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Autore: Rota    14/02/2013    1 recensioni
Il russo sentì subito passi estranei che si avvicinavano, per nulla furtivi, alla sua postazione – non si mosse da lì e attese, senza nulla temere, che qualcuno si palesasse ai suoi occhi.
Il ritmo pesante e frettoloso di America l'avrebbe riconosciuto tra tanti altri, così differente da quelli di chi, pur pestando la terra dove cammina, ne conserva il rispetto dovuto ai vecchi compagni e ai vecchi amici, perché tempo ed esperienza non possono che legare il mondo stesso ai suoi abitanti. Così, quando Alfred si presentò a lui, sbucando da un lato del carro armato, Ivan lo guardò senza troppa sorpresa e non lo salutò, neppure quando quello con una mezza smorfia divertita sollevò il braccio e mosse la mano al suo indirizzo. Sembrava davvero che non badasse ad altro se non alla propria felicità e gioia: egocentrico come sempre.
-Avevo sentito che fossi qui. Ti stavo cercando.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Russia/Ivan Braginski
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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*Autore: Rota

*Titolo: (Take me to the magic of the moment) On a glory night

*Fandom: APH - Axis Powers Hetalia

*Personaggi: America/Alfred F. Jones, Russia/Ivan Braginski,

*Generi: Sentimentale, Introspettivo, Drammatico

*Avvertimenti: What if...?, Shonen ai, One shot

*Rating: Giallo

*Credits: Wind of Change – Scorpions

*Note: Ascoltando questa canzone meravigliosa ho pensato a lungo e mi è venuto in mente questo, in particolare. D'altronde, si parla della caduta del Muro di Berlino sempre e comunque, volevo solo trattarla nella visione del mio pair preferito.

Ci sono vari riferimenti storici sparsi qua è la, come il disastro di Chernobyl o la politica estera del governo di Gorbaciov e della sua politica estera, passando anche per elementi sfusi sulla Rivoluzione agli inizi del secolo scorso. Niente di troppo complicato ma che mi è piaciuto mettere per dare un contesto più concreto al mio tutto.

Spero sia per tutti voi una buona lettura (L)

 




 

 

 

 

 

 

 

 

 

Take me to the magic of the moment
On a glory night
Where the children of tomorrow dream away
In the wind of change

 

 

Tutta l'aria di Berlino puzzava di fuliggine e di polvere, con l'odore palese del cemento sbriciolato e del calcinaccio acre che si appiccicava ad ogni superficie, tra vivi e non, mobili e immobili. La fragranza del ferro distrutto, piegato tra mattoni e macerie, arrivava solo dopo, nel retrogusto di una degustazione obbligatoria. Nessuno però invocava l'arrivo della pioggia purificatrice: quella sarebbe stata la memoria del futuro, l'avvenire stesso, e tutti volevano parteciparvi fors'anche solo per cinque secondi, pochi istanti rubati al corso naturale e giusto della Storia. Gioia era, irrefrenabile e contagiosa – peggiore, nella mancanza di discrezione che le permetteva di arrivare ovunque e in qualunque luogo, qualsiasi sciagura.

C'era anche un solo e unico rumore lontano, che rimbombava tra i detriti sparsi sia dall'una che dall'altra parte, scorrendo e rotolando persino tra le fessure delle mattonelle della lunga piazza.

Era il piccone testardo di Gilbert che non aveva ancora smesso di distruggere nonostante l'arrivo, quella stessa mattina, dei carri demolitori e di tutti gli addetti al mestiere; le macchine si erano addormentate con la notte, fredde nel cuore e nella scorza, ma la calda fame della gente non si era accontentata di sogni qualunque e aveva continuato a rodere, crepa dopo crepa, i resti di quel muro tanto maledetto.

Era la pala testarda di Ludwig che non si era ancora stancata di scavare terra e macerie, pezzi di calcinaccio assieme a pietre bianche, nonostante la graduale maggiore ampiezza di tutte quelle falle, del passaggio sempre più grande che permetteva ad ogni tedesco di guardare altri tedeschi; sasso per sasso, anche per il più piccolo granello ma costantemente, il popolo dell'Ovest nel suo rappresentante corrodeva quella terra tanto maledetta fino alla vera rinascita splendente.

Mauerspechte, che non si sarebbero mai accontentati di qualche porta aperta con grazia, non dopo tutti quegli anni di dolore: a costo di consumarsi persino l'animo, avrebbero distrutto ogni barriera eretta.

 

Quando si mise le mani in tasca – la prima volta dopo diverse ore – Ivan si accorse di aver perso i guanti. D'istinto girò lo sguardo attorno a sé, per terra e altrove, ma si rese conto in pochi attimi di quanto la sua preoccupazione fosse vana e inutile: caduti chissà dove e chissà quando, si erano sicuramente persi anche loro, assieme a tutte le altre sensazioni negative e al tremore leggero che gli aveva preso le membra al primo mattone caduto del primo di quei picchi tanto eroici, tanto disperati e tanto coraggiosi: lui non aveva potuto vederlo, altrove e con altri impegni politici e sociali, ma aveva sentito chiaramente il battito diverso del proprio cuore sensibile – lo stesso che lo aveva aiutato, neppure cento anni prima, a rifugiarsi in un armadio quando il suo popolo inferocito aveva varcato i cancelli del Palazzo di Pietrogrado e aveva preteso per sé il giusto.

Non si era più nascosto, non era più scappato: era corso a Occidente con piedi volanti che solo una Nazione, nel sentire condiviso della propria gente sparsa in ogni dove nel Mondo, poteva possedere, e aveva visto impotente e immobile le ruspe, aveva visto i carri e aveva visto gli uomini, tutti uniti e tutti uguali, nel sorriso umano che cancellava ogni senso e ogni traccia di provenienza. Aveva impiegato quasi tutta la giornata per capire la natura del sentimento che aveva chiuso a groppo stomaco e trachea, mettendolo in uno stato di infermità persino peggiore di quello che era riuscito a raggiungere in quel suo misero e terribile ultimo periodo, tra Chernobyl e tutti i suoi profughi. Non si era molto preoccupato della gente che non lo aveva riconosciuto, quando si era tolto i guanti e aveva chiesto, con dita protese e ferme, un piccone anche per sé: tenuto stretto quel sentimento, non aveva più conosciuto fatica.

Era colpa di Gorbaciov, ma lui non poteva farci nulla: se le cose andavano in un certo modo, la colpa ricadeva sulla volontà umana – ed essere felice perché, una volta ogni tanto, la volontà creatrice e distruttrice era stata condivisa e comune in un popolo che aveva riconosciuto subito l'abbraccio fraterno, non gli pareva poi così sciocco e meschino.

Fece qualche passo e cercò, con gli occhi stanchi e rossi per la polvere, un posto dove potersi sedere. Lasciò cadere a terra il proprio attrezzo senza preoccuparsi minimamente di vedere dove andava o come colpiva il terreno, più attento al suono strascicato dei propri passi che a tutto il resto. Qualcuno parlava ancora, un soldato con la divisa dell'Est accerchiato da vagabondi dai vestiti a stracci, tutti racchiusi attorno ad un fuoco provvisorio fatto con qualche pezzo di cartone e poco legno. Non si voltò a guardare i loro volti ma depose le proprie membra al riparo da ogni sguardo umano, sotto la canna lunga di un carro armato, contro le ruote cingolate e immobili.

Restò fermo qualche secondo, a calmare i battiti del cuore e i muscoli che, tesi, continuavano negli spasmi dovuti alla fatica continuata. Alzò le mani al viso e vide le piaghe e le ferite sulla pelle, le unghie sporche di terra e una striscia nera, probabilmente sporco di qualcosa di diverso, che dal palmo scendeva oltre il polso e finiva dentro la manica del cappotto che tutto lo copriva. Nascose il viso, come un bambino, dentro la propria sciarpa, e si concesse il lusso di socchiudere gli occhi. Era stanco e sentiva secca persino la gola, in fondo, incapace finamai di ingoiare saliva liquida.

Chiuse le ginocchia in un abbraccio molle, atto soltanto a racchiudere tutta la sua persona nel minor spazio possibile con la minor dispersione di calore; benché l'inverno tedesco non fosse paragonabile a quello di casa, trovava poco piacevole il vento che gonfiava i vestiti e si intrufolava in ogni dove, regalando non altro che brividi e fastidi.

Aveva la testa pesante, abbastanza da inclinare tutto il corpo di lato e appoggiarsi di peso al metallo contro la sua schiena. Ma non era gravato da quel tipo di stanchezza che accompagna al sonno, quanto piuttosto alla spossatezza derivante da una sequenza di eventi troppo veloci, troppo improvvisi, che colgono di sorpresa persino una delle vecchie Nazioni europee e la lasciano sfinita al suolo, col solo desiderio di un po' di vodka e magari un bel sigaro tra le labbra. C'era soddisfazione anche nel considerare il lavoro svolto, e nella sua pragmatica praticità Ivan si accontentò di quello.

Si strinse quindi nelle proprie spalle e guardò in alto, a quell'unico cielo che copriva l'intera Berlino. C'erano tante nuvole, troppe per riuscire a contare più di dieci stelle, undici a essere fortunati, ma ogni tanto si apriva, nel grigio, qualche sprazzo di blu intenso e si intravedeva il riflesso di una luce opaca, non distante. Anche quello era un muro attraverso le cui falle filtrava la carezza della luna per tutti, tutti i suoi tedeschi.

Ivan non sorrise: si accontentò dello sfavillio degli occhi chiari.

 

Il russo sentì subito passi estranei che si avvicinavano, per nulla furtivi, alla sua postazione – non si mosse da lì e attese, senza nulla temere, che qualcuno si palesasse ai suoi occhi.

Il ritmo pesante e frettoloso di America l'avrebbe riconosciuto tra tanti altri, così differente da quelli di chi, pur pestando la terra dove cammina, ne conserva il rispetto dovuto ai vecchi compagni e ai vecchi amici, perché tempo ed esperienza non possono che legare il mondo stesso ai suoi abitanti. Così, quando Alfred si presentò a lui, sbucando da un lato del carro armato, Ivan lo guardò senza troppa sorpresa e non lo salutò, neppure quando quello con una mezza smorfia divertita sollevò il braccio e mosse la mano al suo indirizzo. Sembrava davvero che non badasse ad altro se non alla propria felicità e gioia: egocentrico come sempre.

-Avevo sentito che fossi qui. Ti stavo cercando.

Alfred si avvicinò tanto da potersi chinare a terra e sedersi accanto a lui, con qualche mossa sgraziata e un paio di sbuffi di troppo – a quanto pareva, anche lui era piuttosto stanco, nonostante l'apparenza splendente.

Gli sorrise apertamente quando tornò a parlargli, con gli occhi fissi nei suoi, con voce meno squillante del normale ma non per questo meno forte.

-Non credevo di trovarti. Almeno, non così presto.

Ivan non volle commentare l'ironia di una frase del genere, perché non era né il tempo né il luogo, e le sue dita tremavano ancora, nonostante le avesse chiuse in una stretta ferrea e le avesse nascoste sotto le ginocchia. Scosse allora la testa e gli rispose con un muto, prolungato silenzio; neppure il cuore ebbe qualche colpo di troppo, si limitò ad andare avanti seguendo il naturale ritmo.

Alfred però non gli permise di andarsene.

-Beh, era ora che accadesse!

Guardava ancora il muro – e gli mostrava, pieno di entusiasmo e di orgoglio, i guanti sporchi di macchie di cemento. America, che era un bambino nell'animo e si lasciava trasportare dalle emozioni del momento, senza quel tatto giusto e rispettoso che avrebbe dovuto frenarlo, almeno di fronte a così evidenti ferite del proprio interlocutore. Russia non scomodò la propria rabbia e guardò ciò che l'altro gli porse, invidiando un po' le mani nascoste, ancora integre e compatte, avvolte in un caldo di pelle scura.

Si strinse nelle proprie spalle e guardò a propria volta il muro.

Il rumore del piccone non era ancora cessato, ma da quella distanza si sentiva ancora più ovattato, ancora più lontano. Ivan ebbe qualche fatica a riconoscerlo, tra tutti gli altri suoni più vicini, e si chiese se l'udito, oltre che la vista e ogni altro senso, oltre che la mente e l'equilibrio che la reggeva a stento, non fosse peggiorato ancora.

-Gilbert deve essere stato molto felice della cosa! Me lo immagino!

Fu il ricordo, più che l'immaginazione, a occupargli il pensiero a quelle parole, pronunciate come una formula magica con una leggerezza d'animo invidiabile, terribile e allo stesso tempo verissima – Gilbert non aveva mai occupato più di tre stanze nella grande casa che era l'Unione Sovietica, per ricordare a tutti e specialmente a se stesso il proprio stato di prigioniero, di indesiderato e riluttante ospite in una dimora non apprezzata affatto, neppure per un secondo della propria esistenza; e quella finestra da cui guardava l'esterno, con occhi fissi e il corpo fermo, rifiutando persino una sedia diversa dalla propria dove poter riposare la schiena o le gambe. Distrutto nell'orgoglio e nell'integrità.

No, per quanto l'avesse bramato, assieme a quel concetto di pace e di perfezione che lo aveva legato all'idea fondante della propria Rivoluzione e del proprio cambiamento, Ivan seppe in quel momento con più chiarezza che mai che il tedesco non era mai stato veramente suo.

Allora riuscì anche a rispondere ad America, con uno sbuffo di condensa.

-Sì, lo è stato.

L'altro rise appena e nella felicità gli colpì, con il palmo della mano, un ginocchio esposto.

Guardarono entrambi quel punto, per qualche istante, prima che uno si ritirasse dimentico nell'istante di ogni fervore e l'altro si chiudesse di nuovo tra le proprie braccia, la bocca e metà del viso nascosta da una rosa sciarpa spessa.

 

Nel silenzio che accompagnò il soffio del vento tra i cumuli di polvere, comparve da dietro il carro un uomo in divisa, rosso per il freddo sul volto e sul naso acuminato. Si stringeva in una giacca logora e scura, ma ancora brillava negli occhi e nell'espressione spossata.

Disse qualcosa velocemente e allungò verso Alfred una bottiglia – questi sorrise, fece un'esclamazione più che gioiosa in inglese e accettò il dono, stringendolo forte nel guanto. L'uomo restò lì giusto quei tre secondi per appurarsi che America bevesse e gradisse la birra offertagli, poi fece un cenno con la testa e tornò sui propri passi, abbandonandoli a loro stessi; probabilmente aveva pensato che anche gli stranieri meritavano qualcosa che li scaldasse, di buono, che riempisse lo stomaco e l'animo: piccole cose che Ivan non poteva fare a meno di notare, specie in quella situazione.

Alfred scolò metà bottiglia prima di staccarsene e porgerla all'altro, con le labbra ancora lucide. Russia non si mosse neanche un poco, continuò a fissare il vuoto come se non ci fosse nulla più interessante di quello, e allora l'altro capì il suo diniego.

Però, quando depose l'oggetto di vetro tra di loro, chinandosi verso il carro in modo tale da appoggiarcisi contro di fianco, sul fondo c'era ancora abbastanza liquido per un sorso abbondante. Sì premunì persino di pulirsi il viso con la manica del giubbotto, e lasciò sulla propria guancia una striscia di colore scuro che gli dava un'aria ancora più da idiota. Per quel motivo, Ivan finalmente sorrise.

-L'eroe ha vinto.

Alfred si aprì in una risata decisamente poco discreta e sì, in quel preciso momento si concesse il lusso di essere megalomane, egocentrico, fastidioso, forse ancora più del solito. Fu molto liberatorio poterlo fare, dopo tutto quel tempo – ancora sporco di fatica e di polvere.

-Sì, ho vinto questa lunga e sanguinosa battaglia!

Russia annuì con semplicità, ma non gli staccò gli occhi di dosso neanche un istante.

-Hai vinto.

Un lembo di sciarpa rosa scivolò a terra quando Braginski mosse le spalle, cercando di liberarsi almeno in parte del freddo che lo stava prendendo, percorse la linea delle braccia e poi si gettò nel vuoto finendo tra le pietre nere e piccoli sassi. Ivan la guardò qualche istante di troppo, prima di muoversi, e già quando stava cominciando a muoversi le dita di Alfred ne avevano stretto un angolo tra i polpastrelli, sollevandolo a mezz'aria e avvicinandolo al proprio corpo.

Russia non aveva fatto trasparire la minima tristezza, né nel proprio sguardo né nei propri gesti: per quanto doloroso fosse persino stringere qualcosa tra le dita, camminare per così tanto tempo e sentire il sangue impregnare la suola delle proprie scarpe, poteva vantare un'abitudine al sopruso che l'aveva reso resistente e insensibile all'auto compianto. Nella più radicale delle mentalità di cui poteva disporre, terra gigante dalle mille culture intrinseche ma un unico cuore palpitante, prendeva le fatalità così come venivano – per quanto annullassero i suoi sforzi, per quanto capitassero nei momenti peggiori.

Contro certe cose, non poteva fare proprio niente. E allora evitava di preoccuparsene troppo o di dolersene in maniera eccessiva.

Per questo si meravigliò nello scorgere quel velo non di compassione, non di pietà, ma di emotività inaspettata. Fu il bagliore e il lampo, negli occhi giovani della Nazione, ma capitò proprio nel momento in cui la notte che li avvolgeva, così scura e densa, cessava ogni alito di vita e li isolava nel suono, nell'odore e in ogni altro senso, rendendoli proprietà solo di loro stessi – e innalzando l'attenzione alle loro persone, senza altro.

Batté il cuore, fin nelle orecchie, in un rimbombo assordante che fece male e fece bene allo stesso tempo, indescrivibile in alcuna lingua del mondo.

 

-Cosa farai, ora?

Non fu la domanda crudele di un bambino inconsapevole, quella: di norma, cose del genere le faceva lui, senza rimpianti e senza troppi pensieri, come rigirare il coltello in una piaga infetta più e più volte, soddisfacendo un gusto sadico che poco aveva a che fare con l'umano.

Alfred sapeva diverse cose, poiché causa di molte di esse.

La sciarpa che teneva ancora tra le dita era il frutto di quell'unica unione pacifica che aveva interessato Russia, fin dalla sua creazione, qualcosa di simile all'affetto vero e proprio. Ma in quel momento Ucraina giaceva in un letto, coperta di piaghe, a maledire la sorte che le aveva affiancato un fratello tanto degenere che non sapeva fare altro che umiliarla, ferirla, torturarla. Ma in quel momento Bielorussia, pazza e più pazza di lui in un fanatismo cieco, si disperava in egual misura sotto i primi strappi che la rivolta aveva portato e che annullavano la potenza di quel grande sogno, lo sminuivano e lo rendevano sterile.

Le stesse sue paure e angosce – Ivan non dormiva ormai da parecchi giorni un'intera notte: ogni ora di incubi era piena, di sogni spezzati e affannosi, con grida e sangue e pallottole e fumo, tanto fumo. Missili che scoppiavano.

Si era chiesto più volte come fossero arrivati a una tale degenerazione, ma non aveva avuto il coraggio né la prontezza di darsi una giusta risposta, perché nelle orecchie aveva le voci di quelli che lo spronavano ad andare avanti, sempre e comunque, immuni al passato e alla sofferenza che la sua ignoranza arrecava.

Non solo Gilbert, ma i baltici e tutti gli altri non avevano indugiato un solo istante ad abbandonare lui e la sua rossa bandiera. Il coraggio per chiamarlo ancora “sogno” l'aveva disperso da qualche parte, in un posto dimenticato e freddo.

Volle però rispondere, per non lasciar cadere il discorso nel silenzio più totale, ancora una volta dopo tante altre.

-Non lo so.

L'altro fece una specie di sogghigno, come se la domanda che stava pronunciando non avesse poi chissà quale peso. Bugiardo: aveva imparato fin troppo bene l'arte della simulazione e dell'inganno, per quanto le sue parole brillassero di luce propria e invincibile, ormai.

-Continuerai a guardarmi?

Sempre, sempre Ivan lo aveva guardato e sempre, sempre Alfred aveva ricambiato il suo sguardo. Un'intera farsa, quella cosa che loro giocosamente avevano chiamato guerra, si era basata su questo scambio silenzioso ma duraturo, intenso. La paura che uno o l'altro potesse prevalere, il terrore di doversi piegare, col capo e con l'orgoglio, a ogni cosa imposta dall'altrui volontà. E per questo, votare ogni cosa alla morte.

Ma America era bello, come sempre.

Gli sorrise, dietro la propria sciarpa.

-Penso sia inevitabile, America.

Anche l'altro gli sorrise, tirando quel lungo lembo rosa – perché fosse di nuovo suo e non provasse a scappare, né tra i propri pensieri né altrove. Gli occhi di Ivan si piegarono, per qualche istante, alla sua volontà.

-Non hai mai smesso di farlo, vero?

Annuì e basta, alzando di poco le spalle, perché non c'è proprio bisogno di altra risposta oltre che quella.

 

Il piccone e la pala avevano smesso di produrre rumore; al loro posto, si erano levati canti, di donne e di uomini, perché la notte non fosse mai sola ma, accompagnata dai rumori della gente unita, restasse sveglia, vigile, di fronte al cambiamento in atto: non doveva perdersene un solo istante. Per quanto la lingua tedesca fosse rude e secca, intonò nella brezza una melodia dolce, allegra, che sapeva di speranza e di gioia.

Ivan chiuse gli occhi, cercando di sentire le parole al di là del vento – riuscì a stento a percepire qualche pezzo di frase ma nulla più, niente di davvero significativo.

Nel riaprirli, trovò lo sguardo di Alfred ancora puntato sulla sua persona. Indagava, o voleva farlo, per scorgere da qualche parte segni che non fossero di smussata arrendevolezza chiusa nel contegno e nella calma spossata, non sapeva se per sfida o semplice constatazione. Non era uno di quei tipi che si arrendevano facilmente, neanche con la vittoria già tra le mani.

E lui non era pronto per lottare ancora.

-Sono stanco, America.

Alfred indicò con un cenno del capo il suo corpo sporco e sì, gli diede evidente ragione.

-Lo so.

Non lo vide ma lo sentì sorridere, con una di quelle espressioni fredde che non gli erano proprio mancate. Neanche in quel momento certe abitudini lo abbandonavano: doveva essere questione di carattere, se l'attitudine all'indifferenza non lo abbandonava neppure in quel caso.

-Tu non lo sei per niente?

Lui sbuffò e alzò le spalle, si diede un tono e mosse i muscoli davanti ai suoi occhi vigili – e fu così chiaro che stesse per mentire che a Ivan non servì neanche ascoltare la sua risposta, per capirlo da sé.

D'altronde, una battaglia non si combatte da soli, ed era stato sempre lui il suo nemico.

-Solo un po'. Ma non tanto.

Lo vide giocare ancora con la propria sciarpa, farla passare tra le dita e girarla e rigirarla più volte. Si domandò se fosse davvero così divertente da poterci spendere tutto quel tempo. A lui non serviva prestarci tanta attenzione, per darle la giusta importanza: era sempre allacciata al suo collo e da lì non era mai stata tolta. Però, nelle mani di Alfred, fu come se acquisisse di nuovo un'antica e incredibile importanza; distratto da altro, non aveva badato all'essenziale, quello che non si poteva staccare proprio dal corpo.

Dovette per forza riempire la testa con qualcosa – e quindi parlò.

-Cosa farai, ora?

Gli sorrise senza mettere altro sulle labbra e si sistemò meglio contro il carro armato. Finalmente si parlava di lui, finalmente si parlava dell'eroe assoluto.

-Raccoglierò i frutti della mia vittoria!

C'era entusiasmo nella sua voce, totale abbandono alle sensazioni positive. Ed era giusto, in qualche maniera, perché quello l'aveva conquistato con le unghie e con i denti. Per non soccombere, Ivan si lasciò riempire dalla sua luce ambigua.

-Cosa ti farà dire che ne è valsa la pena?

Si arrischiò persino a sorridere, seppur mesto e senza esagerazione.

-La vittoria stessa vale già tutto, è evidente.

-Quindi, vale anche questo.

Col capo, indicò il muro – col capo, Ivan indicò sé stesso, anche se non osò neppure a quel punto far vedere le mani e le piaghe terribili che ne deformavano la pelle. Non voleva ispirare più pietà di così.

Alfred divenne serio, a quella domanda, e non scherzò più.

-Sì, anche questo.

Altra pausa, altro silenzio spossato.

Il russo si riempì di nuovo la bocca di quella parola che, all'origine, era quasi sinonimo di speranza di bellezza: quanti dei suoi, quanti dell'Europa vecchia tutta, avevano solcato i mari per raggiungere quel sogno incredibile. Solo il nome, di Alfred, era una promessa bella, e quella era una delle tante cose che aveva dimenticato col tempo, a lungo andare.

Provò un po' pena per se stesso.

-America.

-Sì, Braginski?

Ivan non capì a propria volta come mai ne sentì il bisogno, ma dover ripetere un dettaglio in particolare gli prese le labbra e tutto il resto del corpo; si strinse tra sé piegando ancora le ginocchia contro il petto e stringendo tra le cosce e i polpacci le dita infreddolite.

-Sono stanco. Ho lavorato tutta la sera su quel muro.

-Tu non smetti mai di sognare, vero?

-A casa mia, le notti sanno essere molto lunghe. E noi tutti abbiamo bisogno di compagnia.

Aveva sorriso – e Alfred aveva visto il suo sorriso, negli angoli della bocca che si erano alzati, sul viso, piegando le guance e rendendo brilli gli occhi. Si protese in avanti, prima di chiamarlo con un filo di voce; l'altro lo sentì, ma giusto perché era troppo vicino a lui, in quel momento.

-Braginski?

-Sì, America?

 

Gli sembrò che volesse colpirlo, dandogli un colpo forte con la testa – si accorse solo all'ultimo momento, quando era tardi per calibrare una reazione diversa, che si stava sbagliando. Lo tennero fermo non tanto la presa dell'altro sul proprio cappotto logoro o le dita serrate attorno al tessuto scuro, ma la mortificazione di aver sbagliato ancora e il fiato caldo che Alfred gli respirava contro, così vicino alla pelle del viso. Dopo si accorse delle labbra, dopo della lingua e dei denti. Si lasciò schiacciare, dal suo peso, contro il metallo del carro armato, e rabbrividì per il freddo. Alfred alzò le mani al suo volto e ne prese il mento con i palmi, in una carezza che aveva solo il principio di tenerezza. Tremava anche lui nel stringerlo, affondando quasi le dita nelle sue guance scavate e magre; Ivan reagì e si liberò dalla sua presa e dal suo bacio con uno strattone che mandò America via, a sedersi di nuovo sul terreno di cemento grigio. Il cuore del russo batteva, batteva ancora, e le sue mani piene di piaghe erano alte nel vuoto, perfettamente visibili.

Come in precedenza, Alfred si allungò verso di lui e, occhi negli occhi, si mosse affinché ogni gesto fosse recepito dall'altro, e non per chiederne permesso o consenso, ma solo per renderlo consapevole della sua volontà e delle inevitabili conseguenza di questa. Ivan non aveva possibilità di andare via.

Sedette sulle sue cosce e prese, sotto le mani, il collo sensibile, almeno quella parte che era stata liberata dalla sciarpa quando Braginski si era mosso in modo brusco. Non strinse – e al di là della pelle del guanto, riuscì a sentire una sorta di calore umano.

Ivan schiuse le labbra prima che l'altro glielo chiedesse con quello stesso sguardo con cui era riuscito ad avvicinarlo. Brillava, in quell'azzurro, nell'alba tenace che segue sempre, sempre la notte. E Braginski ebbe di nuovo la conferma di quei giorni: era lui, era Alfred il vincitore. Andò incontro alla sua bocca, si lasciò schiacciare ancora contro il carro armato dietro le sue spalle, gli permise di toccargli i capelli e di penetrarlo con la lingua, respirò dalla sua bocca e inalò ogni odore, con il bacino stretto fino al dolore dalle sue spigolose ginocchia.

Quando le mani di America scesero al suo petto, toccando sotto il cappotto e i vestiti, non si stupì molto nel sentirlo sospirare: batteva, batteva ancora.

In battaglia non si pensa mai al dopo, non allo sconfitto né alla sua sorte – non lo faceva l'eroe, troppo attento ad altro. E Alfred era uno stupido, teneramente illuso che bastasse vivere l'attimo del termine per sopravvivere alla guerra tutta. L'inesperienza di quella Nazione si vedeva completa in atteggiamenti del genere e solo il tempo, solo il dolore e la pietà altrui l'avrebbero corretta.

La mano di Jones restò a quell'altezza sul suo petto abbastanza tempo per fargli capire che non se ne sarebbe allontanato più, almeno fino a che rimanevano uniti. Ivan aprì gli occhi e si ritrovò fisso il suo sguardo addosso, come sempre. Gli prese la mano libera con la propria mano, senza più alcun indugio, e intrecciò le dita fredde con le sue; America reagì portandogli il polso contro il carro, in un colpo rumoroso e secco; non era violenza e probabilmente neanche passione lasciva: la riconferma di una proprietà e di un'appartenenza imprescindibili, al di là del loro status di Nazioni e nemici. Come Alfred, come Ivan.

Ed era proprio ciò di cui Braginski, l'uomo, il sognatore, il decadente, aveva bisogno per coronare la perfezione di quell'unica, ultima notte.

Strinse la sua mano, aspettando, senza impazienza e senza fretta nel gesto, che le prime luci dell'alba li interrompessero e li dividessero.

   
 
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