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Autore: Maxie__    09/02/2013    2 recensioni
Ci preferivo quando eravamo chiusi nelle nostre facce da idioti e non riuscivamo a stare lontani.
Ed ora col cazzo che mi abbracci e mi stringi al petto,
eravamo così forti.
Ci avrebbero mandato qualsiasi maledizione,
ma noi eravamo lì mano nella mano.
Su quella strada, da qualche parte, ci saranno ancora i segni di tutti i lecca lecca lanciati a terra perché non volevo dartene un po'.
Però alla fine cedevo sempre, come cedevo al tuo cuore, e poi anche quei fottuti lecca lecca innocenti avevano il tuo sapore.
E sapranno sempre di te,
perché così non potrò dimenticarti, mai.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quattro lettere storte:
the world is ugly

Non  l’ho dimenticato ancora l’odore di quel vento lontano da casa che leggermente ti scompigliava i capelli mentre mi cercavi.

Io e Ray eravamo lì, come due deficienti, a ballare una stupida canzone di Beyoncé, sotto al sole di maggio:
t’aspettavamo.

Ed è stato in quel nano secondo in cui ho scrutato l’orizzonte che ti ho visto, mentre mi davi le spalle.

La camminata goffa, la giacca verde oliva.

Quell’attimo cui continuavi a cercarmi con il viso verso le colline piene di sole, ma io ero in mezzo al parcheggio con la collinetta dall’erbaccia secca alle spalle... Squallido.

Poi i nostri nomi si sono scontrati nell’aria e ti sei girato, mi hai guardato per la prima volta, mi hai trafitto, mi hai lacerato, mi hai spezzato le gambe.

Mi sei precipitato tra le braccia e io, nella mia fottuta stazza da nano da giardino ti ho detto:

 
«Ti facevo più alto!» e tu mi hai detto di stare zitto, perché ero un fottuto fungo allucinogeno del cazzo.

Ma ti ascoltavo, tesoro?
Potevo non ascoltarti con il viso affondato tra i tuoi capelli corvini per la prima volta?
Dov’eri stato, prima prima?

Perché te ne stavi contro gli angoli del mondo e avevi smesso di cercarmi?

E mentre ti togli la giacca noto la tua pelle candida, il neo che hai sul braccio:
è la prima volta che prendi il sole, tu non esci.

Io non esco.

E allora perché siamo fuori?

E smetti di intasarci i pensieri con il tuo sguardo che mi fa esitare.

Sai quante lettere ti ho scritto ed ho lasciato volare via sull’autostrada, mentre correvo da te?
Sai quante volte te l’ho detto, prima di vederti, che il tuo sorriso mi avrebbe fatto piangere?

E non guardare così la mia ridicola e fottuta maglia da hippie sotto al giubotto di pelle, mentre Mikey sta strizzato nei suoi jeans e ci racconta di quando ti ha sfiorato le labbra con le proprie, da ubriachi, mentre mi fa vedere il suo tatuaggio sul polso, accoccolato a terra e tu stai zitto accanto a me e guardi.

Corri via, corri verso le nostre birre che apriremo contro le ringhiere e che berremo col collo rotto, alla salute, mentre sotto c’è Il Lago Dei Cigni e me lo chiedi solo perché tua madre crede che tu sia ad un concerto di musica classica e devi pur dirle qualcosa, no, Gerard?

E non mi chiami.

Dì il mio nome.

Gerard, dì «Frank!»,  prounciami, lasciami scivolare tra le tue labbra insieme ai marshmallows dell’autogrill che ho comprato mentre Ray era a pisciare, dei libri che abbiamo rubato che portano il nome dei tuoi occhi,
dell’Alaska che ancora stiamo cercando, mentre io cerco di sciogliere i marshmallows con l’accendino con i gufi e gridi contro l’epatite, che potrebbe essere l’unica cosa buona per unirci, per renderci comuni, per distruggerci i fegati, anche se vorrei solo che ci distruggessimo entrambi i cuori, perché il mio non può essere distrutto da solo, mentre tu ti distruggi i polmoni con le tue Marlboro rosse.

Tossisco, i muri color ocra a cui sei appoggiato ti donano.

Ti dona la mia mano nella tua, ci donano le inguirie dei ragazzi che ci danno dei froci, ci donano le risatine e i 
«Già se lo porta in qualche angolo squallido a scopare? Pansy del cazzo!», ci donano pure le piastrelle del bagno.

E mentre sto per dirtelo, dirti tutte le cose che mi tengo dentro da mesi, dirti che le mie mani hanno tremato solo al tuo pensiero per interi giorni, che sei la mia Annabella, tu ti siedi sul water e io guardo nello specchio.

Perché l’ho fatto?

Perché guardo il volto di ciò che non sono, dell’insicurezza?

Distruggo il coraggio e forse dovrei anche smettere di dire a tutti che devono provarci, devo smettere di dire a Ray che deve provarci con Christa, ogni volta che sta per dirglielo e fallisce.

Perché io con le ragazze ci so fare, il problema sono i ragazzi.
Il problema, anzi, è lui.
Perché non sono eterosessuale, bisessuale, omosessuale, sono Gerardsessuale ed è questo che mi fa girar la testa,
che mi fa perdere il controllo più della vodka alla pesca al mio compleanno, che mi rende ridicolo.

E quindi l’amore che ci appartiene a calpestarci di paure?

Ti sei legato i capelli e mi fissi, con le mani sulle cosce, aspettando che io ti dica cos’ho da dire.

Ma non so dirti altro che mi prendono in giro perché mio padre è un ubriacone, non so far altro che fissare gli angoli della stanza, le piastrelle bianche, la finestra rettangolare, prendendo in considerazione la fuga, mentre tu comprensivo sorridi e non mi dici niente, mentre ci laviamo le mani e guardo il nostro riflesso nello specchio:
con te accanto sembro migliore.

Non riesco proprio a spiegarmi perché ci diano degli esseri immondi, se il mio cuore riesce a battere per te anche se i nostri fianchi vicinissimi non si sfiorano, mentre usciamo e quel tratto di strada verso Ray e Mikey non lo ricordo, perché ero troppo impegnato ad immaginare come sarebbe stato baciarti al sicuro, in bagno.

Noto che profumi della birra che ti è schizzata addosso mentre io canticchiavo qualche assolo di chitarra, profumi del fumo che ti annerisce le labbra, non ricordo altro profumo, per quanto mi sforzi a farlo.

Il ricordo dello smalto nero che hai rubato per me mi assale, mentre Mikey strappa la copertina del mio diario per farci un filtro e corriamo a fumare dietro al palazzo soleggiato, mentre il sole cala e io ti metto l'anello di metallo all'anulare sinistro e ti va preciso, mentre il mio, identico al tuo, mi va enorme, perché la tua mano è il doppio della mia, lo constatiamo, lo misuriamo, palmo contro palmo.

E starti accanto è diventato oramai naturale.

E ricordo noi tre, fottutamente noi tre e nessun’altro, mentre ti chiedevo quasi di baciarmi per insegnarmi a fumare,
ma eri così fuori da non capirmi o ero così fuori da non esprimermi, o il rosso del tramonto aveva travolto il nostro essere dell’attimo.

Lo ricordo come il tramonto più lungo della mia vita, ricordo i brividi che mi percorrono la schiena per il vento fresco e il sapore amaro della cartina pallida che bruciava.

Ricordo quando fuggivo e dicevo di non sentire la terra sotto i piedi, mentre tu e tuo fratello ridevate, mentre la mia sciarpa blu se la portava il vento e il pullman mi chiamava, mentre mi controllavi le pupille, e solo ora mi accorgo che quella volta, probabilmente, avresti potuto leggere qualcosa nei miei occhi, mentre masticavamo chewingum e ci abbracciavamo per l’ultima volta:

sento ancora le tue braccia attorno al mio corpo e le mie attorno al tuo, mentre ti baciavo il collo a scatti come se fosse un addio, mentre stavamo per fotografarci nei nostri sguardi, nei tuoi nascondigli, nei libri lanciati a terra con le dediche sbronze e non sai quanto ho esitato, prima di correre via senza baciarti, con il nostro anello stretto contro il cuore.

Salgo gli scalini del pullman, sottecchi ti fisso, attraverso i capelli di Ray.

Non ti giri, non vi girate.

Sei troppo rigido, continui a seguire la traiettoria della tua Marlboro, dritto, verso la collinetta con l’erba secca che m’era da sfondo la prima volta che mi hai visto, ma non stai pensando a quell'attimo come sto facendo io.

E mi accascio, fissando l’ora sull’orologio sballato del pullman, dei numeri che non ricordo più.

Ricordo solo che continuavo a chiedermi se ti fossi girato, mentre salivo le scale con i piedi pesanti e abbracciavo il comodino, con il crocifisso macabro che ci fissava gli interni e le parete degli stomaci pieni di autodistruzione che da quel giorno ci ha demoliti, che da quel giorno ci ha fatti sentire privi d’uso, capaci solamente a vivere per raspare, per prendere a pugni le porte, per scartavetrare le camicie insanguinate prima dei concerti jazz, mentre io continuavo a stringermi nella giacca di pelle, senza voce e senza te e ci pioveva addosso, quando facevamo volare via la carta igienica dalle sbarre delle finestre del convento, sperando t’arrivassero.
 

 

 Quei fottuti ricordi stanno bruciando con i secondi,
il tuo profumo arde e ne rimane solamente fumo.
Gli occhi sono quasi cenere,
non c'è nulla da fare.
Giuro, brucerei assieme ai ricordi se servisse a qualcosa,
se ci fossi anche tu a bruciare con me,
saremmo cenere rosa,
saremmo il colore.
Peccato di essere volati via prima di diventare leggeri come cenere,
l'amore era troppo leggero.

Le mie grida sopravvivevano, rimbalzando contro i muri del corridoio,
chissà se, lontani chilometri, io e te ce l'avremmo fatta.











































































 

A lei, che a capirmi ci ha provato,
che mi ha creduto quando le ho detto che quello strano sentimento sarebbe andato via,
che è l'unica che avrebbe mai reagito in tal modo,
non allontanandosi, ma avvicinandosi, per capire.
Ad Annabella, che mi ha scolpito un quindici nel cuore.

 

Il titolo è tratto da  un episodio di Skins, è Cook a parlare a Freddie riguardo Effy,
la storia è vera, non un pizzico d'immaginazione, solo la mia visione distorta dei fatti,
il mio flusso dei pensieri che sono diventati pensieri di Frank,
un Frank che vede per la prima volta il suo Gerard.
{Jimmy, guarda come nevica}
Twitter: @Maxie__

  
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