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Autore: Sam Lackheart    14/02/2013    2 recensioni
Dopo la tanto acclamata Rivoluzione Americana, Arthur aveva bisogno di qualcuno.
E quel qualcuno c' era.
Insomma, ci sarà pure un motivo se lo chiamano Regno Unito.
[Non so fare le introduzioni, dite che si vede? Comunque, non deve essere letta necessariamente come una ScotlandxUk, perchè - almeno per questa volta - ho tentato di scrivere qualcosa di vagamente diverso ... Ma neanche tanto, alla fine]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Era notte. Pioveva, come al solito nella capitale inglese.
Un ragazzo camminava spedito, senza preoccuparsi di ripararsi dalla pioggia. I suoi capelli ramati erano diventati rosso sangue, ma non sembrava curarsene. 
A dirla tutta, non sembrava curarsi di nulla. Camminava sì spedito, ma sembrava non avesse una meta precisa. Non era neanche quella che si poteva definire una passeggiata di piacere, visto il tempo.
Seppur sembrasse senza meta, il suo sguardo sembrò accandersi davanti ad un' altrettanto illuminata insegna. Era arrivato.
Entrò, sensa preoccuarsi di pulirsi le scarpe o altro, e si diresse spedito verso il bancone, dove lo attendeva paziente il barista. 
"Dov' è questa volta?" chiese, senza neanche salutare "Non dirmi che se n' è andato" aggiunse dopo pochi attimi, con una nota di preoccupazione nella voce.
"Non preoccuparti, è dall' altro lato" borbottò questi, continuando a pulire un bicchiere. 
Il rosso fece velocemente il giro del bancone, ritrovandosi davanti un Arthur incredibilmente sobrio.
Aggrottò le sopracciglia, visibilmente stupito, comprendendo immediatamente l' irritazione del barista, amante dei casi pietosi solo quando questi ordinavano litri di alcool per diluire i loro problemi.
"Arthur" lo chiamò, cauto, sedendosi accanto a lui "Dobbiamo andare"
L' altro sembrò non sentirlo. Teneva lo sguardo fisso ormai da ore davanti a lui.
Non brillando per tatto o pazienza, lo scozzese lo prese per una spalla.
"A che pro?" chiese di colpo, con la voce rauca di chi non parlava da ore.
"Stanno chiudendo" rispose semplicemente l' altro, spingendolo dolcemente verso l' uscita. 
"Piove" constatò Arthur, senza nessuna sfumatura nella voce. Era totalmente apatico, e questa era la cosa che spaventava di più Ian: era dannatamente imprevedibile, come una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. E, conoscendo Arthur da sempre, sapeva che non ci sarebbe voluto molto. Era solo questione di tempo, e la desolazione che si ostinava a tenere celata si sarebbe mostrata. 
"Vuoi coprirti?"
"Va bene così"
Iniziarono a camminare lentamente, senza rivolgersi neanche uno sguardo, immersi nei loro pensieri.
 Ian sapeva fin troppo bene cosa significasse una rivoluzione di quella portata, su ogni livello: era quasi scontata da analizzare sotto il profilo economico, politico e quant' altro, ma nessun libro di storia aveva mai neanche tentato di riportare nero su bianco il dolore, la ferita profonda che causava a loro, che poteva continuare a sanguinare per sempre, senza mai sanarsi.
Da quel punto di vista, Ian era segretamente fiero, se non proprio orgoglioso, del suo profilo basso a livello internazionale: era un modo come un altro per preservarsi da tutto quell' infinito strazio.
Arthur, semplicemente, non pensava a niente. Si trovava in quella parte del trauma in cui si è completamente apatici, poco consci della situazione attuale, in cui ci si chede ancora se è davvero successo, e quindi in qualche modo consolarsi nella patetica illusione di un incubo troppo reale.
Arrivarono nell' appartamento dell' inglese quando ormai aveva iniziato a nevicare: piccoli fiocchi volteggiavano pigri, appoggiandosi mollemente su tutto, ovattando ogni superficie si cui si posavano, bianchi e candidi per pochi secondi, prima di fondersi con il nero, tanto reale quanto metafisico, del mondo.
"Siamo arrivati" disse, tanto per rompere il silenzio, Ian, mentre apriva la porta con la sua chiave.
L' inglese rimase imbambolato all' ingresso, con la bocca semi aperta, ad osservare tutto quello che vedeva, e a calcolare quanto poco gli interessasse.
"Ti prego, reagisci" pensò penosamente l' altro, guardandolo negli occhi senza essere ricambiato.
Lo avrebbe aiutato, era quasi inutile da pensare. Avrebbe passato anche il resto dei suoi giorni a consolarlo, se ce ne fosse stato bisogno. 
Scosse violentamente la testa, cercando un modo per sbloccare la situazione. Era sì abituato a tutto quello, me era la prima volta che lo trovava lucido: per la primissima volta, doveva trattare e almeno tentare di risolvere il problema direttamente, con l' onere della lucudità dell' altro, che rendeva le cose maledettamente dirette, come coltelli affilati che straziavano un corpo ormai in fin di vita ma ancora capace di sentire dolore. 
Lo prese per mano e lo fece sedere sul divano: aveva le mani ghiacciate, e si faceva condurre come un agnellino dalle sue, tremanti. 
Ian sentì chiaramente le lacrime salirgli agli occhi: era uno spettacolo che mai si sarebbe sogato di vedere, ed era davvero troppo per lui anche solo il provare ad immaginare cosa celassero gli occhi verdi dell' altro.
"Non sei tu che dovresti piangere" sussurrò l' inglese, che nel frattempo si era voltato a guardarlo, come se si fosse appena accorto della sua presenza.
"Lo so, perchè non lo fai tu allora?"
"Non ci riesco"
"Non riesci a reagire in nessun modo"
"Lo so, ma non devi piangere tu al posto mio"
"Piango per te"
"Sono diventato davvero uno spettacolo così penoso?"
"Non sono abituato a vederti in questo stato, devi riconoscerlo"
"Sono sempre stato bravo a fingere la mia forza"
Era disarmato di fronte al suo dolore, come se l' avesse peso e portato lontano, in un posto dove le parole del rosso arrivavano confuse e distorte, dove non arrivava la luce. Che cosa avrebbe dovuto fare per salvarlo, se non andare con lui in quella landa desolata? 
"La tua forza non era solo quella" rispose Ian cauto.
"No?" chiese sarcastico Arthur, aggrottando le sopracciglia "Eppure non riesco a non pensarci, a non pensare che ormai è finita, in tutti i sensi"
Quasi schiacciato da quella sua prima forma di confessione, il biondo si sdraiò sul divano, con la testa nel grembo di Ian.
"Non è così, e lo sai benissimo, anche prim-"
"Lo so?" lo interruppe bruscamente "Credi davvero che se lo sapessi sarei qui?"
"Dovresti capirlo"
"Se fosse così facile l' avrei già fatto"
"Probabilmente no"
"Che cosa vuoi dire?" sentiva che si stava innervosendo, e ciò lo rallegrava più del solito: significava che sentiva ancora qualcosa, e che la sua indifferenza era solo una cocciuta maschera che Ian era determinato a distruggere.
"Che sei, come tutti, autolesionista, e con uno strano senso dell' onore e del giusto. Quello che è successo ... Era solo questione di tempo e lo sapevi benissimo, dal primo giorno, come lo sapevano tutti"
"Ti sembra un motivo valido per non essere triste, comunque?"
"Non dirmi che ti ha sorpreso, conosci la storia meglio di me, ed è dannatamente ripetitiva"
"Non mi interessa sapere quante volte è già accaduto, è colpa mia se speravo sarebbe andata diversamente, almeno questa volta?"
Ecco, sentiva quella maschera di granito andare piano piano in frantumi. Sapeva che l' avrebbe odiato, ma non gli interessava particolarmente.
"A dirla tutta sì, è colpa tua, ma non potevi farci niente"
"E adesso cosa posso fare?" per la prima volta da quando avevano iniziato a parlare, sembrò guardarlo e vederlo davvero.
Ian sospirò, accarezzandogli inconsciamente i capelli.
"Puoi rialzarti" sussurrò, piano.
"Subito?" chiese in tono lamentoso l' altro, aggrottando le sopracciglia.
Nonostante tutto il rosso trovò buffo il suo tono e, per quanto la situazione non lo suggerisse, rise sommessamente.
"No, ma promettimi di farlo as soon as possible" 
L' altro sembrò pensarci su.
"Te lo prometto"
Ian sorrise, scorgendo un barlume di vita negli occhi verdi di Arthur. Gli prese dolcemente la testa e la spostò dalle sue gambe, ormai intorpidite.
"Dove vai?" chiese timoroso l' inglese, bloccandogli le mani con le sue, ancora gelate. Non glie diede tempo neanche di rispondere "Ti prego, resta" lo supplicò, quasi con le lacrime agli occhi.
"Non vado da nessuna parte" rispose calmo, sfiorandogli le mani con le labbra "Vado solo a prenderti una coperta, stai gelando"
Avvolto nella pesante coperta di lana, nella stessa posizione di pochi minuti prima, Arthur si sentiva avviluppato in una sorta di calma fittizia e potenzialmente percolosa, tenuta in piedi grazie al ragazzo che gli stava ancora accarezzando i capelli, dopo tutto.
"Mi racconti una storia?" chiese di colpo, facendolo risvegliare dal torpore in cui era piombato "Una delle tue" aggiunse, stringendosi ancora di più nella coperta, percorso da un brivido di freddo.
"Una delle mie" pensò quasi divertito Ian, cominciando a guardare fuori "Come se non le conoscesse tutte a memoria"
"C' era una volta un fiocco di neve" iniziò, notando solo in quel momento il tempo fuori "Che si era innamorato di una fatina dei boschi. Ogni notte la vedeva uscire dal fiore in cui riposava e sul quale si era poggiato settimane prima, e ad ogni alba pregava segretamente che il sole non splendesse troppo forte e lo sciogliesse, impedendogli di godere di nuovo, la notte seguente, di quel meraviglioso spettacolo, e pregava gli altri fiocchi di non intraporsi tra lui e l' oggetto del suo amore"
Fu interrotto da un lieve rumore sordo: Arthur si era addormentato.
Lo contemplò per pochi attimi, così fraglie senza la sua maschera di granito, così puro racchiuso nel suo fiore.
"Sleep, my dearest fairy" sussurrò, baciandolo leggermente sulla fronte. 
  
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