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Autore: Hayley Black    17/02/2013    0 recensioni
Jonah, Sam e la loro maratona infinita verso l'eterno.
Era una delle prime settimane di convivenza, una delle prime settimane in cui condividevano la vita sotto uno stesso tetto, tra le stesse pareti, una delle prime settimane in cui condividevano qualsiasi cosa. Il letto, la casa, i sogni, le illusioni, l’amore.
Con uno sbadiglio scivolò silenziosa da sotto le coperte, posando un bacio sulla spalla di Sam che mugugnò qualcosa di incomprensibile. Forse era un buongiorno arcaico coniato al momento.
Decise di fare colazione. Avrebbe fatto la doccia più tardi, quando si fosse svegliato anche lui. Così magari l’avrebbero fatta assieme.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Forse erano davvero eterni

 

   “Che è importante correre, avere freddo ogni tanto, dormire vestiti, saltare i pasti, per fare quello che volete.”
(A Camilla)


1.    Una bellissima sera d’inverno
Il vento freddo di dicembre accarezzava le foglie secche ammucchiate sull’asfalto del parco, illuminate a malapena dai lampioni circondati di falene che brillavano a intermittenza sui cigli del marciapiede.
“E’ una bellissima sera d’inverno, non trovi?” azzardò Jonah, le dita intrecciate a quelle di Sam. Seduti su una squallida e scomoda panchina dalla vernice scrostata, stretti come fossero stati nudi alle intemperie del tempo, annegavano nel silenzio interrotto solo dai loro respiri accelerati.
“Bellissima,” sussurrò Sam con un sorriso, e in un impeto di coraggio le posò un bacio veloce e timido sulle labbra.
Le loro mani si strinsero ancora di più.
 
2.    Ti amo.
“Se pensi che due settimane fa non eravamo da nessuna parte…”.
Jonah sorrise, appoggiando la schiena al muro. “E ora dove siamo?” chiese.
“Da nessuna parte, ma siamo assieme, e tanto basta,” rispose Sam, accarezzandole il dorso della mano con il pollice.
“Cos’è che dovevi dirmi, comunque?” domandò ancora la ragazza. Il suo volto era riflesso negli occhi limpidi di Sam, due pozze d’acqua.
“Ti amo. Questo dovevo dirti”.
 
3.    Debole.
Jonah sapeva che non c’era motivo di star male in quel modo, che erano motivi futili quelli per il quale sentiva lo stomaco a brandelli, ma non riusciva a far altro che piangere e piangere, come a voler consumare tutte le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento. Raggomitolata nell’angolo della stanza vuota, con la testa sulle ginocchia e i capelli raccolti davanti al viso, desiderò d’essere inghiottita dal pavimento.
Era tutto il giorno che cercava di evitare Sam, lui e i suoi occhi indagatori, lui e le sue domande, perché non voleva mostrarsi così stupida e fragile, come una bambola di pezza, non voleva mostrarsi così debole.
Ma quando lo vide entrare dalla porta della stanza dalle pareti spoglie, come la tela bianca di un pittore, tutti i pensieri razionali che aveva formulato si infransero contro un muro di mattoni.
Senza troppe cerimonie Sam la prese per un braccio e la costrinse ad alzarsi, bellissimo nella sua t-shirt bianca macchiata di pittura, nella sua rabbia nascosta a malapena dietro le palpebre.
Era arrabbiato a causa sua, a causa della sua immaturità, a causa del suo nascondersi dai problemi invece di affrontarli.
“Io e te dobbiamo parlare,” le disse, senza smettere di stringerle il polso. “Perché cazzo stai piangendo?”
“Non sto piangendo,” biascicò lei, invano, asciugandosi impacciata le lacrime che continuavano a scorrerle sulle guance. “Sono solo un po’ stanca.”
“Jonah, io voglio che tu sappia che io sono qui. Sempre. Okay? Qualsiasi cosa accada,” le sussurrò a qualche centimetro dal volto, tanto che lei riuscì a sentire il suo alito fresco di menta. “Sono qui.”
Le catturò una lacrima con il pollice, e Jonah si accorse della luce nei suoi occhi quando le sue labbra si piegarono all’insù in un sorriso che distrusse tutto il dolore.
 
4.    Promesse.
“Mi hai scritto una lettera? Davvero?”
Jonah guardò il foglio fitto di parole che Sam stringeva tra dita tremanti, e non riuscì a nascondere un sorriso a trentadue denti quando gliela porse con lo sguardo imbarazzato di chi ha paura di sembrare ridicolo.
“Il mio regalo di San Valentino,” sorrise il ragazzo, spalancando gli occhi quando lei gli saltò addosso con un’esclamazione di felicità mal contenuta. “E volevo anche darti questa,” aggiunse, mostrando il pacco che fino a quel momento aveva tenuto nascosto dietro la schiena, “così potrai immaginare che io sia sempre con te.”
Jonah, gli occhi lucidi, infilò il bordo del foglio tra le labbra e afferrò la busta bianca, tirandone fuori una delle felpe che gli aveva visto indosso pochi giorni prima, ancora pregna del suo profumo. Guardò lui, la felpa, la lettera, e gli gettò le braccia al collo stringendolo come non aveva mai fatto prima.
“Buon San Valentino!” esclamò Sam, accarezzandole la schiena e affondando il naso nei suoi capelli. “Spero ce ne siano altri mille, di San Valentino assieme a te.”
“Anche di più,” gli sussurrò Jonah sulle labbra, stampandogli un bacio rumoroso come a siglare quella promessa.
 
5.    Silenzio.
Le onde del mare lambivano la sabbia con lentezza, riempiendo il silenzio con lo scroscio dell’acqua che si ritraeva e ricominciava il suo mite assalto alla spiaggia. Il sole era ormai scomparso quasi del tutto dietro la linea dell’orizzonte, facendo sprofondare il cielo in una pozza di sangue, ma il fuoco che avevano acceso con le poche nozioni da boy scout di Jonah riusciva a tenere lontane le ombre che si allungavano sempre di più.
Jonah e Sam, stesi sulla sabbia fine e calda al riparo dal mare, restavano in silenzio ad ascoltare i battiti dei propri cuori, stretti l’uno all’altra.
“Non ho mai amato qualcuno così tanto, Jonah,” le disse, guardandola negli occhi; l’ultimo barlume di sole le incendiò le iridi scure, e Sam pensò di poter annegare in quel preciso momento.
“Neanche io,” rispose lei con un sorriso. “Non ho mai amato nessuno quanto amo te.”
Jonah intrecciò le dita a quelle di Sam, tenendole forte tra le sue. Restarono così fino alla mattina successiva, fino a quando le onde non ingoiarono le ceneri del fuoco; nessuno disse altro. Non ce n’era bisogno.
 
6.    Un anno.
“Ci credi che è già un anno che stiamo assieme?” le chiese Sam dandole un bacio sulla fronte. Jonah stava leggendo un libro accoccolata contro la sua spalla, entrambi seduti sul dondolo del parco che di solito, durante la mattina presto, era sempre vuoto.
La ragazza sorrise, voltando pagina e scostando una ciocca di capelli che le era caduta sugli occhi.
“Un anno che ti sopporto,” mormorò, sarcastica, dandogli un pizzico sulla spalla coperta dalla camicia a righe.
“Che martire!” esclamò lui, fingendosi offeso. “Ti amo, stronza.” Disse poi, costringendola a guardarlo negli occhi. Fronte contro fronte, naso contro naso, i loro respiri si intrecciavano nella bruma mattutina che cominciava a perdere il profumo della pioggia del giorno prima. Le accarezzò le labbra con le sue, sorridendo, sorridendo come non aveva mai sorriso prima, perché se era felice era solo grazie a lei, a quella ragazza dal carattere così sfaccettato da sembrare una persona diversa a seconda dei momenti della giornata, quella ragazza così perfetta nonostante la sua moltitudine di difetti che l’aveva fatto innamorare come non gli era mai successo.
“Almeno altri dieci anni così, okay?” mormorò Jonah, chiudendo il libro e accarezzandogli i capelli.
“Non me ne basterebbero neanche altri cento.”
 
7.    La sveglia.
Le lenzuola profumavano di fresco, di lavanda, profumavano dei loro corpi sudati e nudi che si distendevano sotto le coperte mentre il primo sole della giornata filtrava sornione dalla finestra disegnando arabeschi sul pavimento.
Jonah guardò il display della sveglia che segnava le sette in punto, pronto a suonare la sua cantilena squillante e fastidiosa, e lo colpì con la punta delle dita per spegnerlo e per evitare di svegliare Sam che, accanto a lei, ronfava compiaciuto. Quella notte ci aveva dato dentro ed evidentemente era molto stanco, pensò, senza riuscire a trattenere un sorriso divertito.
Era una delle prime settimane di convivenza, una delle prime settimane in cui condividevano la vita sotto uno stesso tetto, tra le stesse pareti, una delle prime settimane in cui condividevano qualsiasi cosa. Il letto, la casa, i sogni, le illusioni, l’amore.
Con uno sbadiglio scivolò silenziosa da sotto le coperte, posando un bacio sulla spalla di Sam che mugugnò qualcosa di incomprensibile. Forse era un buongiorno arcaico coniato al momento.
Decise di fare colazione. Avrebbe fatto la doccia più tardi, quando si fosse svegliato anche lui. Così magari l’avrebbero fatta assieme.
 
8.    Pittura.
“Preferisci il blu o il verde?”
Sam soppesò tra le mani i barattoli di vernice, aspettando una sua risposta. Era ridicolo vestito da imbianchino, con quel grembiule sporco di pittura e i guanti e i pennelli infilati nella tasca su un fianco che dondolavano al ritmo dei suoi movimenti impacciati.
“Il blu. Mi infonde calma,” rispose Jonah, infilando la mascherina.
Avevano deciso di dare un tocco di colore alla loro casa e di dipingere le pareti rimaste bianche fino a quella calda giornata estiva; i mobili erano stati coperti dalla pellicola protettiva e il pavimento era diventato una specie di campo minato di pennelli e giornali e campioni di colore.
Jonah intinse il pennello nel barattolo di vernice blu, pronta a inaugurare il muro, quando uno schizzo di colore la colpì sul volto disegnandole una serie di punti che partivano dalla fronte e arrivavano fino al petto. Sam scoppiò a ridere, lasciando cadere sul pavimento il rullo sporco di blu, e si preparò a ricevere il contrattacco: la donna, gli occhi fiammeggianti di rabbia ma un sorriso diabolico sulle labbra, lo immobilizzò per le braccia e gli colorò la parte destra della faccia come fosse stato un tatuaggio tribale.
“Vuoi la guerra? E guerra sia!”, Sam corse a prendere il contenitore di vernice verde e glielo rovesciò sulla testa, osservando il colore scendere a cascate sulle sue spalle e sui suoi capelli lunghissimi stretti in una coda.
Alla fine di quella lunga e soleggiata giornata, l’unica cosa rimasta bianca erano le pareti.
 
9.    Chiamami.
Jonah, in lacrime sul ciglio delle scale, guardava Sam fare le valigie in fretta e furia, schiacciando i cocci dei bicchieri che avevano rotto durante l’ultimo litigio.
Non ricordava neanche perché avessero cominciato a discutere. Forse lo stress e lo shock per la morte del loro bambino dopo cinque mesi di gravidanza, forse la perdita del lavoro di Sam, forse perché erano stanchi entrambi.
“Dove andrai?” gli chiese, stringendo le braccia al petto.
“Andrò per un po’ da mia madre, poi affitterò un monolocale o qualcosa del genere,” rispose, infilando l’ultimo maglione nella borsa. Gliel’aveva regalato lei per i loro primi dieci anni assieme.
Avevano solo ventiquattro anni ed erano già alla deriva. Trasportati via dai flutti di una vita forse troppo frettolosa, presa sottogamba, con decisioni sbagliate.
Forse avrebbero dovuto rallentare un po’.
“Chiamami,” disse Jonah, guardandolo avviarsi alla porta. Sam le rivolse un cenno del capo dispersivo, incerto, quindi infilò il cappotto e appoggiò la mano sulla maniglia in ottone.
“Non avrei mai voluto che finisse così, Jonah. Credimi,” mormorò, senza guardarla.
“Forse è meglio così. Forse è così che deve andare,” replicò lei, mentre le lacrime continuavano a scenderle sulle guance.
“Stammi bene.”
E Sam, così com’era entrato nella sua vita, impetuoso e travolgente come un uragano, ne era uscito, portando via con sé vestiti, valigie, ricordi, promesse, speranze.
Jonah pianse, pianse fino a consumarsi del tutto. Voleva consumarsi, e forse ci riuscì.
 
10. Correre per battere se stessa.
Dopo che Sam l’ebbe lasciata, Jonah cominciò a correre. Correva veloce come il vento sulla spiaggia della cittadina, i piedi nudi che lasciavano impronte sulla sabbia bagnata, il volto accarezzato dalla brezza marina e dalla salsedine che le lasciava una leggera patina salata sulla pelle. Jonah correva con i muscoli delle gambe che scattavano veloci, guizzanti, correva con i polmoni gonfi d’aria e i capelli legati che le scivolavano sul collo arrossato dal sole, correva senza una meta, senza una ragione, correva perché sembrava che fosse l’unica cosa necessaria per vivere.
Correva senza mai fermarsi. Correva per battere se stessa.
“E’ importante correre,” una voce dietro di lei la fece trasalire, arrestò la sua folle corsa contro il vento e la fece piegare in due dalla stanchezza. Di lì a poco sarebbe svenuta, e lo sapeva.
Sam, dietro di lei, la guardava sorridendo, bellissimo come sempre, bellissimo come tutti gli anni che avevano passato assieme, bellissimo come tutti i ricordi che avevano condiviso. “Perché corri?”
“Corro per battere me stessa,” rispose, asciugandosi il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Le sue gambe erano diventate un fascio di muscoli.
“Solo te stessa?” le chiese, passandosi una mano tra i capelli.
“Sì.”
Il vento soffiava tra loro come una barriera. Jonah, con i suoi venticinque anni, i suoi capelli legati, le sue gambe magre e i suoi occhi scavati, e Sam, con i suoi capelli scuri, le sue lentiggini, le sue dita lunghe da chitarrista che gli aveva sempre invidiato, le sue iridi cariche di chissà quante parole mai dette, la sua t-shirt bianca, le sue converse consumate. Sam con il suo sorriso, disarmante come sempre.
Le venne in mente la prima volta che uscirono assieme, imbarazzati e timidi quattordicenni che non riuscivano a trovare un modo per dimostrare i propri sentimenti. E ora? A distanza di dieci anni la situazione era forse peggiorata.
“Sei tornato,” disse. “Non mi hai più chiamata.”
“Scusami, Jonah. Per tutto. Ho sbagliato.”
“Abbiamo sbagliato entrambi.”
“Ti amo.”
Jonah lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, i piedi immersi nella sabbia bagnata. “E’ importante correre,” mormorò, guardandosi le ginocchia sporgenti e violacee. “Specialmente quando ci si è allenati così tanto solo per poter correre più velocemente tra le braccia della persona amata.”
E corse, corse per battere il diavolo e per battere se stessa, corse verso il suo sorriso, corse verso Sam che l’abbracciò come non aveva mai fatto prima, sulla spiaggia che li aveva visti nascere, morire e ritrovarsi più forti.
“Ti amo, Sam. Mi sei mancato.”
“Anche tu, Jonah. Anche tu.”
Jonah aveva corso e aveva battuto se stessa.
 
11. Forse erano davvero eterni.
“Buon cinquantesimo anniversario, tesoro,” sussurrò Sam, posandole in grembo un pacchetto sottile. Jonah sorrise e lo aprì con mani tremanti e veloci, curiosa di sapere cosa si celasse dietro la carta azzurrina con cui l’aveva incartato.
“Mi hai scritto una lettera?” gli chiese, come tanti anni prima. E come tanti anni prima Sam non rispose, la guardò con quegli occhi imbarazzati come per dire ‘leggila e lo scoprirai’.
E Jonah lesse la lettera, pianse, perché dopo tutti quegli anni assieme, dopo tutte le bufere violente, erano ancora in piedi, vecchi, stanchi, ma assieme. Com’erano sempre stati. Insieme e uniti.
“Ti sopporto da cinquant’anni, Sam. Sono una martire,” disse, asciugandosi una solitaria lacrima di commozione. Chiuse la lettera e la strinse forte tra le dita ormai sommerse dalle rughe e dallo scorrere del tempo, implacabile ed eterno. Anche loro sarebbero stati eterni.
“Ti amo, Jonah. Sei sempre un’adorabile stronza.”
“Sam! Certe parole non si addicono alla tua età!”
Risero entrambi nel silenzio della loro veranda, la veranda di quella casa che avevano condiviso e che li aveva visti vivere.
“Ti amo anch’io, Sam. Ti amo come quando quarant’anni fa ti corsi incontro su quella spiaggia.” Sentenziò, sorridendo e stringendogli la mano tra le sue. “Una vita insieme passata assieme a te, e ancora sento che neanche un’eternità mi basterebbe”.
“Siamo noi l’eternità, mia cara Jonah. Mia adorabile, stronza Jonah.”
Jonah rise, dandogli un bacio sulle labbra. Forse Sam aveva ragione. Forse erano davvero eterni.



Hayley's corner
Forse Hayley dovrebbe dormire la notte. E dovrebbe anche bere meno caffè, e smettere di scrivere ste cose melense e non-angst e non-nonsense che non si addicono per niente al mio animo 'omg-non-ha-un-cazzo-di-senso-ma-mi-piace'. CAZZ. 
Perchè nonsense è bello. E anche angst è bello. Ma essendo in love come un'adolescente in tempesta ormonale - dammit, io sono un'adolescente in tempesta ormonale - sono riuscita solo a scrivere sta roba la cui prima parte è ispirata MOLTO alla luv stori tra me e il mio boy. Che persona cattiva che sono, utilizzo ritagli della mia vita per fare successo. "Successo". 
La storia, non essendo nonsense (piango per questa blasfemia), non ha bisogno di particolari spiegazioni, ma anche se lo fosse stata non ve ne avrei date. Mi piace vedervi sclerare nelle recensioni alla ricerca di un senso. HAHAHAHAHAHAHAHHAHAAH. No. 
Le flashfic seguono in linea temporale la storia di questi due ragazzi che crescono, vivono, si amano, litigano, si lasciano, si riprendono, corrono, si scrivono lettere, si regalano felpe, piangono. E che alla fine della loro vita si accorgono di essere eterni, perchè dopo tutte le bufere violente (sic) sono ancora in piedi. 
Che poetessa che sono xdxd. Suvvia, passatemi il momento di diabete cronico.
BTW, non ho potuto fare a meno di inserire il tema della 'corsa' che viene utilizzato da Stephen King in uno dei suoi racconti contenuti in 'Al crepuscolo'. Dopo quel racconto ho cominciato a correre saltuariamente fino a svenire dalla stanchezza, il perchè però non l'ho ancora capito. Correre per battere se stessi a volte fa bene. La citazione è - ovviamente - di Vasco Brondi che ormai è diventato la mia bibbia. Mi basta ascoltare una delle sue bellissime canzoni-poesie e comincio a scrivere come un fiume in piena. 
Non ho altro da dire. E' dedicata alla Cami/LadieBlue perchè è una ragazza adorabile che mi beta le storie anche se io devo betargliene una da tre o quattro mesi e mi sento una persona spregevole per questo. Love u Cami.
Spero tanto che vi sia piaciuta, alla prossima!
Hayley
   
 
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