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Agosto 1382
Aucey La Plaine, Normandia
Viva il Sangue di Gesù Cristo
Eccellenza Reverendissima,
come
accordato, Vi invio la presente per comunicarVi che la bambina
è
nata: non posso ragionevolmente esser sicuro che sia lei, ma in cuor
mio non ho più dubbi. Quel viso di infante è
innocente come se
null'altro fosse che una povera orfanella, ma il suo sguardo non
mente e si ravvisa non esser pianta di questo Terreno.
Confido
che ci sia ancora speranza per noi figli di Dio, anche se in ragione
delle mie incertezze sono di tutt'altro avviso, e mi dispero: temo
per i miei fratelli e le mie sorelle, temo per la sacralità
di
questo istituto. Temo per la salvezza dell'anima mia stessa.
Possa
Dio perdonarci e darci la forza di ultimare il nostro ufficio, prima
che il Principe di questo Mondo erediti la sua corona di spine.
Prego
Vostra Eccellenza di voler accogliere le espressioni della mia
filiale devozione e raggiungermi al più presto: la croce che
mi
attende è troppo pesante per la mia sola Fede.
Tanto
Vi dovevo e con segni di vera stima e rispetto mi prostro al bacio
del Sacro Anello e mi dichiaro
di
Vostra Eccellenza Reverendissima.
Vostro
umilissimo servo,
Padre
Bernard Turstin.
A
Monsignore
Raoul
de Lamps
Vescovo
di Pontorson
Ripongo
la lettera nel cassetto.
O
Gesù Redentore, possa la mia goccia di sangue, unita al tuo,
giovare
alla redenzione del Mondo.
Chiudo
gli occhi e dormo di un sonno profondo.
Nel Nome del Padre
(Prima Parte)
Nel nome del
Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo.
Mi appello alla
misericordia del Signore di noi tutti e lo prego perché mi
dia la
forza e la lucidità per rievocare gli avvenimenti dell'anno
1359 e
quel di cui i miei occhi furono testimoni omertosi, offuscati da
bassi istinti, affinché il mio mortale peccato non abbia
più
occasione di ripetersi nei tempi a venire.
Ho implorato il
Suo perdono per tutte le sere che seguirono e continuerò a
farlo
finché il mio corpo non troverà la pietosa fine
della carne guasta,
secondo il Suo volere.
Comincerò
dall'inizio, come si deve ad una storia che meriti la giusta
attenzione, e per ordine comincerò dal mio nome.
Mi chiamo
Bernard Turstin.
Nacqui a
Servon, nel 1325, dall'errore di una madre ingenua e troppo giovane
per rendersi conto della vita che portava in grembo. Mi
gettò come
una vergogna tra gli scarti di una conceria di porto e, fin da
subito, in quel luogo fetido, imparai a riconoscere odori e avanzi di
una civiltà che non mi apparteneva ancora, ma che, presto,
sarebbe
diventata il mio gregge.
Con il primo
respiro inalai i fumi della lisciva e i vapori dell'alcool, e mi
aprii ad un mondo che sapeva di sangue e frattaglie, di feci e carne
bruciata: la mia esistenza iniziò proprio lì, in
un umido letamaio,
tra i miasmi della morte.
Fui salvato da
un macellaio che udì il mio pianto mentre scaricava in mare
le
rigaglie della sua giornata, scure e marcescenti come quelle di
sempre. Mi afferrò per un piede, mi scrollò come
un budello
inanimato e, guardandomi negli occhi, vide che invece erano pieni di
vita, ed ebbe pietà di me. Non era raro trovare neonati
indesiderati
in un posto come quello, l'unico abbastanza caldo da permettere ad un
infante di sopravvivere quel tanto che bastava perché il suo
primo
vagito non fosse colto solo dal gelido inverno.
Così fui lavato dal sangue che mi ricopriva, oltre a quello di animale, anche da quello di mia madre e l'unico contatto che ebbi mai con lei fu risciacquato dal mio corpo e sparì per sempre nello scarico di una fogna a cielo aperto.
Come la maggior
parte degli orfanelli di Servon venni affidato alle cure delle
Sorelle del Précieux Sang de Notre Seigneur e nel loro
istituto di
carità passai i primi sedici anni della mia vita. Appresi a
leggere
e scrivere, a pregare e a ringraziare Dio per la mia miseria.
Sperimentai la compassione cristiana e fui rapito dai misteri di una
Fede che per me era insieme gioia e dolore, amore e odio, affascinato
e turbato allo stesso tempo da quel dissidio irrisolvibile che
riusciva a suscitarmi nel profondo.
Nei primi mesi del 1350 decisi di accogliere la mia vocazione, pur con tutti i dubbi e le incertezze che mi appesantivano lo spirito, e mi unii all'Ordine dei Frati Minori Conventuali, i Cordeliers della Normandia. I monaci mi insegnarono tutto ciò che mi fu permesso da età e passione e, cinque anni dopo l'ingresso nell'Ordine, tornai all'orfanotrofio e aiutai le Sorelle a gestirlo con tutto me stesso, comprendendo immediatamente che il mio destino mi chiedeva di restituire ai più bisognosi parte di quella misericordia che Dio, nella Sua infinita bontà, mi aveva concesso.
Seguirono anni molto difficili, sia per me che per il paese. Guerra e pace si alternarono con costanza, ma in modo tale che ad un occhio attento, e che soprattutto fosse incredulo nei confronti della parafrasi politica del momento, non sfuggisse quella sottile connessione di interdipendenza che l'una aveva con l'altra, come se in questo mondo non abbiano altra scelta che quella di coesistere, il Bene e il Male incarnati in una dicotomia terrena e apparentemente inestirpabile. E anche quando il nemico non fosse arrivato da oltre i confini, per quanto labili e privi di una definizione concreta potessero essere, si era costretti a diffidare della propria gente, martoriata in casa propria più dei soldati in terra straniera e nelle cui viscere già ribolliva il germe dell'insurrezione, pronto per esplodere e sommergere i potenti, o chi tale sembrasse, sotto una schiumante marea di pus virulento. Le rivolte intestine che seguirono rischiarono di sventrare l'intera Normandia. Ricordo la prima ribellione contro le imposte a Rouen, come fosse ieri. Vedo ancora i corpi lungo le strade, lasciati per giorni ad imputridire nel fango come spazzatura. Vedo il sole sorgere e tramontare nei loro occhi vitrei, svuotati dalla morte e dimentichi della vita che una volta racchiudevano.
In tutto ciò
tentai con ogni mia forza di scorgere l'ombra sfuggente di un disegno
provvidenziale, perdurando in un logorante sforzo intellettivo il
quale, tuttavia e ben presto, si dimostrò essere solo una
vana
macchinazione di logica, che in ultimo nulla può e niente sa
per far
luce sui profondi misteri della teologia; a me non restò
così altra
strada che quella di proseguire nella mia missione terrena lasciando
perdere le domande del cielo e, come se nulla fosse, rinunciare ai
fin lì inutili tentativi di conciliare l'amore divino con il
sangue
versato e sprecato sulla mia terra, di cui ero ancora, e ancora sono,
perdutamente innamorato. Ma più gli anni passavano e
più non potevo
che domandarmi quale ruolo giocasse davvero l'Onnipotente
nell'esistenza delle sue creature.
E così, la
crisi che imperversava all'esterno trovò modo di riflettersi
negativamente sulla mia stessa fede, alla quale tutto il mio essere
si trovava allora appeso in grazia a un filo che, poco a poco,
diventava sempre più sottile; e sebbene in diversi momenti
della mia
vita sentii quella presa allentarsi pericolosamente, mai fui tanto
sicuro di averla persa come nell'inverno del 1359.
Il 1359 fu
l'anno della peste bubbonica e di madamoiselle Jaqueline;
quest'ultima bussò alla porta del mio istituto in una fredda
mattina
di Novembre.
Se chiudo gli
occhi posso ancora sentire i passi di sorella de Mere affrettarsi per
le scale e la sua voce fanciullesca, preda di un mal ostentato
panico, irrompere nella mia stanza.
-Padre
Bernard?
Ricordo che quando
mi fece cenno di seguirla, con quel gesto frettoloso e mal
controllato della mano, capii che fosse successo qualcosa di serio e,
trascorso un qualche breve istante, uscimmo dal portone di ingresso.
Prima
ancora di aver dato un senso alla situazione, fui investito da una
sferzata di vento gelido, nel quale avvertii, sebbene in parte
ammansiti dalle basse temperature, gli effluvi di porto e tutte
quelle altre esalazioni che si trascinava dietro passando dal mare
alle concerie, dal macello al mercato del pesce, e tra le quali, con
un fondo leggermente dolciastro, quello che non poteva essere altro
che un primo presagio di ciò che presto mi sarei trovato
davanti. E,
infatti, girato l'angolo dell'edificio, proprio in
prossimità
dell'orto dove non cresceva più niente da qualche mese, vidi
il
motivo per il quale sorella de Mere venne a chiamarmi con
così tanta
fretta.
Sul
terreno bruciato dal freddo qualcuno aveva faticosamente trascinato
una carriola di ferro battuto. Le ruote malconce e infangate erano
mezze sprofondate sotto il peso di ciò che vi era stato
gettato
dentro, di cui un braccio inanimato e sporgente dal resto era un
incontrovertibile indizio.
Ci
avvicinammo per liberarci da ogni dubbio e quel che vidi fu il
cadavere di una donna.
Era
stata adagiata su un fianco, le ginocchia raccolte al petto, in una
posizione in cui non potei non riconoscervi l'angosciante imitazione
di un infante nel grembo materno.
In
aggiunta a questo, il volume di spazio non occupato dall'esile e
denudato corpo della ragazza era colmato da una spaventosa
quantità
di sangue fumante, tanto che la povera sembrava galleggiarvi dentro
come in una tinozza. I suoi capelli ne erano intrisi e si diramavano
seguendo le forme di un corallo scarlatto.
Poi, quella mano smorta che pendeva fuori dalla carriola mi afferrò per un braccio, e un corpo che solo qualche attimo prima sembrava privo di vita iniziò ad urlare con quanto fiato aveva nei polmoni.
Portammo
immediatamente la ragazza dentro le mura dell'istituto e io rimasi ad
aspettare fuori dalla porta della lavanderia, attraverso la quale
potevo comunque sentire il vociare di sorella Flavienne e sorella
Claudine, mentre si affaccendavano nelle prime cure della poverina.
Mano
a mano che i minuti trascorrevano, il panico che traspariva dalle
loro parole nei primi istanti cedette il posto ad un tono
più calmo
e sollevato, che sortì il medesimo effetto rassicurante
anche su di
me.
Mi
fu permesso di entrare solo dopo qualche interminabile minuto. Le
care sorelle del Précieux Sang de Notre Seigneur avevano
mondato la
giovane dal sangue, smacchiato la sua pelle, datole dei vestiti
puliti e asciutti, e io fui finalmente in grado di vederle i capelli,
ora lavati e rilucenti di porpora naturale.
Mi
apparve in quel momento in tutto il suo innocente splendore, levigata
e avvolta dalla stessa luce che improvvisamente sembrava mancare dal
resto della stanza. L'attraeva su di sé, e così
il mio sguardo. Un
diamante nel buio.
Una
sola parola allora mi passò per la mente. Rinascita.
Mi
avvicinai a lei, allietato.
-Come
vi chiamate, madamoiselle?
Poi,
vidi i suoi occhi.
-Jaqueline
Uno azzurro. L'altro nocciola.
Ultimamente
non è raro che io mi ci imbatta ancora, nei suoi occhi,
illuso da un
gioco di luce e ricordi che si combinano tra loro in modo tale che io
non possa più distinguere ciò che è
vero da ciò che invece è
solo eco della mia memoria, e sulla lingua non mi rimane nient'altro
che la fiele amara del presentimento appena avvertito.
Li
vedo traballare in una fiamma, danzare tra i riflessi di una
pozzanghera, oppure impossessarsi dello sguardo di un mendicante e
supplicarmi attraverso i suoi, di occhi, un attimo solo, prima di
abbandonarlo in grembo a una sfuggente lacrima.
Mi
perseguitano tutt'ora, demoni evanescenti di un passato ancora troppo
vicino perché ceda il passo una volta per tutte.
Madamoiselle Jaqueline, forse per caso, ma io credo più probabilmente per destino, incrociò quella mattina il suo cammino con quello stesso che passava per il mio caro istituto di carità, che in sé già raccoglieva le sorti del sottoscritto e delle sorelle del Preciéux Sang. Quando qualche tempo dopo ci rendemmo conto, ripensando al momento in cui trovammo Jaqueline nell'orto, mezza congelata e ricoperta di sangue, di come quell'accadimento fosse in realtà riuscito a porsi come spartiacque tra due periodi ben distinti delle nostre esistenze - nel primo divise, poi saldamene intrecciate -, ad unirci e a vincolarci creando un continuum che ci raccordasse in modo che le sfortune di uno producessero conseguenze percepibili anche dall'altro, quando appunto ce ne accorgemmo non rimanemmo meno stupiti di chi, aprendo un cassetto per pulirne il contenuto, vi ritrovi una matassa dimenticata di stringhe, disgiunte un tempo e ora inspiegabilmente annodate.
Come ho già
detto, il 1359 fu anche l'anno della peste bubbonica.
A solo qualche
settimana dalla sua comparsa, le nostre porte dovettero aprirsi alla
straziante moltitudine di orfani a cui la malattia aveva strappato
entrambi i genitori. Ahimè, non che il morbo avesse qualche
preferenza per gli adulti, perché a dirla tutta furono
soprattutto i
corpi dei bambini a riempire fino all'orlo le fosse comuni, e noi ci
ritrovammo a combattere contro un nemico invisibile che se fosse
riuscito a raggirare tutte le nostre precauzioni per tenerlo fuori
dalle mura del mio istituto, avrebbe distrutto buona parte di quel
futuro di Servon che avevamo promesso di proteggere.
Jaqueline
svolse un ruolo essenziale in tutto questo. Non volle mai unirsi
all'ordine delle sorelle del Precieux Sang, ma desiderò
comunque
prestare i suoi servizi alla gestione dell'orfanotrofio, forse
perché
sentiva il dovere di sdebitarsi con qualcuno, o forse perché
non
aveva nessun altro posto in cui andare, ma comunque fosse, in quel
che fece per noi e per i bambini dimostrò un'esperienza ed
un
controllo straordinari, cosa che contribuì ad infittire il
mistero
che la riguardava.
Già, perché
benché si ricordasse il nome con cui era stata battezzata,
Jaqueline
non conservava il minimo ricordo delle proprie origini. Per quanto si
sforzasse, stimolata anche dalle mie continue domande, non riusciva a
ricordare niente della sua famiglia o del suo passato, remoto o
recente, compresi gli eventi che la condussero al nostro orto.
Soprattutto non
seppe mai dirci nulla del sangue che la ricopriva quando la trovammo
nella carriola, né da chi provenisse, poiché in
lei non trovammo
alcun trauma o lacerazione che ne potesse giustificare una perdita
così ingente.
In quel suo
esordio, a cui più pensavo e più questo assumeva
i tratti del
miracoloso, mi parve col tempo di riconoscervi l'ombra di un progetto
divino: mai nella mia vita mi discostai tanto lontano dal vero, ora
posso dirlo con certezza.
Perché capiate
ciò che intendo, occorre che adesso io vi narri di quella
parte
della vita di Jaqueline di cui lei pareva allora essersi dimenticata,
ma che io ebbi modo di conoscere in seguito, grazie ad eventi che
forse avrò modo di chiarire più avanti nel
racconto.
Per farlo,
concedetemi quindi di abbandonare per un attimo l'orfanotrofio e la
peste, e accompagnatemi attraverso la piana ghiacciata che separa
Servon dal villaggio di Cancale.