Note materiali
Una chitarra scura, non nera, scura, delle corde
arrugginite e il suo corpo disteso sul letto. Non respira. E’ morto. Il delitto
è avvenuto nel più assoluto silenzio di una notte senza luna, nel buio di una
stanza dalle pareti umide e sporche di una casa che non è davvero casa sua. Alcuni
affermano che l’assassino sia scappato dalla finestra, la finestra del terzo
piano che si affaccia su una caduta di quindici metri, biglietto diretto per
l’inferno, dicono fosse bianco ed indossasse una felpa nera, come la notte. Il
ragazzo del quarto piano dice di averlo sentito gridare, in realtà era un
sussurro ma lo ha sentito forte e chiaro.
Una chitarra scura, non nera, scura e un uomo con una
passione che è la sua religione, la sua fede blasfema, il suo credo convinto verso
qualcosa che non è volto, né voce, né materia. Un mi riecheggia nell’aria, la
corda vibra ancora, stimolata dal polpastrello consumato. Ed è lui, tutto lì,
in quel polpastrello consumato e la corda arrugginita di una chitarra scura,
non nera, scura e in quel mi appena sussurrato.
E’ lui un sussurro, un flebile e minuto sussurro. Lo
senti crescergli nel petto, aggrapparsi alle pareti dell’esofago, avvicinarsi
all’ugola; il respiro gli si strozza in gola; gli occhi socchiusi, le labbra
leggermente dischiuse pronte a vibrare sotto quella parola piccola, piccola. E
poi, eccolo, lo guardi, davvero riesci a vederlo, sbuca tra le sue labbra e ti
squarcia i timpani. E’ lui, tutto lì. Rinchiuso nel suo petto, sotto la
vibrazione costante di un sussurro, con il respiro mozzato e gli occhi fissi
sulla parte di letto accanto a lui.
E’ difficile descrivere la sua voce, è una di quelle poche
cose in natura che nessuno può spiegare, ci vorrebbero giorni solo per riuscire
a distinguere le parole, dividerle e assemblare frasi, è difficile anche solo
separarle dalla musica, sono così, la sua voce e la sua musica, vibrazioni
potenti e costanti che si mischiano, si uniscono, diventano un’unica enorme,
infinita e disarmante voce. E’ la dolcezza di un bambino mischiata al sesso più
sporco che uno possa immaginarsi, è capace di zittirti e metterti
all’angoletto, l’unica cosa che puoi fare è smettere di respirare e lasciare
sanguinare i timpani. Non senti dolore, potresti anche morire lì, con le
chiappe sul pavimento freddo, nessuno dei due se ne accorgerebbe. Lo guardi, la
schiena ricurva sulla chitarra, le mani che scivolano leggere sulle corde e i
suoi occhi che si chiudono e si aprono, si chiudono e si aprono, come per
accertarsi che lei sia ancora lì, di fianco a lui. Le permette di entrargli in
testa, di sfondare quella bolla di cristallo che lo tiene lontano dal resto del
mondo, quella bolla fatta di note disumane, note innaturali, note materiali.
Le permette di sfiorarlo, le permette di toccarlo, di
baciarlo. Le permette di entrare nelle parole di una canzone appena sussurrata,
lui apre gli occhi e la sfiora con lo sguardo. I suoi occhi sono affamati, le
iridi chiare scompaiono e diventano solo pupilla, come pozzi neri colmi di
desiderio. Continua a suonare e a cantare ma i sussurri si trasformano in
strazianti gemiti. Occhi neri baciano le sue labbra rosse e gonfie. Occhi neri
le sfiorano una guancia. Occhi neri desiderano il suo corpo e labbra dischiuse
sussurrano parole sporche come il petrolio ma dolci come il sorriso di un
bambino. Tu, all’angolino, spettatore di quello che sta accadendo senti il
sangue fluire denso nelle vene e colorare le guance, è solo musica, è solo una
voce, sono solo note appena accennate su una chitarra scura. Lo ripeti in
continuazione cercando di convincere quella parte di te che tenta ancora di
restare lucida e razionale ma il tuo corpo si ribella, ti vergogni dei pensieri
che quei gemiti ti suggeriscono nella mente, senti il peso del suo desiderio
sul petto come un cuscino di piombo che ti frantuma le costole e ti perfora i
polmoni. Non respiri, avevi smesso da tempo e non senti dolore, non ne hai mai
sentito, non ricordi nemmeno cosa sia, non ricordi il sapore amaro del sangue e
non ricordi nemmeno il rumore del mondo oltre quella bolla di cristallo. Senti
solo quelle dannate note rimbalzare sulla pelle. Sei ridotto a un corpo che
vibra sotto l’influsso di una musica che non è musica, di questo sei
consapevole, sei un inutile diapason all’angolo di una stanza spettatore di
sensazioni che diventano materia. Sai che potresti alzare un dito, tenderlo
verso le sue labbra e afferrare al volo una parola, stringerla nel palmo della
mano e accarezzarla con un polpastrello. Non ti accorgi nemmeno che lo hai
fatto. Il palmo torna improvvisamente sensibile, come se quel sussurro che
stringe febbrilmente avesse la forza di far rinascere il tuo corpo, come pura
energia, come motore principale dei tuoi stimoli nervosi. Senti il sangue
pulsare nelle vene e i polpastrelli formicolare. E’ solo una dannata parola.
E lui continua a far l’amore con quella donna dai
capelli corvini mentre tu tieni le sue parole strette nella mano, avido di
sensazioni, avido di emozioni e arido di sentimenti così fottutamente
distruttivi.
Un mi suonato a vuoto nell’aria consumata di quella
casa che non è casa. Ci vuole più tempo del previsto per capire che la mano che
accarezzava la chitarra sta ardentemente accarezzando la guancia della donna
dagli occhi blu e liquidi. Senti il petto esplodere, un dolore lancinante, te
lo stringi tra le mani senza riuscire a staccare gli occhi dalle sue che si
avvicinano al viso di lei. I polmoni chiedono ossigeno, provi ad aprire le
labbra e ad addentare un centimetro cubo di aria ma ti ritrovi solamente ad
annaspare e con l’alito che sa di umido.
Intanto il movimento impercettibile delle sue labbra
si affievolisce sempre di più e, come quel mi, un ultimo sussurro vibra
nell’aria ad un centimetro dalle labbra rosse della donna dai capelli corvini.
Un centimetro a dividerlo da lei, un solo dannato centimetro e un ultimo
sospiro. Nel momento esatto in cui le labbra si uniscono e l’ultima lettera di
una qualsiasi parola risuona nell’aria, lei svanisce e tu ti accasci a terra
senza più ossigeno nei polmoni e con il petto fracassato.
Dicono che il corpo sia solo uno. Dicono che il cuore
non ha retto, parlano di arresto cardiaco.
Ma tu sai, tu sai perché eri lì. In quella casa che
non è mai stata casa sua i corpi sono tre: il tuo, accasciato ad un angolo tra
la macchia di umido di fianco alla scrivania e a quella che sbuca da dietro la
libreria; il suo, collassato sul letto proprio dove prima c’era lei; e quello
della donna, svanito nel nulla.
Parlano di un ragazzo, uscito in tutta fretta dalla
finestra, chiusa, che non si è reso conto di essere al terzo piano di un
palazzo senza balconi e che si è gettato senza indugi, il corpo non si è
ritrovato, dicono che sia stato rubato, alcuni accusano il portinaio altri il
macellaio sotto casa.
Ma tu sai, tu sai perché eri lì. Hai visto la ragazza
sparire davanti ai tuoi occhi, l’hai vista sparire insieme alla musica, insieme
ai sussurri, insieme al tuo ultimo respiro. Sei morto nell’esatto istante in
cui il rumore si è riappropriato del tuo corpo, sei morto nell’esatto instante
in cui l’uomo davanti a te ha scelto il silenzio. Lo hai visto accasciarsi sul
letto, aprire e chiudere gli occhi un’ultima volta sommerso dai frammenti di
quella bolla di cristallo di cui si era circondato.
Ucciso dalle proprie emozioni, ucciso dalla perdita
della propria religione. Una fede fatta di note, di sussurri e di vibrazioni
profonde. Un uomo che ha vissuto un‘ intera vita innamorandosi di una donna
fantasma creata dalle note di una canzone sussurrata o dai sussurri delle note
di una chitarra scura, non nera, scura, troppo materiale per crederla irreale
ma anche troppo perfetta da poterla pensare reale. Perfetta come lo può essere
una canzone o una voce che è nota e una nota che è voce.
E così è morto. E’ morta la sua musica portandosi
dietro i suoi occhi blu e le sue labbra rosse e i suoi capelli corvini. E sei
morto tu; ti avevano insegnato a vivere respirando e lo avevi dimenticato
ascoltando il primo mi uscire fuori dalle sue labbra. E sei morto; ti avevano
insegnato a vivere respirando ma lo avevi dimenticato imparando a nutrirti di
note ma te le hanno tolte, strappate, e ti hanno sfondato il petto cedendo
l’ultimo respiro a delle labbra fantasma.
E tu ne sei certo, quel sussurro, l’ultimo, sei
riuscito a distinguerlo.
Love. Love me do.
***
Questa roba l'ho scritta quest'estate o poco dopo, di partenza mi avevano chiesto d'ispirarmi al titolo di quella precisa canzone dei Beatles, ovviamente per la ricorrenza. Non avevo idea di cosa dire, sapevo solo che la frase la volevo alla fine e che sarebbe stata un sussurro, volevo qualcosa di intimo, sfiorato, un qualcosa in cui sentirmi il terzo incomodo. Insomma dovevano scriversi da soli. E mi ricordo che la sera on tornata a casa tardi e ho trovato mio padre davanti al computer che ascoltava Just Breathe dei Peearl Jam, l'avevo lasciata lì perchè l'ascoltasse e mi ha ispirata. Effettivamente lui è un pò Eddie, la forza e la fragilità appartengono a lui e io le ho solo trasmesse al mio personaggio, mentre lei credo sia San Vincent, avevo il suo viso davanti agli occhi e non mi si schiodava di dosso. So che non è proprio da collocare nel fandom dei Beatles ma è per loro se è nata e parla in ogni caso di una generazione fatta da poche persone ma che apprezzano con anima e corpo la loro musica. La frase è loro, il motivo per cui è stata scritta era il compleanno di Love me do e in ogni caso era per loro.
Ho sparlato troppo e non mi sorprenderebbe se qualcuno di voi fosse fuggito a gambe levate da questa cosa qui.
Wishing well people.
Lis