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Autore: Camelia_Calliope    09/02/2013    2 recensioni
Me, me! Qui son io che ho colpito, su me il ferro volgete
o Rutuli! Mio è tutto l'inganno, nulla osò questo,
nè avrebbe potuto: il cielo lo attesti e, consce, le stelle.
Soltanto, amò troppo il suo misero amico.
Virgilio
Eneide IX, 427-430
[Questa storia ha partecipato al contest "Tempo di lacrime - flash contest" indetto da Chīsana kitzune]
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Me, me! Qui son io che ho colpito, su me il ferro volgete
o Rutuli! Mio è tutto l'inganno, nulla osò questo,
nè avrebbe potuto: il cielo lo attesti e, consce, le stelle.
Soltanto, amò troppo il suo misero amico.

Virgilio
Eneide IX, 427-430

 

Soltanto, amò troppo il suo misero amico


Ci chiameranno fortunati perché la gloria è in noi; avranno invidia perché il nostro sarà il fato degli immortali, per sempre vivi saranno i nostri nomi fin quando « del Campidoglio l'immobil sasso» avrà impero la casa di Enea.
Bramavo la gloria, una grande e nobile impresa che rendesse il mio nome degno affianco all’illustre Irtaco; mi sentivo troppo stanco e annoiato di un’infelice « placida pace ».
Partimmo che le tenebre erano già alte io e il mio amico ancora imberbe, il bell’Eurialo.
Avrei dovuto desistere di fronte a tanta insistenza – ah! L’ingenuità della sua fanciullezza; dolore per essa che mai appassirà. Lui era ancora troppo giovane, per mettere la sua vita alla ventura, doveva restare, perché ci fosse qualcuno che si ricordasse di me – di Niso – se la sorte sarebbe dovuta essermi avversa, doveva restare perché aveva ancora una madre. Avrei dovuto sopprimere quell’ardore ed ergere la prudenza e la paura per il mio caro amico. Quella sua fosca voglia di gloria e sangue era pericolosa e inconsciamente crudele – come lo sono talvolta i fanciulli; la vita a lui avrebbe donato occasioni ben più degne di un vile sangue rubato nell’incoscienza del vino e dei sensi. Non era necessario morire ora – subito – per Roma, la gloria avrebbe atteso.
Un tempo sarebbe stato possibile, ora siamo già morti.
Nell’ombra della notte, ci dirigemmo al campo nemico. La luna benediva i nostri passi, fosca e oscura dama d’ombra – malefica dea. Avanzammo, superando i dossi e vedemmo uomini riversi a terra tra l’erba alta e umida. I carri avevano il timone alzato sulla riva, la tenue e confusa immagine del Tevere rifletteva le loro immagini distorte tra i fumi dell’ombra. Dormivano gli stolti tra le briglie e le ruote; ebbri di piacere e rosso vino giacevano insieme alle armi e alle otri vuote.
Troppo forte fu la tentazione.
Affondai il letal ferro nella carne tiepida di Ramnete, che straiato su tappeti ammucchiati russava: era re e augure, fedelissimo di Turno e suo amico intimo. Non fu in grado di allontanare da se la rovina. Colpii l’auriga di Remo; il prolungamento troncato del suo padrone a giacere lontano dalla sua salma che rotolava nel suo stesso plasma; la terra sterrata e le brande vuote andavano insozzandosi del suo stesso film vischioso e nerastro.
Come assetati del sangue che scorre e si sparge copioso, continuavamo a colpire, senza fermarci.
Il mio amico colpì in pieno petto Reto; sbarrò gli occhi, il morente « rigettando vino misto a   sangue ». Avevo in corpo il sangue di un leone: « con fauci insanguinate » e preda di una « fame boriosa » mi gettavo su quei corpi come la più infame delle belve che si getta su un gregge di pecore inerti e impaurite, facendone strage.
La lama lorda del sangue dei nemici riflesse il mio volto: le lunghe lacrime di vita rubata a coprire gli zigomi pronunciati.
Era tempo di riporre le armi: la luce del giorno si avvicinava ed era necessario abbandonare al più presto il campo nemico. Eurialo obbedì seguitando ad allontanarsi dietro di me. Aveva con sé il suo equo bottino, segno tangibile dell’impresa che lo aveva visto protagonista: le borchie e il balteo del re Ramnete e l’elmo lucente di Messapo.
Lo scalpitare uguale e serrato di uno squadrone ruppe il silenzio sorprendendoci ancora nel campo nemico: erano trecento validi giovani guidati da Volcente, tutti armati di scudo. Si avvicinavano rapidi al campo; erano sotto le mura, dovevamo fare presto. Prendemmo senza non molta esitazione un sentiero a sinistra, io e il mio amico dietro di me. Correvamo rapidi e sicuri tra la boscaglia, quando il fato – quella boriosa donna dal ventre colmo e la bocca avida – decise di tradire la nostra fiducia. L’elmo lucente tanto bramato dal mio incauto amico brillò pallido a un raggio di luna. Volle la dea che quel brillo fosse notato: Volcente lo notò. Le sue grida le sentii soffocate e nascoste dai miei stessi passi frementi e frettosi; la nostra speranza – oh! Dea quando avevi abbandonato le nostre membra giovani – era riposta nel buio. Ci inoltrammo nel bosco, i cavalieri stranieri erano gettati alle nostre spalle. Qua e là la fosca figura delle sentinelle armate copriva i noti sentieri, bloccandone ogni sbocco. Era un bosco fittissimo, orrido per tutta la sua larghezza di cespugli e lecci d’inchiostro, gremito da ogni parte di fittissimi rovi. Solo pochi sentieri si aprivano nella boscaglia della macchia.
In quel momento avvennero molte cose contemporaneamente; tante mi furono riferite solo in seguito.
Avevo già oltrepassato incauto il nemico e lasciato indietro i luoghi, che in seguito saranno chiamati albani dal nome di Alba, quando, voltandomi di spalle, attonito mi fermai accorgendomi solo in quell’istante che il mio amico – il mio Eurialo – era assente. Sciocco! Badando solo alla mia fosca e crudele paura non avevo pensato alle sue sorti: era solo un fanciullo come avrebbe badato di se di fronte al terrore del nemico vicino? Tornai indietro, percorrendo a ritroso le tracce dei miei passi m’insinuai nuovamente nei sentieri intricati di quel bosco ingannevole. L’affanno mi mozzava il respiro e le costole dolevano a contatto di polmoni privati del loro oro, ma questo non importava. Sopra di tutto – sopra persino la gloria e il nome accanto al caro padre – contava la sorte avversa del mio « comes ». Errai tra i cespugli silenziosi, smarrito e spaventato, prima si fermarmi: avevo udito i cavalli, i rumori, i richiami che lanciavano gli inseguitori. Tesi l’orecchio all’ascolto e strinsi a pugno le armi fedeli. Dopo non molto mi pervenne un clamore di grida e fu allora che vidi Eurialo, privato dell’orientamento e tradito dall’intrico delle piante e dall’oscurità della notte. Era sgomentato dal tumulto improvviso, i nemici avanzavano, circondandolo in mezzo alla squadra nemica e serravano ogni possibile via si fuga. Combatté il mio coraggioso amico e, nonostante i suoi sforzi, non riuscì a piegare il suo avverso destino. Sconfitto, fu portato via.
Che avrei potuto fare? Con quali armi osare liberarlo? Il compito assuntami era ancora lontano dal suo compimento, se negavo la gloria e il dovere del soldato veniva meno. Ma che vita mai avrebbe potuto aspettarmi senza la compagnia cara e amica del mio amato Eurialo? Un mondo che non avevo cuore di conoscere.
Tirai indietro il braccio facendo oscillare il giavellotto. Per le preghiere non era più tempo – il destino aveva già scandito i nostri passi – ma i sentimenti, quelle assurdità mortali tanto fragili, eseguirono la loro ultima supplica. Con tutta la forza che avevo in corpo, avventai il giavellotto: l’asta predatrice attraversò volando le ombre della notte penetrando silenziosa e non vista nel corpo di Sulmone; si spezzò trafiggendo con una scheggia di legno il cuore dell’uomo. Guardai il guerriero, già freddo, rotolare a terra latrando mentre il plasma caldo schizzava sulle foglie secche. I soldati di Volcente si guardarono attorno smarriti; ghignai sentendomi fiero del mio successo. Librai un nuovo giavellotto. I latini erano lì, tutti tremanti: l’asta, emettendo un sibilo acuto, attraversò le tempie di Tago. Non mi accorsi nemmeno del tonfo del corpo a terra, l’asta restava conficcata nel cervello trafitto tra il tiepido del sangue. Volcente, feroce, si adirò. Lo vidi muovere il collo a cercarmi tra il folto della vegetazione ma non riuscì a scorgere le mie sembianze. Sorrisi. Stupido stolto! Guardai atterrito il nemico avvicinare la spada sguainata al bel corpo del mio amico; i suoi lineamenti delicati e androgini a mutare in preda alla paura. Allora decisi di non nascondermi oltre; non avrei potuto celarmi ancora tra l’ombra e sopportare quel dolore lacerante. Il cuore moriva quanto più il ferro nemico graffiava la pelle bianca di Eurialo. Gridai. Che il nemico volgesse le armi contro di me, il ferro in me. Io, io solo ero responsabile di quello sbaglio. Eurialo, il mio amaro amico, non aveva nessuna colpa.
Mi alzai, gridando e volgendo le mani in alto. Se avessi compiuto colpa che il cielo e le stelle ne siano testimoni, ero lì primo a pagare; io unico e solo.
Ma fu inutile, troppo tardi. La spada nuda e fredda cadde violenta nella sua carne acerba, tra le costole, aprendo uno squarcio su quel petto bianco, puerile. Eurialo era travolto dalla morte, e anche il mio animo lo era. Venga chiunque voglia, io sono pronto a morire, nulla senza il mio amico – il mio fratello, il mio compagno – ha senso, né la gloria né la paura.
Mi precipitai senza ragione tra i nemici, il ferro in mano. Tra tutti volevo solo Volcente, cercavo solo Volcente. I guerrieri si avvicinarono a me – non li degnai nemmeno di considerazione – mi premettero, da ogni parte mi strinsero, fittissimi. Insistei ruotando la spada, il ferro d’argento a parere un fulmine, finché lo immersi nella gola dell’urlante Volcente: morendo rubavo l’anima – e la vendetta – al mio nemico.
Con ciò che mi rimaneva in corpo, mi trascinai accanto al mio amato « comes », l’avevo vendicato solo questo contava. Piansi ricordando che non l’avevo nemmeno salutato prima della fine, non gli avevo detto quanto lo amavo. Lo farò ora nelle terre dell’Ade, lo farò ogni giorno nella memoria imperitura che il fato ha deciso di donarci. Ma non m’importa la memoria degli altri, la sua vicinanza mi basta. Accanto a lui, il cui unico errore è stato « amare troppo il suo amico infelice », mi sento completo.
Morii stringendo tra quelle mie stanche membra mortali il corpo ferito ma ugualmente bello di Eurialo; insieme trovammo eterno riposo « cadendo nella placida morte ».
 
   
 
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