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Autore: minerva74    16/02/2013    10 recensioni
Poi.
Poi la colluttazione.
Moran aveva reagito come una belva.
Non aveva immaginato che l’ex colonnello dell’esercito avesse un’altra arma nascosta dietro la schiena.
Che fosse così lesto a tirarla fuori mentre lui cercava di disarmarlo.
Che John si trovasse sulla linea di tiro.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Non poteva. Non poteva essere vero, aver compiuto quel clamoroso errore. Non era contemplato, né permesso un fallimento, o una parziale vittoria nel suo inappuntabile schema risolutivo.
Ma era accaduto.
E ora c’era un corpo sotto un lenzuolo, ingabbiato da fili e tubi. Fuoriuscivano dalla carne come rami, liane di una pianta misteriosa che era cresciuta dentro il suo ospite, che adesso ne aveva preso possesso togliendogli la vita.
Il neon bianco disegnava ombre sfocate sul pavimento, là dove avrebbe dovuto esserci la sagoma del letto. La terapia intensiva era un ambiente senza tempo. Un mondo a parte, dove la speranza e la morte si mescolavano con il fruscio di passi stanchi e di lacrime soffocate. Un luogo sospeso, privo di luce, di aria, di colori, di suoni.
C’era solo il lieve sibilo dei macchinari, leggero come il soffio di un bambino su una torta di compleanno. Il monitor disegnava verdi arabeschi, simboli di una vita che sfumava. Il beep del cardiografo era un lamento e insieme una speranza. Una speranza talmente evanescente da essere irragionevole.
Una vita che, nonostante tutto, restava attaccata a quel corpo.
 
Lesione del polmone. Emorragia interna. Arresto cardiaco. Respirazione assistita.
“Il cervello è andato in anossia. Non sappiamo se e quali danni abbia riportato.”

 
Sherlock conficcò i denti nelle dita chiuse a pugno. Come era stato possibile? Come?
 
“Un giorno, sarai punito per la tua arroganza. Compirai un errore cui non sarà possibile porre rimedio. Allora capirai cosa significa provare rimorso.”
 
Sherlock prese un profondo respiro,
Chi lo aveva detto? Era stata sua madre, molto tempo prima.
L’odore di disinfettante misto a quello secco del sangue si arrotolò attorno a lui. Lo avvolse, lo costrinse a scostare le coltri per controllare la ferita, come aveva già fatto cinque o sei volte da chè era giunto in ospedale.
No. John non sanguinava. E non rispondeva, non parlava, non reagiva.
John Watson era chiuso nel suo bozzolo di carne, un corpo inutile e ferito. Era perso da qualche parte, in quel cervello danneggiato. Una stanza senza porte o finestre in cui era prigioniero.
Stava lì, gli occhi chiusi, il petto coperto dalle bende. L’ossigeno che nutriva il suo cervello e sosteneva il corpo. Il drenaggio che succhiava via il sangue dalla ferita.
Sherlock allungò le dita. Gli sfiorò incerto il dorso della mano. Era fredda, deturpata dagli aghi che penetravano in profondità nella pelle. Un livido nero stava affiorando sottopelle.
Avrebbe voluto stringerla.
Distolse lo sguardo. Con le dita strette a pugno tornò ai piedi del letto. Sentiva freddo, ma era un gelo che non aveva nulla a che fare con la temperatura esterna. La giacca del suo abito era stropicciata, sporca in più punti, ma lui non se ne curava.
Oltre il vetro, Mycroft lo stata scrutando. Lo sentiva. Poteva sentire lo sguardo del fratello sulla schiena, carico di rimprovero. E di compassione.
Come quella che aveva scorto, quando era giunto al numero 19 di Baker street. Quando John era per terra, su una barella, con due paramedici che cercavano di far ripartire quel cuore strapazzato, e lui masticava passi e disperazione sul marciapiede, trascinato via da Lestrade.
Non doveva andare così.
 
 
La casa era deserta.
Sherlock aveva scambiato un fugace sorriso con John. Non importava che lui lo avesse picchiato, quel pomeriggio, che gli avesse detto che era un maledetto bastardo, e che non lo avrebbe mai perdonato per quello che gli aveva fatto.
Eppure erano di nuovo insieme. Avrebbero avuto tempo per chiarirsi, per chiedere scusa, per spiegare. Sherlock era pronto a fare tutto questo. L’avrebbe fatto, sapeva che era giusto farlo, perché nella sua vita c’era solo una persona che meritava il suo rispetto.
L’unica persona che lo avesse accettato per ciò che era.
Quasi senza pensarci, Sherlock gli aveva stretto il polso, tirandolo verso di sé, nel buio della stanza deserta.
Aveva indicato la lama di luce che balenava dalla porta socchiusa. Aveva sentito il suo odore del dopobarba comprato da Boots, la fragranza del gel per capelli.
I passi di Sebastian Moran avevano smesso di essere un’eco confusa per trasformarsi in un suono definito e minacciosa. Dentro di sé, Sherlock era perfettamente calmo. La gioia di aver rivisto John, di essere accanto a lui… amico, fratello, compagno della parte migliore della sua esistenza lo aveva placato di colpo. Il mondo era tornato nel suo assetto normale.
Anche se la mandibola gli doleva. Anche se la rabbia di John gli aveva fatto più male di quanto volesse ammettere. Ci sarebbe stato tempo per chiarirsi, per spiegare, si era detto. Lo avrebbe ascoltato.
Lo avrebbe perdonato.
Moran era arrivato. Felino, letale, si muoveva quasi senza guardare i pezzi della carabina. Un cecchino che era una cosa sola con il suo fucile. L’aveva accarezzata con la passione di un amante che conosce il corpo dell’amato.
La sua arma era l’unica che non avrebbe potuto tradirlo o abbandonarlo. Non come era accaduto con Jim Moriarty.
Poi.
Poi la colluttazione.
Moran aveva reagito come una belva.
Non aveva immaginato che l’ex colonnello dell’esercito avesse un’altra arma nascosta dietro la schiena.
Che fosse così lesto a tirarla fuori mentre lui cercava di disarmarlo.
Che John si trovasse sulla linea di tiro.
 

 
Non esisteva nessun Dio. Nessuna potenza superiore.
Non esisteva, non poteva esistere, se permetteva a una persona buona come John Watson di morire in quel modo.
Sherlock respirò tra i denti. Sentiva le mani contratte, le spalle rigide per la tensione. Quando gli era accaduto di provare un simile malessere?
Tre anni prima. Sul tetto del Saint Bart.
Non c’era nulla che potesse fare.
Lo sapeva.
Poteva solo attendere.
Eppure una volta aveva detto a John che era inutile soffrire al capezzale di un morente.
Non si poteva trarre conforto dal vedere una persona cara spegnersi lentamente. L’impotenza strappava le carni dalle ossa, lacerava la mente; ma c’era una sorta di strana, perversa consolazione. La sofferenza di chi resta è una sorta di contrappasso per la vita, pensò. Un pagamento anticipato.
Vedere una persona che ami andare via e non poter far nulla per fermarla. Dare la propria vita in cambio, pur di arrestare quella sofferenza. Pur di strappare un’oras, un minuto in più. Un ultimo abbraccio. Una parola. Almeno uno sguardo.
Ma la morte non accetta lo scambio.
Ecco cosa era l’impotenza. Ecco cos’era ciò che Sherlock Holmes non avrebbe mai potuto impedire.
Chiuse gli occhi. La parte cosciente del cervello aveva registrato l’idea che quel corpo era al limite delle forze. Che aveva perso troppo sangue. Che aveva in corpo due trasfusioni. Che il cervello avrebbe potuto riportare danni irreparabili. Che John Watson era poco più di un nome, e che presto sarebbe stato un ammasso di tessuti e ossa. Che nulla di quella persona coraggiosa e leale sarebbe rimasto, se non il suo ricordo.
Qualcosa al centro del petto, però, si ribellava. Era una forza tenace e sconosciuta, che si rifiutava di lasciarlo andare, di ammettere che, se fosse sopravvissuto, nulla sarebbe stato più come prima. Quel dolore senza nome imprecava, e urlava e si dibatteva, e gli mordeva le viscere fino a causargli una sofferenza fisica.
Sherlock sollevò gli occhi verso la parete. Allungò la mano dinanzi a sé.
Tremava. Ed era ancora sporca di sangue.
 
 
“Non puoi, non adesso” aveva urlato Sherlock.
John era a terra, il corpo inarcato dal dolore. Si era lasciato cadere accanto a lui, mentre Moran ringhiava  e rideva, portato via da Lestrade
“Visto? Gli amici proteggono gli amici” gli aveva detto John in un soffio. E aveva riso. “Stavolta sono io a terra.”
Sherlock lo aveva tastato. Il petto era caldo, vischioso, coperto dal sangue che dilagava nella camicia e fra i suoi abiti.
John lo aveva stretto per il braccio. L’impronta di quella presa convulsa sarebbe rimasta marchiata a fuoco sulla pelle per l’eternità. “Guardami” gli aveva chiesto, le labbra contratte dal dolore. Lo aveva tirato verso di sé. “Non lasciarmi solo” gli aveva sussurrato. Stava per mettersi a piangere.
Era paura, la sua.
“Non ti lascio” gli aveva risposto.
Non sapeva come fare. Non aveva mai consolato nessuno in tutta la sua vita, ma con John... John non era il resto del mondo.
Era arrivata un’ambulanza.
Sherlock non aveva smesso per un istante di stringergli la mano. Aveva schiacciato la ferita a mani nude per arrestare l’emorragia di sangue che sgorgava dal petto.
 

 
Doveva esserci speranza. Doveva.
Lui doveva spiegare a John perché era accaduto tutto questo.
Perché aveva tentato di proteggerlo.
Perché aveva fallito.
“John” lo chiamò. Sottovoce, timidamente.
Sherlock sentì il cuore contrarsi. Sì, aveva un cuore dopotutto. Pulsava, anche se avrebbe preferito non sentirlo. Anche se avrebbe preferito non esser mai tornato. Aveva danzato per settimane, per mesi, sulla linea de fuoco di Moran. Gli aveva tagliato la strada, gli aveva impedito di arrivare fino a John.
Ma non era servito a niente.
D’improvviso, i ricordi arrivarono a fiotti. John che leggeva il giornale nel soggiorno di Baker street. John seduto al tavolo che aggiornava quel suo dannato blog. Che rideva. Che lo fissava con quel cipiglio infastidito. Che lo proteggeva. Che lo guardava dal Saint Bart.
Che gli ridava l’umanità.
Sherlock allungò la mano. Prese quella di lui, la strinse. Ignorò la sua immobilità, il gelo che si propagava dalla sua pelle alla propria.
“Non so se ci sarà un’altra occasione.” Esordì. Alzò la testa, fissò la parete azzurra e anonima. Evitò con lo sguardo la pletora di fili, il monitor, l’acqua che gorgogliava nella cannula dell’ossigeno. “Non ti ho mai detto grazie per ciò che sei. E per ciò che mi hai dato.”
Non riusciva a dire di più. Sentiva una roccia in gola che gli graffiava la trachea, che gli impediva di respirare.
“Una volta ti ho detto che era la solitudine a proteggermi. Mi sbagliavo” continuò, mentre la presa sulle dita di John si faceva più salda. “Nessuno può proteggermi dalla solitudine. Solo tu puoi farlo.”
Lo sguardo si fece confuso.
“Un altro miracolo, per favore. Solo un altro.” Chiuse gli occhi.
“Torna da me.”
 
 
Ps. Questa Ff è dedicata a una persona molto importante che se ne è andata sei anni fa. Dovunque tu sia, spero che tu possa leggerla. Ti voglio bene. 

   
 
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