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Autore: Demolition    19/02/2013    2 recensioni
Qual è il segreto di Sebastian Smythe? Cosa lo ha reso il ragazzo che è? Che rapporto ha con la sua famiglia?
Per la Sebastian Smythe Week.
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Salì le scale velocemente e scivolò dentro la camera che condivideva col fratello minore.
Edgar era sul suo letto ed era sveglio. Gli occhi fissi al soffitto, supino, sembrava immerso nei suoi pensieri, in un suo mondo immaginario più caldo e accogliente di quella enorme casa intrisa di solitudine. Aveva gli stessi occhi di Sebastian e della madre, lo stesso naso a punta, ma i suoi capelli erano molto più scuri e lunghi di quelli del fratello, oltre che mossi: i ricci gli ricadevano sul viso, donandogli un aspetto raffinato e rendendolo ancora più bello di Sebastian, se possibile.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sebastian Smythe
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Mon Frère

 
 
 
Sebastian morse il toast di malavoglia, lasciandolo poi cadere sul piatto davanti a lui. Lanciò un’occhiata di sfida verso sua madre, seduta compostamente di fronte a lui, i freddi occhi verdi fissi su quelli del figlio, le labbra sottili contratte impercettibilmente.
Sebastian odiava tornare a casa nei week-end, la sua casa perfetta, la sua casa enorme, la sua casa così fredda, così poco accogliente.
«Stai prendendo buoni voti, alla Dalton?» si informò suo padre, senza sorridere. Era un uomo di mezza età, con i capelli scuri ormai radi e il fisico asciutto come quello del figlio; era uno di quegli uomini che incutono timore con il proprio aspetto ed era difficile non rispettarlo. Sebastian non lo vedeva quasi mai, durante l’anno: il signor Smythe era sempre via per lavoro e anche quando era in casa spesso si rinchiudeva nel suo studio. Era un uomo arido, divorato dall’ambizione e dal senso del dovere, completamente incapace di esternare i suoi sentimenti o semplicemente di manifestare un po’ di affetto per moglie e figli.
«Sì, papà, sono il primo della classe» lo rassicurò Sebastian, infilzando il suo toast con la forchetta e concentrandosi sulla sua colazione.
«Hai una ragazza, lì?» chiese sua madre, accendendosi una sigaretta.
La faceva spesso, quella cosa del fumare a tavola. A Sebastian sua madre piaceva più di suo padre. Per lo meno era umana.
Da piccolo, Sebastian aveva passato molti dei suoi pomeriggi con la signora Smythe, nel giardino della loro casa parigina: allora, la donna trascorreva ore a curare i suoi preziosi fiori, mentre Sebastian ascoltava tutto ciò che lei gli raccontava delle rose, delle ortensie e di qualunque pianta si trovasse in quell’angolo di paradiso.
Poi Sebastian era cresciuto e aveva cominciato a risentire di quell’atmosfera così fredda. Aveva cominciato a frequentare una scuola privata, a rinchiudersi in camera sua con i suoi libri e la sua musica; la sua famiglia si era trasferita in America e i fiori del giardino erano appassiti e con essi ogni speranza di poter avere un rapporto degno di questo nome con i suoi genitori.
La Dalton era diventata così la vera casa di Sebastian, un luogo dove il ragazzo riusciva ad essere sé stesso, senza aver paura di essere giudicato.
«No, mamma, non ho una ragazza» mormorò, socchiudendo gli occhi e inghiottendo dolorosamente il toast ormai freddo.
«Sei un così bel ragazzo, come mai non esci con nessuna?» insistette il signor Smythe, aprendo il giornale senza neanche guardare suo figlio.
Perché mi piacciono i ragazzi. Perché non posso dirvelo. Perché non capireste.
«Non insistere, caro, c’è un sacco di tempo per il nostro Bas» sorrise cordialmente sua madre, fumando con eleganza.
Sua madre era una persona triste, ecco qual era il problema. C’era costantemente una profonda malinconia nel suo sguardo, una gelida inquietudine che congelava i suoi occhi verdi anche quando sorrideva, una tristezza non indifferente nel tintinnio provocato dai suoi braccialetti, quando fumava.
«Io ho finito» mormorò Sebastian, allontanando il piatto da sé e grattando rumorosamente la sedia sul pavimento.
«Così si rovina il parquet, Bas» lo rimproverò mollemente sua madre, spegnendo la sigaretta sul posacenere.
«Scusa, Maman» mormorò il ragazzo, lanciando una coraggiosa occhiata verso suo padre. Ma l’uomo stava ancora leggendo il suo giornale, insensibile alle emozioni del figlio, alle sue esigenze, alla sua mancanza di affetto.
«Verrai in Chiesa con noi, dopo, non è vero?» gli ricordò la donna, alzandosi a sua volta per chiamare la cameriera.
«Come vuoi» mormorò Sebastian, ansioso di tornare in camera sua.
Anche se è inutile. Anche se il vostro sacerdote mi crede sbagliato. Anche se il vostro Dio si è dimenticato di me.
«Non svegliare Edgar, se torni in camera» borbottò il signor Smythe, sfogliando febbrilmente il giornale «Dio solo sa quanto lo preferisco addormentato.»
Sebastian strinse i pugni con rabbia, voltandosi.
Edgar era l’unica persona umana in quella famiglia, l’unica che sapesse della sua omosessualità, l’unico con cui Sebastian poteva sempre parlare.
Salì le scale velocemente e scivolò dentro la camera che condivideva col fratello minore.
Edgar era sul suo letto ed era sveglio. Gli occhi fissi al soffitto, supino, sembrava immerso nei suoi pensieri, in un suo mondo immaginario più caldo e accogliente di quella enorme casa intrisa di solitudine. Aveva gli stessi occhi di Sebastian e della madre, lo stesso naso a punta, ma i suoi capelli erano molto più scuri e lunghi di quelli del fratello, oltre che mossi: i ricci gli ricadevano sul viso, donandogli un aspetto raffinato e  rendendolo ancora più bello di Sebastian, se possibile.
Le sua dita erano strette attorno alle lenzuola e Edgar mormorava qualche parola sconnessa, come se non si fosse accorto della presenza del fratello.
«Ciao, Ed…» mormorò Sebastian, sedendosi sul letto dell’altro e passandogli una mano tra i capelli scuri.
«Bas» sussurrò Edgar, lasciando che una lacrima gli scivolasse su una guancia pallida.
Gli occhi di Sebastian scivolarono sui suoi polsi bendati, sulle occhiaie che cerchiavano gli occhi verdi del fratello, sulle pillole abbandonate sul comodino ai piedi del letto.
Aveva sempre cercato di difenderlo, fin da piccolo, ma quando il mostro che combatti è dentro di te non resta molto da fare. Puoi solo distruggere te stesso.  
Era stato Sebastian a trovarlo, appena un anno prima, quando per la prima volta Edgar aveva tentato il suicidio. Tra i roseti della loro casa a Parigi, Sebastian aveva rinvenuto la sua figurina scura abbandonata a terra, in una pozza di vomito. La sirena dell’ambulanza, le lacrime di sua madre, il disappunto di suo padre: flash e immagini che ricorrevano continuamente nei suoi incubi notturni.
A volte Sebastian invidiava Edgar: tra la vita e le pillole, tra la finzione e la realtà, tra la compassione e la pena, nessuno aveva mai nulla da ridire su di lui. Lo spacciavano per rotto, per finito, come se fosse andato troppo in là per tornare indietro. Aveva superato il limite, quella sottile linea che, invece, Sebastian non osava sorpassare: amava vivere sul confine proibito, amava oscillare pericolosamente avanti e indietro, senza mai compiere quel salto finale, quella rottura irrimediabile.
«Come va con quel ragazzo?» chiese Edgar, abbozzando un sorriso e stringendo la mano del fratello. «Come si chiama… Blaine?»
«Va bene» mentì Sebastian, sorridendo e cacciando indietro le lacrime. «Va tutto benissimo e presto tu verrai alla Dalton con me.»
  
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