altro se non un pugno per assestato al centro della fronte.
Quello fu l’esatto momento in cui John Watson si augurò di sprofondare tra le assi di legno del pub per mai più riaffiorarne.
La cameriera arrossì come una bambina colta con le dita nel barattolo di marmellata e, istintivamente, si portò una mano alla scollatura, sistemandosi il vestito con un certo imbarazzo.
John, invece, la mano se la schiaffò in faccia, non sapendo cosa scegliere se la pinta di birra vuota del loro vicino di tavolo o il piccolo vaso di fiori sul loro come arma per stordirlo e seppellirlo ancora vivo in qualche landa desolata della pianura irlandese.
“Dimentichi quello che ha detto, signorina. Siamo inglesi e al mio… amico, sembra che l’aria di qui faccia più male del previsto. Due Guinness da un litro, per favore.”
“Che?! Io non prendo niente” esordì il detective con fare oltraggiato. “Non vorrei ricorrere alla lavanda gastrica di ritorno alla civiltà.”
La bella cameriera era decisamente sconvolta. Se ne stava pietrificata in piedi tra quei due insoliti clienti, rossa come un pomodoro troppo maturo, il taccuino a mezz’aria nelle mani tremanti e il terrore cristallizzato negli occhi verdissimi, in quel momento anche leggermente lucidi.
John carbonizzò il detective con lo sguardo, ribadendo l’ordine e congedando la ragazza che fu ben felice di allontanarsi dal tavolo.
Intanto la festa impazzava e il gruppo musicale aveva cambiato repertorio, un motivo molto più andante che trascinò al centro del locale un gruppetto di uomini e donne sghignazzanti e leggermente paonazzi in volto che presero a ballare in modo decisamente discutibile per la comune estetica e morale.
“Ce la fai ad essere gentile almeno l’ultimo giorno? Non dovrebbe essere difficile” lo riprese il medico, accigliandosi.
Sherlock rispose con un’indifferente alzata di spalle. Non cambiò espressione neanche quando la cameriera, diversa, una bassetta e bionda, portò loro le birre. Si limitò ad osservarne il colore, a rigirarsi tra le dita il suo bicchiere per poi portarselo al naso e storcerlo con fare diffidente non appena ne ebbe saggiato l’odore.
John lo guardò con biasimo, ripetendosi mentalmente che no, Sherlock non doveva aver mai avuto un’adolescenza normale, o comunque conforme a quella del novantanove percento delle persone sul pianeta e che sì, molto probabilmente, non si era mai sbronzato in vita sua, che quasi sicuramente non aveva mai bevuto una birra o qualsivoglia bevanda che non fosse acqua o tè. O formaldeide.
“Non è avvelenata, Sherlock. Puoi berla” asserì John ironico portandosi alle labbra la sua birra ghiacciata e piacevolmente rinfrescante. Non era mai stato un gran bevitore ma non poteva certo tornare a Londra senza portare con sé l’esperienza di aver assaggiato la tipica rossa irlandese.
Sherlock non rispose ma sembrò prendere coraggio di lasciarsi andare alla prassi e finalmente godersi la serata. Appoggiò con lentezza le labbra sul bordo del bicchiere, sorseggiando un filo del suo contenuto.
John gli sorrise soddisfatto ma il sorriso evolse ben presto in una aperta risata quando, sotto il naso del suo coinquilino, la birra lasciò un denso e comico baffo di schiuma biancastra.
“Che c’è?” farfugliò il detective corrucciato tossicchiando un poco, notando l’espressione del compagno.
John lo guardò con immensa tenerezza e si indicò il labbro superiore.
“Hai… giusto qui… aspetta.”
Allungò la mano destra verso le labbra di Sherlock dove, delicatamente, posò il polpastrello del pollice col quale rimosse la schiuma per poi portarsela alla bocca, leccandola via con la lingua.
Sherlock rimase impietrito per tutti quei due, tre secondi che al medico servirono per l’operazione, guardandolo con aria mista tra l’interrogativo e il morboso, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso.
“Fallo ancora” ordinò dunque, atono.
Il medico scosse la testa con ingenuità.
“Basta, non ne hai più, Sherlock.”
“Tu sì, però. Un po’ lì, al lato della bocca” azzardò questi che, con calcolata lentezza, avvicinò il viso a quello di John, andando a posare un leggero bacio sulle sue labbra per poi leccarne gli angoli con estrema e sfibrante lentezza.
John trasalì a quel contatto, anche perché non si fecero per nulla attendere gli applausi e i fischi eccitati dell’intero locale che, tra le altre centinaia di sensazioni che quel contatto gli provocava, contribuirono a mandargli a fuoco ogni centimetro dell’epidermide.
Sherlock sorrise con velata malizia sulle labbra del compagno, lambendo con cura maniacale il loro sottile ma soffice contorno per poi prendere ulteriore coraggio e chiedere di entrarvi aumentando la pressione.
John rispose in ritardo a quell’aperta dimostrazione d’affetto che neanche in privato Sherlock aveva mai esternato come lo stava facendo in quel momento, almeno da quando la loro amicizia non si era trasformata in qualcosa di più, oltrepassando una volta per tutte le assurde barriere dell’ipocrisia e del pregiudizio che, fino a qualche mese prima, stavano cominciando a rendere particolarmente difficile la vita al buon dottore.
Lo accolse dentro di sé con desiderio ed entusiasmo, chiudendo gli occhi  e muovendo labbra e lingua al ritmo di quella danza che non seguiva la cadenza delle allegre fisarmoniche o del brioso flauto ma che era molto più simile a quel malinconico ed incostante violino solitario, leggero ma allo stesso tempo appassionato che, prima o dopo, si sarebbe spezzato. Non perse tempo nemmeno per carezzargli la nuca, affondare le dita nei suoi capelli, avvicinarlo ulteriormente tanto era il trasporto che entrambi stavano dedicando a quel bacio che, con molta probabilità, John avrebbe catalogato tra gli annali dei baci migliori del secolo.
Si separarono per riprendere fiato, arrossendo un po’ e fomentando così le risatine e le acclamazioni generali.
“Devo dire che non è niente male, questa birra” sussurrò Sherlock a fior di labbra, leccandosele lascivo ed assaggiando i diversi sapori che, quella serata, gli avrebbe regalato.
 
Non passò molto tempo prima che la prima pinta di birra si svuotasse per lasciare spazio ad altre due, tre simili. A differenza di John, leggermente arrossato in viso e con gli occhi lucidi ma, fortunatamente per entrambi, ancora in sé, Sherlock appariva come uno stralunato ignaro, o non curante, del luogo in cui si trovava e delle persone che lo circondavano. Fissava il vuoto davanti a sé con un’angosciante espressione tra l’assente e lo sconvolto che rifletteva il buffo ebetismo dei suoi grandi occhi, gonfi ed arrossati, dove il tipico e deciso azzurro cielo di sempre aveva lasciato spazio ad un verdazzurro sbiadito e trafitto da un paio di pupille estremamente dilatate che accoglievano in sé la fioca e calda luce del locale che, tra il sordo cozzare di bicchieri e le ultime note degli strumenti musicali, andava pian piano svuotandosi.
John buttò l’occhio sull’orologio da polso e, per quanto le sinapsi glielo potessero concedere, rifletté sul fatto che, se il giorno dopo non avessero voluto perdere l’aereo, avrebbero fatto meglio a dirigersi verso l’albergo e farsi almeno quattro, cinque ore di sonno. Lestrade li avrebbe aspettati all’aeroporto di Dublino alle otto in punto per prendere il volo delle dieci e trentacinque diretto a Londra Heathrow.
“Sherlock” farfugliò con la voce un po’ impastata dall’alcol ma soprattutto dalla stanchezza fisica, scuotendo l’amico per un braccio.
Tuttavia, non riuscì ad ottenere una valida risposta che non fosse un insieme di versi sconclusionati più simili ai suoni gutturali di qualche strano animale in lenta agonia.
“Sherlock. Dobbiamo andare” ribadì.
“Ah, ah. Ne voglio un’altra.”
John riuscì a malapena a capire quelle poche, semplici parole che precipitarono fuori dalle labbra del detective come viscida melassa da una botte scoperchiata, appiccicose e sfuggenti al suo udito già precario.
“No, ne hai già bevute tre. E tutte da un litro. Non vorrei portarti in albergo in barella. Su, alzati.”
Sherlock protestò con decisione, incrociando le braccia sul tavolino e sprofondandoci dentro con la testa riccioluta.
“Voglio un’altra birra” ripeté, più a se stesso che ad altri possibili interlocutori.
Il medico si auto maledisse. Era più evidente di una semplice operazione matematica, più prevedibile di un maremoto dopo una scossa sismica in pieno oceano che alcol mischiato a Sherlock Holmes avrebbe dato come risultato quella sottospecie di essere umano ridotto alla motricità di un’ameba e alla velocità psicofisica di un lavandino. E le tre pinte svuotate davanti al coinquilino sembravano urlargli in faccia “Sei un idiota”.
Scosse il capo, paziente, e cercò di mettere a sedere in maniera composta quel sacco di patate delirante che era diventato l’unico, geniale consulting detective del mondo.
“Ce la fai ad alzarti?” gli chiese trattenendo il riso, o un pianto incontrollato, alla vista di quello sguardo completamente perso nel vuoto e congestionato dall’alcol.
Sherlock rispose con una inquietante risata isterica prima di ricambiare lo sguardo e rilassare i muscoli del viso in una smorfia allucinata.
“Da quando hai sei occhi, John?”
E, come quando si è prossimi alla morte, John Watson avvertì tutta la sua vita passargli accanto, sferrargli un pugno in piena faccia e lasciarlo stordito a terra, incapace di riprendere il controllo degli eventi.
Sospirò, rassegnato a quell’assurda realtà e all’impossibilità di instaurare una conversazione logica con chi, fino a quel momento, riteneva essere la persona più materialmente e razionalmente presente dell’intero globo. Almeno, pensò, aveva scoperto un suo punto debole.
Alcol 1 - Sherlock Holmes 0
“Mettiti il cappotto, che usciamo.”
Neanche il tempo di alzarsi, aprire il portafoglio e pagare che, in assenza del più sobrio dei due, Sherlock aveva preso la porta e se l’era filata senza tanti complimenti.
John sbiancò in volto, elaborando in una frazione di secondo circa un centinaio di eventi drammatici che quella bomba a mano ambulante avrebbe potuto causare da solo in giro per Dublino, ubriaco fino all’osso.
Afferrò il cappotto e si precipitò fuori dal locale scordandosi il resto sul bancone.
Nonostante l’ora tarda, la via era affollata di persone: chi danzava al ritmo di una musica mentale che solo lui udiva, chi se ne stava accasciato agli angoli della strada chiedendosi se le zebre fossero bianche a strisce nere o nere a strisce bianche, chi invece da buon, semplice turista fotografava quel delizioso quadretto di licenziosità e miseria morale nel quale John, sebbene stesse aguzzando per bene la vista in quell’ovattata e rumorosa penombra, non riuscì a scorgere il compagno.
Per fortuna, lo ritrovò poco dopo a girare su se stesso sotto un lampione solitario con aria persa e tanto rammaricata che l’unico sentimento che poteva mai suscitare non avrebbe potuto prescindere dalla tenerezza, o da un’infinita pietà.
“Sherlock…” ansimò il medico quando riuscì a raggiungerlo e bloccarlo per un avambraccio da quell’insensato moto circolare uniforme che stava seguendo con tanto fervore. “Mi… hai quasi… fatto venire un… infarto.”
Sherlock lo guardò come solo si può guardare qualcuno per la prima volta, sbattendo ripetutamente le palpebre, evidentemente sconvolto per chissà cosa.
“Mi ha seminato… Mi ha seminato, John!”
“Chi ti ha seminato?”
“Il Leprechaun!” rispose, come se stessero discutendo della cosa più naturale ed ovvia del mondo.
John sollevò un sopracciglio, basito.
“Il Lepre-che?!”
“Leprechaun, John. L-E-P-R-E-C-H-A-U-N” scandì il detective, sbilanciandosi pericolosamente in avanti.
Il medico lo afferrò giusto prima che si sfracellasse di faccia al suolo, cercando poi di appoggiarlo di schiena al palo del lampione.
“E cosa sarebbe, scusa?” chiese, sostenendolo per le spalle.
Quella, convenne John, era davvero una situazione imbarazzante. Stava davvero assecondando un ubriaco che, molto probabilmente, stava sproloquiando su una delle sue tante allucinazioni visive.
Sherlock assunse tutt’a un tratto la tipica, tremendamente familiare espressione da sommo tuttologo in procinto di tenere la sua interessantissima lezione, con tanto di indice alzato al cielo.
“Dicasi Leprechaun una sorta di gnomo, o spiritello, tipico del folclore irlandese, iconograficamente rappresentato come un uomo anziano vestito di rosso dedito alle burle e… alla confezione di scarpe” biascicò tutto d’un fiato, per poi concludere quell’interessantissima spiegazione in una risatina isterica.
A quel punto, John non seppe se fosse meglio buttarla in ridere, buttare se stesso giù dal primo ponte o rassegnarsi alla più inconsolabile disperazione. Perché lui era solo un ex capitano dei fucilieri dell’esercito di Sua Maestà, laureato in medicina al massimo, non uno psichiatra esperto di casi particolarmente gravi!
L’espressione seriosa e greve assunta tutt’a un tratto dall’amico, però, lo convinse del fatto che mai più, mai più gli sarebbe venuto in mente di portarlo in una birreria, o di avvicinarlo di anche solo pochi centimetri ad una bevanda alcolica.
“D’accordo… Non sarai stato abbastanza veloce per lui. Ora possiamo andare?”
“NO! Devo sapere dove ha nascosto il tesoro” protestò quello con un tono di voce decisamente più alto del necessario.
“Sherlock, ti prego. È tardi, tu sei ubriaco e io muoio dal sonno.”
Il detective si guardò un po’ intorno, borbottò qualcosa di incomprensibile tra sé e sé e, finalmente, degnò anche il compagno della sua fragile e sfuggevole attenzione.
“Non sono ubriaco” puntualizzò, quasi offeso da quell’affermazione.
“Sì, sì. E io sono il principe Carlo. Ora andiamo, per piacere.”
Camminarono per tutto il tragitto dal pub all’albergo, o meglio, John camminò. Sherlock lo seguiva barcollando e trascinando i piedi, alternando risate incontrollate ad interminabili comizi che toccarono gli argomenti più disparati, dall’originale e, a detta sua, incomprensibile tradizione delle donne irlandesi di fare proposte di matrimonio ai rispettivi fidanzati il ventinove febbraio di un anno bisestile, all’adipe in eccesso nei fianchi della sarta di fiducia della signora Hudson, fino all’improbabilità che John fosse inserito nella successione dinastica al trono d’Inghilterra.
Per tutto il tempo, John non fece altro che sorridere e annuire, rispondere a monosillabi e assicurarsi che non desse facciate per terra o che non si imboscasse in qualche vicolo poco raccomandabile. In tutti i buoni venti minuti di strada, fece in modo che non si azzuffasse con un paio di senza tetto e qualche decina di gatti, che non andasse a sbattere contro un cartellone pubblicitario e che non si addormentasse in piedi in mezzo alla strada.
“Maledizione, Sherlock. Fa’ attenzione! Il destino dell’intera Gran Bretagna potrebbe essere in pericolo se per disgrazia dovessi finire sotto una macchina. E poi Mister Governo Inglese mi farebbe inseguire per mezzo globo se ti dovesse capitare qualcosa.”
Il detective rise di riflesso, appoggiandosi con tutto il suo peso sulle spalle del povero medico che, per quanto di bassa statura, poteva ancora contare sui muscoli che la carriera da soldato gli aveva fatto sviluppare.
Creatura tanto fragile, e bella, appariva Sherlock Holmes avvolto in quella torbida nube di ebbrezza e allegria che mai, pensò John, avrebbe sperato di vedere in lui.
“John.”
“Non vomitarmi addosso, ti prego. Siamo quasi arrivati.”
Ad un tratto, successe. Tutto, successe. La cosa che mai John avrebbe pensato, desiderato, potesse accadere, in una strada buia, quasi alle tre di quella che, forse, si sarebbe prospettata una notte piena di incognite da svelare, di domande che finalmente, forse, potevano trovare la loro risposta.
In un attimo, John si ritrovò Sherlock di fronte, a pochi centimetri dalle sue labbra, leggermente dischiuse, umide, così vergognosamente invitanti.
Tutto si fece improvvisamente più bianco, più instabile per il povero, buon dottore, sotto ogni punto di vista, sia psicologicamente che, e soprattutto, fisicamente. Ogni cosa prese anche un po’ a girare, almeno, più di quanto non facesse già.
I cinque sensi, tutti assieme, gli esplosero addosso con la potenza di una deflagrazione atomica, e tutte le certezze, la lucidità, l’autocontrollo, si distrussero come foglie secche sotto le scarpe, accartocciandosi su se stessi e lasciando John senza fiato e forze per poter reagire.
Non che fosse la prima volta che si baciavano, ovvio. Ma sarà stato l’effetto dell’alcol, la luce bianca, bianchissima della luna contro quella pelle diafana, quegli occhi terribilmente trasparenti e vicini o il respiro caldo ed inebriante di Sherlock che agirono da stimolante, perché il detective sorrise impercettibilmente prima di cercare con foga il collo del compagno, facendosi largo con il viso sotto il bavero della giacca di John, tenuto sollevato.
Il medico, come una preda paralizzata dal veleno di un sinuoso rettile, tra le sue priorità non contemplò in quel preciso istante la facoltà di muoversi, di reagire sotto quel contatto che, man mano che i secondi passavano, si fece sempre meno timido e, per lui, sempre più eccitante.
La lingua del coinquilino era morbida sulla sua pelle leggermente infreddolita ed estremamente abile nel stimolare le zone più sensibili tra la giugulare e la parte inferiore della mandibola, mentre ne seguiva ogni vena e sporgenza ossea con la punta. John non riuscì a fare altro che intrecciare le dita nei capelli leggermente umidi di Sherlock attirandolo a sé con forza, quasi quel tocco fosse per lui indispensabile per restare in vita. Quest’ultimo interpretò al meglio, o al peggio, quell’iniziativa tanto coraggiosa e spostò le sue attenzioni verso la bocca ansante e bisognosa di attenzioni di John.
Le labbra di Sherlock sapevano di birra, di buono, e la saliva, calda e abbondante, andò a sanare la carenza di idratazione nella bocca del collega, attonito nei confronti di quell’intraprendenza.
Approfondirono subito il bacio, esplorandosi l’un l’altro con la foga e la necessità che chi solo scollegando per un attimo il cervello potrebbe concedersi, rivelando così quelli che per troppo tempo furono i sentimenti repressi. L’alcol, leale nemico dell’uomo.
Si staccarono dopo pochi secondi, ansimando l’uno sulle labbra dell’altro, saggiandone il profumo intenso zuccherato di etanolo, meraviglioso.
“Sherlock. Do-dobbiamo andare…” balbettò John tremante, la fronte bagnata appoggiata a quella di un sorridente detective.
“Hai un buon sapore, dottore” constatò quest’ultimo, allacciandogli le braccia intorno al collo ed aderendo maggiormente col corpo al petto di John.
Quest’ultimo rise di gusto, senza riflettere, senza aver neppure minimamente calcolato che probabilmente erano stati visti, che forse non era il caso di approfittarsi dell’amico ubriaco marcio, che di certo era tutto sbagliato e che sarebbe stato meglio per lui fingere che quel contatto non gli provocasse alcuna reazione, sia psicologica che fisica, ma soprattutto che Sherlock non fosse la cosa più bella che avesse mai visto, baciato dalla luce della luna enorme ed eburnea sopra le loro teste.
“E che sapore ho, Sher?”
I pensieri si rincorrevano instancabili nel cervello del medico già in debito d’aria, devastandogli completamente ogni freno inibitore, ogni percezione sensoriale che non fosse il piacere derivatogli da quel contatto così desiderato e di cui finalmente, dopo anni, poteva godere.
“Mmh. Non so se lo ricordo bene…”
Quando l’amico lo spinse contro un muro poco distante intrappolandolo con entrambe le braccia e posando, non più così dolcemente, le labbra fameliche sul proprio mento, John disse ufficialmente addio ad ogni freno inibitore, gemendo ad un morso del detective.
“Sh-Sherlock, non possiamo, qui” gli sussurrò questi a fior di labbra, senza tuttavia allontanarsi da quella stretta più per paura che le ginocchia lo abbandonassero sul più bello che per altro.
Sherlock ricambiò con uno sguardo languido e pieno di sagace aspettativa. Spostò un ginocchio intrufolandolo tra le gambe del medico e divaricandogliele appena per poi aiutarsi con una mano che andò a posarsi sul basso ventre del medico, già abbondantemente eccitato, e con l’altra, che finì sul fondoschiena.
“In albergo?”
John respirava a fatica, un po’ per il peso dell’amico su ogni centimetro del proprio corpo, un po’ per quello, ben più greve, dei sensi di colpa che, infidi, gli avrebbero tenuto compagnia per tutta la notte se si fosse lasciato andare alla parte meno casta di sé.
Chiuse gli occhi per qualche secondo, godendosi quel leggero massaggio che Sherlock stava esercitando sui suoi punti più sensibili, azione che da sobrio sicuramente non gli sarebbe passata nemmeno per l’anticamera del cervello, prima di riaprirli di scatto e rimettere in moto la ragione.
“No. Sei ubriaco. Non voglio che vada così” disse con una punta di amarezza nella voce, sottraendosi alle invitanti attenzioni del compagno e prendendo da lui una distanza sufficientemente adeguata per non lasciare posto a nessuna più che probabile marcia indietro.
Sherlock alzò lievemente il capo per potersi permettere di guardare il compagno negli occhi, nei quali lesse molto più di quanto credé di aver mai saputo dedurre. Gli accarezzò a pieno palmo l’addome contratto da sopra la stoffa della camicia, lasciata scoperta dai bottoni precedentemente aperti della giacca, ed annuì, semplicemente, abbandonando l’abbraccio di John che, riconquistato l’autocontrollo, ricominciò a camminare nel silenzio di una notte nemmeno tanto interessante. Solo veritiera. E, per ora, gli sarebbe andato bene così.
“Siamo arrivati, Sherlock. Ancora pochi passi” annunciò il medico dopo quasi cinque minuti di cammino in un’oscurità ferita solo da poche luci lontane dei primi edifici alberghieri.
Evitando lo sguardo inquisitorio dell’altezzosa receptionist nella hall, sulla quale Sherlock cominciò a sproloquiare qualche critica circa il colore del rossetto e la lunghezza del caschetto, John sgattaiolò su per le scale portandosi appresso un detective praticamente in dormiveglia, violaceo in volto e con la giacca abbottonata storta. Un vero spettacolo antropologico, insomma.
Non senza qualche difficoltà tecnica, mentre sosteneva l’amico per un braccio, con l’altro libero John cercò in ogni tasca del giubbotto, e infine dei jeans, finché non riuscì a recuperare la card magnetica necessaria ad aprire la porta della stanza. Tirò un sospiro di sollievo quando furono dentro e non appena riuscì a liberarsi della morsa del detective, letteralmente lanciandolo sul materasso che, sotto il suo peso, fremette in un fastidioso, ma rassicurante, rumore di ferraglie.
“No, no, no. Mettiti a pancia in giù. Non vorrei annunciare alla madre patria l’improvvisa morte dell’unico consulente investigativo del mondo avvenuta per soffocamento nel suo stesso vomito” borbottò John, voltandolo prono.
Sherlock rise a quella scabra battuta. Nessuno lo faceva all’umorismo dal sapore tipicamente inglese del dottor Watson, solitamente neanche il suo coinquilino, soprattutto il suo coinquilino, ma in quel frangente a Sherlock sembrò che tutto ciò che gli stesse intorno, che gli vorticasse intorno, avesse acquistato una patina più piacevole, meno noiosa e irritante del solito. A cominciare da John, ovviamente.
“Stenditi qui, accanto a me” avanzò Sherlock, dando dei colpetti sul materasso all’altezza del suo fianco senza smettere di sorridere come un ebete.
John scosse la testa senza riuscire a trattenere un risolino di fronte a quella commedia, tragedia vivente, stesa a pancia in giù sul letto di cui occupava circa i tre quarti per sbieco.
“Togliamoci i vestiti, prima.”
“Ottima idea!” Asserì il detective illuminandosi in volto e mettendosi su un fianco, appoggiando poi la testa sul palmo di una mano.
Il medico non badò a quell’ennesima provocazione di ovvia natura, e si limitò a togliergli le scarpe, il cappotto, per poi passare al resto. Lo lasciò in mutande e calzini, a contorcersi come un bambino iperattivo a cui si fa il solletico.
“Oh, Sherlock! Sei impossibile” lo rimproverò, lasciando da una parte i vestiti sporchi e cercando in valigia un pigiama degno di questo nome, che ovviamente non trovò.
Il detective, non tenendo conto dell’ora piuttosto tarda, non la smetteva di dimenarsi, battendo i pugni sul materasso e prendendo a calci il muro, schivando per puro miracolo la fragile e sicuramente molto costosa abatjour dalla sua parte di letto.
John gli tappò letteralmente la bocca con una mano bloccandogli poi le braccia sopra la testa con l’altra e il resto del corpo posizionandosi a cavalcioni sopra di lui, cercando così di evitare che la reception gli inviasse in camera qualche gorilla irlandese della sorveglianza armato di camicia di forza.
“Sherlock, per piacere. Sono quasi le quattro di notte e ti ricordo che tra due ore dobbiamo prepararci per andare in aeroporto.”
“Bibaddina” bofonchiò quello sul palmo del medico che gli liberò subito la bocca, corrugando la fronte.
“Che?”
“Di mattina, John” ripeté. “Sono le quattro meno un quarto di mattina, non di notte.”
John cercò di racimolare tutta la sua buona volontà e di reprimere l’improvvisa voglia di prenderlo a botte.



La restante parte di quella notte così movimentata, i due coinquilini di Baker Street la passarono praticamente in bianco, con la sola differenza che Sherlock riuscì a chiudere occhio per almeno un’abbondante mezzora, per lui più che sufficiente per rigenerarsi, a discapito di John che perse completamente il giro del sonno, un po’ per la puzza di alcol che emanava il compagno, un po’ per controllare che Sherlock non si sentisse improvvisamente male, facendogli pesare il prezzo di un copriletto e della moquette sul portafoglio, e un po’ anche per la straordinaria alba che fece capolino da dietro le tende azzurro opaco della stanza che gli regalò un piacevole buongiorno alle cinque e cinque in punto.
In un macabro scricchiolio di ossa, si alzò dalla sua posizione accovacciata in un angolo del letto, occupato per buona parte della sua interezza dal fantoccio umano del suo coinquilino, andò alla finestra e, spalancandola, sperò che l’aria gelida di Dublino lo aiutasse a smaltire i rimasugli di birra e, possibilmente, anche la stanchezza disarmante che gli pesava come un macigno di qualche tonnellata sulle palpebre.
Respirò a fondo l’atmosfera carica di brina della città e si sentì stranamente vent’anni più giovane. Da quanto tempo era che non si presentava una situazione così bizzarra, in una camera d’albergo, lontano dal solito grigiore di Londra, la persona amata mezza nuda addormentata sul letto? Quando era stata l’ultima volta che aveva visto sorgere il sole all’orizzonte, l’ultima volta che era stato davvero felice?
“Jawn…”
Un miagolio impastato e stranamente familiare lo distrasse da quei pensieri che si stava soavemente concedendo, e voltò il capo verso la penombra ambrata della camera sorridendo con dolcezza all’indirizzo del detective.
“Buongiorno, bell’addormentato.”
“Col cavolo buongiorno.”
E il sorriso si trasformò in una genuina risata a crepapelle.
“Non ci trovo niente da ridere, sappilo.”
Ma il medico non poté fare a meno di saltare sul materasso facendolo cigolare in un irritante concerto di molle, come fosse tornato all’età di dieci anni quando si divertiva ad importunare la sorella dopo una delle sue tante notti in giro per locali.
“Come ti senti, ubriacone che non sei altro?”
Sherlock si tirò su a sedere a fatica, tenendosi la testa scompigliata tra le mani, come se un martello pneumatico fosse appena entrato in azione nel bel mezzo della sua calotta cranica.
Bianco come un lenzuolo, con due occhiaie profonde come canyon e le labbra screpolate… un mostro, se non fosse stato per la naturale e devastante bellezza che, anche dopo una sbornia, lo caratterizzava come una firma in pennarello indelebile su una morbida stoffa di candida seta quale appariva sempre la sua pelle.
“Da quando le stanze girano su se stesse, John?”
“Benvenuto nel mondo dei mortali. Hai alzato un po’ il gomito ieri sera… cioè, stamattina. E ti sei fatto una mezzoretta di sonno anche. Chi l’avrebbe mai detto?”
Sherlock squadrò il compagno con lo sguardo pietrificato dall’orrore, come se gli avesse appena visto crescere un corno al centro esatto della fronte.
“Dormito?!” esclamò sconvolto “Come posso aver… dormito? Trenta minuti della mia vita sprecati in una simile attività?!”
John rise di gusto, tenendosi la pancia con entrambe le mani per timore che gli uscissero fuori le budella da quanto comico gli appariva il detective, stralunato e basito di fronte a quella situazione così nuova per lui.
“Sherlock, è normale. Assolutamente normale” lo rassicurò, asciugandosi l’angolo di un occhio con la punta dell’indice.
“No John! Cos’è successo? Non… non ricordo niente! Almeno, mi ricordo di uno strano posto, pieno di luci, musica e persone matte che ballavano. Di un’irlandese scostumata vestita di verde e di due birre rosse. E poi… il vuoto.”
Parlò gesticolando furiosamente, e John quasi poté immaginare le ovattate ed indistinte immagini che dovevano popolare l’interessante cervello di Sherlock, in quel momento completamente in blackout.
“Oh beh, sei fortunato. Ci sono persone che non ricordano nemmeno il proprio nome nel dopo sbornia.”
“Il dopo che?!”
Il medico alzò gli occhi al cielo e gli circondò le spalle ricurve con un braccio, attirandolo a sé amorevolmente e cullandolo come una mamma col suo bambino alle prime, dolorose esperienze di vita.
“Sono contento di rivedere il vecchio, cinico, terribilmente anormale Sherlock Holmes che conosco” sussurrò all’orecchio del compagno, provocandogli un leggero ma stimolante brivido lungo la schiena.
Sherlock lo guardò intontito, di sottecchi, accorgendosi di non avere addosso nient’altro se non i boxer e un paio di calzini.
“Non è che…” mormorò spostando lo sguardo dal suo corpo mezzo nudo a quello di John.
“No, Sherlock, tranquillo. Non ho approfittato del tuo corpo mentre la tua ragione era momentaneamente fuori servizio.”
Il detective si zittì volentieri sorridendo divertito, o sorpreso, dal fatto che John, pian piano, stava imparando a sostituirlo nell’ardua impresa di leggere la mente e il cuore della gente.
Si strinse al suo corpo, cercandovi l’appoggio che avrebbe sempre trovato, nel bene e nel male, in raziocinio e follia, e si sentì finalmente a casa anche se a qualche centinaio di chilometri dal loro appartamento di Londra.
“Grazie” disse solo.
All’aeroporto di Dublino arrivarono venti minuti in ritardo rispetto all’orario concordato quasi una settimana prima con il D.I. Lestrade il quale, armato di valigia e caffè in tazza di cartone, li aspettava ansioso vicino alle porte automatiche del check-in tamburellando un piede sul pavimento lucido. Quando sentì la voce lamentosa del suo unico consulente investigativo lagnarsi col taxista per aver scelto la strada più lunga al fine di spillare più euro ai due viaggiatori, tirò un sospiro di sollievo.
“Ragazzi!” esclamò, agitando una mano per farsi notare nel via vai di persone che affollavano l’accettazione.
John si premurò di scusarsi con il taxista per l’arroganza del compagno, pagandogli la corsa senza chiedere il resto, e di evitare che quest’ultimo si mettesse a litigare anche con un bambino di sì e no sette anni che per sbaglio l’aveva urtato con lo zainetto.
“Che è successo? Sbaglio o avevo detto alle otto?”
“Scusaci, Greg. C’era traffico” si giustificò il medico raggiungendo l’ispettore in poche falcate ben assestate con il detective sotto braccio che non tardò a rendere di pubblico dominio la sua fondamentale opinione a riguardo.
“Traffico? Quell’incompetente irlandese ci ha fatto pagare il trentadue percento in più del prezzo che gli avremmo dovuto. Se solo avesse preso a destra, invece che a sinistra, all’incrocio tra…”
“Beh, sono tranquillo ora che vi vedo qui. Il nostro aereo parte tra meno di due ore. Sbrighiamo le formalità e finiamola qui. Non vedo l’ora di tornare a casa.”
“A chi lo dici…” fece John, tra uno sbadiglio e una stiracchiata.
Lestrade lo guardò perplesso.
“Notte movimentata?” insinuò, un sorrisetto da fauno sulle labbra sottili.
“Decisamente!” irruppe Sherlock, abbandonando le valigie e i due compagni di viaggio per dirigersi verso le hostess del check-in.
Il medico e l’ispettore si lanciarono un’occhiata eloquente sperando che, almeno in volo, Sherlock concedesse loro l’unico momento tranquillo di tutto il loro soggiorno in Irlanda.
“Che ha fatto?” chiese l’ispettore indicandolo con un gesto del mento.
“Oh, nulla. Ha solo scoperto gli effetti collaterali di tre litri di Guinness sulla propria pelle.”
Scoppiarono entrambi a ridere mentre un paio di hostess, tre uomini della sorveglianza e un poliziotto dovettero vedersela con un viaggiatore particolarmente esigente che denunciava la vergognosa regola di non poter tenere nel bagaglio a mano liquidi di nessun genere, tanto meno alcolici.


 






Note:
(1) In gaelico, significa "Verrà il nostro giorno", con riferimento al patriottismo irlandese nei confronti dell'occupazione britannica. Ho utilizzato questa frase per il titolo nel sommo rispetto della storia politca irlandese, segnata da conflitti davvero tremendi per l'indipendenza. Con "verrà il nostro giorno", ovviamente, intendo il giorno per Sherlock e John e per l'evoluzione finale del loro rapporto.
  
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