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Autore: God Of Emptiness    14/02/2013    2 recensioni
Sullo sfondo il genere umano in una delle sue ere più buie e un bambino sognatore viene in contatto con qualcosa che non è di questa terra e che gli rivelerà il destino della razza umana.
Genere: Horror, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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VENTO STELLARE

 
Anno 3025, nulla ormai ha più importanza. Gli ultimi esseri umani che popolano la Terra non vivono più, ma aspettano in una sorta di limbo l’arrivo della morte nella speranza di una pace dei sensi. Le giornate passano lente, scandite solo dalle azioni automatiche e stereotipate degli ultimi che restano, di cui io faccio parte e di cui voglio essere portavoce in queste righe, che vogliono essere solo uno sfogo della mia mente dopo gli avvenimenti a cui sono stato testimone involontario.
A detta dei miei genitori le cose per il nostro pianeta avevano già  cominciato a prendere una brutta piega qualche anno prima della mia nascita,avvenuta nel 2980 in una piccola cittadina dell’entro terra. Io mi chiamo Vincent Smith.
All’epoca il pianeta era straziato da guerre continue tra gli stati dominanti per il predominio delle risorse che andavano ormai esaurendosi a causa del sovra popolamento e l’acqua aveva un valore di molto superiore a quello dei più nobili metalli conosciuti. Le religioni, come tutte le cose umane erano sprofondate nel caos ed erano verso il declino, ormai erano in pochi che si appigliavano alla fede e la gente accennava che solo strani culti resistevano nelle parti più remote e inaccessibili del pianeta.
Avere un computer era diventato un lusso a pochi concesso e a poco a poco incombeva su tutto l’arrivo di una nuova era oscura.
Tutto scarseggiava e ovunque si andavano creando bande di gente disperata, disposta a fare qualsiasi cosa per un po’ di cibo.
Fu così che la mia infanzia la trascorsi principalmente in casa, infatti era troppo rischioso per un bambino della mia età aggirarsi per le vie della città o di ciò che ne rimaneva, perché in questi tempi di fame e carestia il cannibalismo era all’ordine del giorno. Ero un bambino di indole tranquilla e schivo, con pochi interessi. I fatti che i miei genitori mi riportavano sulle guerre e sulla situazione economica globale mi toccavano solo in minima parte, perché sapevo in cuor mio che, in futuro, le cose sarebbero di sicuro migliorate e che, con un po’ di fortuna, l’umanità si sarebbe risollevata ancora una volta, come aveva sempre fatto nel corso dei secoli. Sicuramente anche i miei genitori la pensavano allo stesso modo.
Comunque sia a causa dei pericoli continui che la città mi riservava ero costretto a passare le mie giornate immerso nei libri e nei tomi, mio unico svago, che mio padre raccattava ovunque gli capitasse e ben presto cominciai a farmi una formazione scolastica del tutto personale dato che nessun maestro ho mai conosciuto. I miei genitori erano per la maggior parte del tempo fuori alla ricerca di qualcosa da mangiare e io mi nascondevo nella soffitta della mia casa per non correre inutili rischi. Ed era dalla finestra circolare della soffitta polverosa,ammuffita e piena di inutili oggetti che alla sera ammiravo le stelle; ammiravo e fantasticavo su quel immenso mare d’ebano punteggiato di diamanti e mi lasciavo trasportare dall’immaginazione che solo un bambino può avere e a cui può lasciarsi andare. Piena com’era la mia mente sovraeccitata  di storie fantascientifiche di pianeti lontani e viaggi interstellari ancora più lontani sognavo di essere io un giorno il protagonista di quelle storie e solo i morsi della fame mi riportavano alla dura realtà che mi ricordava la condizione di recluso cui ero.
Dato che lo spaccato d’universo che ammiravo era sempre quello della dimensioni della finestra circolare, alla fine era come se fossi davanti a una tela di un pittore che vuole comunicare qualcosa al pubblico o che vuole sia l’osservatore stesso a interpretarlo e dargli un significato.
Passavo le notti in una sorta di contemplazione e per ore fissavo il manto di pece nera che attanagliava il pianeta; con l’occhio passavo da una stella all’altra nella ricerca di qualcosa che non sapevo spiegarmi. Leggevo e osservavo, osservavo e leggevo; la mente e i miei sensi erano i miei unici compagni. Anche se rarissime volte scorgevo una stella cadente o qualcosa che modificasse lo scorcio che la finestra mi proponeva, ero appagato del poco che avevo e di ciò che potevo ammirare. D’altro canto però quello che potevo vedere era ciò che la mia limitata vista mi permetteva di cogliere e grande fu la mia gioia quando mio padre un giorno portò a casa un vecchio telescopio, trovato tra le cianfrusaglie di un bazar in uno dei pellegrinaggi che compiva per l’incessante bisogno di procurarsi del cibo. Non seppi mai con che mezzi lo ottenne o come lo barattò, credo che lo avesse rubato, ma non mi importava. I miei genitori erano infatti consapevoli del mio interesse per lo spazio e per quanto fosse nelle loro possibilità cercavano di non farmi mancare nulla.
La sera stessa, come era facile intuire, mi misi a scrutare lo scorcio circolare con il telescopio e per quanto rovinato e vecchio fosse di sicuro aumentava le mie capacità visive. Ora si che mi sembrava di toccare con mano le stelle e i corpi celesti che tanto amavo e la nera tenebra mi avvolgeva amorevolmente ogni notte con le sue spire. Quando venivano le prime luci dell’alba crollavo stancamente sul pavimento in legno della vecchia soffitta e mi immergevo nel mondo onirico pullulato di sogni che mi vedevano protagonista. Come fluissero da una sorgente inesauribile erano sempre diversi l’uno dall’altro per le combinazioni di particolari che la mia mente riusciva a dare vita. Navigavo con la mente in quei mari d’etere, attraversando città e regni sconosciuti.
 Più il tempo passava e più il mio desiderio di ammirare l’ignoto cresceva; aspettavo con una fremente attesa l’arrivo delle tenebre e anche la lettura aveva ormai cominciato a perdere d’interesse; aspettavo per tutto il giorno il tramonto del sole e a poco a poco cominciai ad odiare l’astro che irraggiava i suoi deboli raggi su tutto ciò che mi circondava. Come preda di un incantesimo o di un maleficio ero diventato anche più chiuso verso i miei genitori, unico mio contatto con la vita reale.
 Solo il nero drappo dell’universo placava la mia ansia a cui non sapevo dare spiegazione e come un oppio mi dava benessere e calma, anche se bastavano i primi raggi diurni a farne cessare l’effetto.
Dopo qualche mese passato in questo stato cominciò ad insinuarsi in me la sensazione, l’idea che qualcosa mi osservasse durante le mie lunghe notti, proprio come io osservavo dalla lente del telescopio le stelle dell’infinito abisso. Mi sentivo scrutare da qualcosa che proveniva proprio dai recessi d’infinito a cui dedicavo così tanto del mio tempo.
Notte dopo notte la sensazione diventava sempre più forte e non posso negare che alla costante curiosità che mi incollava davanti alla finestra si andasse mischiando un terrore crescente.
A un osservatore occasionale sarebbe sembrato un normalissimo scorcio di cielo stellato, ma io ormai sapevo di essere entrato in contatto con qualcosa di più grande di tutto ciò che mi circondava.
Fu così che venne il giorno che non dimenticherò mai, avevo all’incirca tredici anni quando il fenomeno avvenne.
I miei genitori, alla mattina, mi avevano detto che sarebbero rimasti via più del previsto, forse per un paio di giorni perché avevano sentito da alcuni loro amici che fuori città era stato attaccato da una banda un camion militare carico di provviste ed era una buona occasione per vedere se c’era qualcosa di utile da raccattare, infatti era ben noto che quei mezzi erano sempre pieni zeppi di vestiti e altri utensili, oltre che ovviamente di cibo. Così mi lasciarono qualcosa da mangiare e mi raccomandarono di stare ben nascosto nella soffitta, cosa che avrei fatto in ogni caso.
Avevo passato l’intera giornata a riposare per trovarmi sveglio e preparato alla lunga notte che mi aspettava e sfogliando pagine di volumi di cui non ricordo il contenuto, nella snervante attesa che anche per quel giorno la luce lasciasse la presa sul mondo per fare spazio alla tanto agognata oscurità.
Alla fine la sera arrivò e come al solito presi meccanicamente il telescopio e lo posizionai davanti alla finestra che come un grande occhio di vetro mi svelava nuovamente la bellezza della volta celeste.
Continuavo a chiedermi se mai la sensazione di essere osservato che provavo fosse una cosa effettiva oppure solo il frutto della mia immaginazione, ma era come se il grande universo mi scrutasse e io mi sentivo schiacciato dal peso dell’eternità e dai misteri che racchiudeva. Ma per la prima ora di osservazione nulla accadde.
Nonostante tutto non smisi di indagare e con occhio inquisitore esaminavo ogni frammento dello spaccato cosmico; dopo un’altra mezzora di incessante ricerca cominciai a notare un punto che sembrava essere più scuro rispetto al resto. Una macchiolina microscopica di un nero abissale, che andava aumentando di dimensioni.  
Ad un certo punto cominciò ad insinuarsi in me una stanchezza crescente, che si accentuava di minuto in minuto; cosa alquanto strana dato che come ho detto avevo riposato per tutto il giorno e non era nuovo a queste veglie notturne.
Sulle prime decisi di fare una pausa, mi scollai dal telescopio e decisi di mettere qualcosa sotto i denti perché imputavo la stanchezza ad un normale calo di energie; ed effettivamente mi resi conto che era dalla mattina che non mangiavo qualcosa. Addentai qualche biscotto e sorseggiai dell’acqua.
Questo pasto frugale parve darmi solo un sollievo momentaneo perché la coltre del sonno non accingeva a lasciarmi, diedi un’ ultima occhiata al telescopio e mi accorsi che la macchiolina nera non c’era più. Di sicuro la mia vista affaticata mi aveva giocato un brutto scherzo; allora decisi di aprire la finestra circolare per aspirare una boccata dell’aria fresca della notte. Ma appena socchiusi la finestra, questa si aprì di colpo, spinta dall’esterno da una fortissima folata di vento.
Provai a richiuderla, ma invano, la corrente d’aria era troppo forte, così forte che fece cadere a terra il telescopio e volare in un turbinio le scartoffie della mia soffitta.
Andava crescendo d’intensità ed era come se io fossi nell’ occhio di un ciclone. A poco a poco anche gli oggetti più pesanti che mi circondavano e i miei libri cominciarono a volarmi attorno.
Era una cosa che non riuscivo a spiegarmi dato che sembrava che solo la soffitta fosse investita dalla corrente.
Ero in piedi, al centro della soffitta, completamente immobile e pietrificato da un terrore cieco e insopprimibile, non sapevo a cosa sarei andato incontro, ma sapevo che l’evento che stavo vivendo era qualcosa che mi avrebbe segnato per sempre.
La corrente che mi lambiva il volto e stropicciava i vestiti aveva l’odore della morte, della follia, di oscuri segreti ed enigmi mai svelati. Sembrava provenisse da oltre i confini del cosmo e di sicuro andava oltre tutto ciò che avessi mai visto.
Uno stato di nausea che non so descrivervi mi colpì e le orecchie mi ronzavano come se la testa fosse sul punto di scoppiare, le pareti della soffitta sembrava dovessero accartocciarsi su di me, ma nonostante ciò provavo ancora una sorta di macabra curiosità nel vedere come tutto sarebbe finito; ma inseguito mi sarei pentito amaramente del mio folle desiderio e sarebbe stato meglio se fossi stramazzato al suolo privo di sensi.
Dopo un tempo che non so descrivere, la situazione parve mutare e la corrente parve diminuire di intensità finchè solo una lieve brezza aliena aleggiava nella stanza.
Tutto pareva tornato alla normalità, o almeno così mi sembro all’ inizio, ma mi sbagliavo, infatti un orrore soprannaturale mi attendeva alle mie spalle. Era chiaro che non ero più solo nella soffitta, qualcuno o qualcosa, non di questo pianeta, ne ero certo mi osservava.
Con un estremo sforzo mi voltai molto lentamente, indietreggiai di qualche passo sul legno che scricchiolava sinistramente e i miei timori vennero confermati; una sorta di tremore perenne scuoteva il mio corpo e la mia fronte era imperlata di sudore.
La cosa era proprio davanti alla porta d’ingresso della soffitta e io mi trovavo di fronte a lei dalla parte opposta della stanza e davo le spalle alla finestra da cui l’orrore era entrato e da dove filtravano i pochi raggi lattiginosi di una luna spettrale che mi sfioravano il volto come fossero dita d’incubo.
La scorgevo a fatica dato la quasi totale oscurità che avvolgeva la scena, ma per quanto buio ci fosse, la sagoma era di un nero ancora maggiore, un’oscurità pura dove i miei occhi si perdevano.
La sagoma era alta quasi fino al soffitto, la sua figura era leggermente incurvata in avanti e da quel poco che potevo scorgere non sembrava avesse occhi, naso o bocca. Dalle parti di quello che doveva essere un rudimentale corpo pendevano due arti antropomorfi simili a lunghe braccia. Ma la cosa che più mi terrorizzava era la totale assenza di colori del mio nuovo ospite. La sua immagine era completamente nera e pareva uscita da una visione demoniaca.
La cosa sembrava fuoriuscisse da una pozza altrettanto nera presente nel pavimento e tutto ciò con cui la pozza veniva in contatto sprofondava nell’ombra.
Per vari minuti, che mi sembrarono ore, restammo entrambi immobili a guardarci e nessuno di noi parlò. Nulla avrebbe potuto farmi avvicinare a quella creatura e più di una volta nella mia mente era balenata l’idea di lanciarmi dalla finestra, ma qualcosa mi tratteneva, qualcosa mi paralizzava e non era solo la paura; più guardava quell’ essere, la sua nera sagoma e più ero convinto di guardare nelle profondità dell’universo.
Poi accadde qualcosa: la pozza ai suoi piedi, che pareva pece, cominciò a crescere di dimensioni e ad allargarsi; cresceva, cresceva e tutto ciò che rientrava nel suo raggio d’azione veniva inghiottito. Prima i libri, poi il telescopio, tutto veniva assorbito da quel buco nero.
Alla fine, vista la situazione, decisi che avevo visto abbastanza e pensai di mettere in atto il mio piano suicida di lanciarmi dalla finestra, qualunque cosa sarebbe stata meglio di ciò che doveva aspettarmi in quel gorgo oscuro.
Ma come se quel essere avesse captato i miei pensieri, me lo impedì e con un’altra folata di vento ultraterreno, che evidentemente comandava a suo piacimento, mi incollò letteralmente al muro, per bloccarmi.
Ancora una volta quell’aria infernale che mi investì e mi sferzava il volto era come una zaffata di morte, olezzante di male e a stento non persi i sensi.
Nel frattempo la macchia nera aveva preso tutta l’area del pavimento della soffitta e alla fine prese anche i miei piedi.
Appena venni in contatto con quella materia aliena sentì che un gelo primordiale, un gelo di epoche infinite pervadeva il mio corpo e anch’io, come tutti gli oggetti della stanza, cominciai a sprofondare lentamente, ma inesorabilmente nel nero caos.
Gridai, urlai, piansi disperatamente e chiesi aiuto per non ricordo quanto tempo, alla fine, però, i miei sensi cedettero e io svenni.
Al mio risveglio ero angosciato, ma sicuro di essere ritornato dal mondo onirico, perché mi dicevo che solo un incubo terribile poteva essere stato tutto quello che avevo visto. Ma il peggio per la mia mente doveva ancora venire.
Quando lentamente aprii gli occhi mi resi subito conto di non trovarmi più nella soffitta della mia casa e di sicuro non mi trovavo nella Terra, ero in un luogo che nessun essere umano aveva mai calcato.
Era come se mi trovassi al centro dell’universo. Ero circondato da stelle e astri sconosciuti e guardavo con timore reverenziale il panorama che mi circondava.
Altra cosa che mi scosse non poco, mi accorsi che il mio corpo non era più tangibile, ma era diventato di una trasparenza spettrale tanto che potevo guardarvi attraverso e come un novizio fantasma ero incredulo al cambiamento che avevo subito.
Culmine finale di questa visione fantastica, davanti a me, stava seduto su un gigantesco trono d’onice intarsiato di pietre preziose ed incisioni di cui non capivo il significato, ma che mi facevano ugualmente inorridire, la creatura che aveva assunto dimensioni ciclopiche e che in quel momento era fautore del mio destino.
La sua figura, incredibilmente nera, a tratti si fondeva con lo spazio che ci circondava e pareva quasi che facesse parte dell’ universo stesso, una personificazione blasfema del cosmo.
Appena i miei occhi incontrarono il suo volto vuoto e privo di espressione mi inchinai inconsciamente nel vuoto, come fossi di fronte ad un potente sultano.
Se tutto ciò che stavo vivendo non era un incubo allora non sapevo più a cosa credere e mi chiedevo se mai tutto sarebbe finito, se avrei rivisto i miei genitori e cominciai a provare una sorta di nostalgia per il mio banale, ma familiare pianeta.
Poi, d’un tratto, il gigantesco essere parlò, per la prima e unica volta e con una voce mefistofelica che mi fece raggelare la coscienza e che pareva giungesse a me da tutte le direzioni disse queste parole di fuoco che mai dimenticherò:
“ Io sono il vuoto della luce.
   Io sono il silenzio dell’abisso.
   Io sono colui che è sempre esistito e che sempre ci sarà.
   Io sono la forza del cosmo.
   Io sono colui che ritorna in eterno.
   Io sono colui che genera e distrugge.
   Io sono tutto ciò che ti circonda.”

Dopo aver detto ciò spiegò le infinite braccia e mi mostrò visioni apocalittiche; alla sua sinistra rividi il passato e alla sua destra mi venne rivelato il futuro. Passato e futuro non solo della Terra, ma di un’infinità di razze e altri mondi che sono stati e che avrebbe dovuto essere. E allora capii.
Sgomento e in preda a un panico esistenziale mai provato venni sopraffatto per la terza e ultima volta dal mefitico vento gelido che aveva il sapore di secoli vissuti che mi lambiva nonostante la mia forma incorporea e ancora una volta il dolce oblio mi avvolse e chiusi gli occhi su quel pandemonio di oscenità.
Quando mi risvegliai per l’ennesima volta ero sicuro che il male mi aveva lasciato perché sentii il vecchio legno sotto i miei piedi e l’odore della muffa che ammorbava la soffitta, ma che ero felice di respirare a pieni polmoni. Dalla finestra filtravano le primi luci dell’alba che ora non mi davano più fastidio, ma avevano un effetto benefico nel mio animo.
Il mio corpo non aveva nulla di insolito, era in carne ed ossa ed era soprattutto tangibile; anche questo mi rassicurò e quando sentii la porta al piano terreno aprirsi, corsi ad abbracciare i miei genitori.
Ne dedussi che dovevo aver dormito parecchio, perché ancora una volta non potevo creder che ciò che avevo vissuto fosse accaduto realmente. Assieme ai miei mangiai qualcosa che avevano recuperato nel loro breve viaggio e parlai un po’ con loro del più e del meno per sviare la mia mente dall’orribile evento.
Alla sera andai nella soffitta deciso a  mettere da parte il telescopio e i miei libri fantastici; per un bel po’ ne avrei fatto decisamente a meno, ma quando entrai nella stanza non riuscii a trovarli da nessuna parte. Non ve ne era traccia, erano svaniti nel nulla.
La finestra circolare era rimasta aperta dalla scorse notte e un leggero venticello mi scompigliò i capelli; rabbrividii e andai a richiuderla.
Non seppi come spiegarmi il fenomeno e decisi di non tentare nemmeno di pormi altre domande. Gli anni passarono, ma il ricordo del mio infernale incontro non si affievolì mai e come un parassita farà sempre parte dei miei ricordi.
Ogni volta che sento il vento soffiare un fremito di terrore scuote le mie membra e non trovo più il coraggio di ammirare le stelle.
Ora è l’anno 3025, nulla ormai ha più importanza. Le giornate passano lente, scandite solo dalle azioni automatiche e stereotipate degli ultimi che restano e di cui io faccio parte.
Queste righe sono tutto ciò che non potevo più tenermi dentro, spero che mai nessuno le legga.
Il genere umano non si rialzò mai dalla sua caduta e io ho da tempo perso la fiducia che avevo da bambino. Ma io tutto questo lo so già, l’ho già visto e solo ora capisco che la mia strana vicenda era solo un’anticipazione profetica di quello che sarà.
Non saprò mai perché quell’essere scelse me e non saprò mai se altri videro mai ciò che io vidi. Mi fa sorridere la presunzione che in passato ci siano state persone che consideravano la razza umana come l’unica destinata a vivere in eterno. Non siamo altro che un puntino nell’infinito cosmo.
Io mi chiamo Vincent Smith, ultimo di una razza in declino.
 
 
 
  
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