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Autore: Nezu    21/02/2013    3 recensioni
[Gin/Shiho, Jigen/Fujiko] Gin e Vodka hanno una missione: eliminare il ricco signor Lenher e la sua figliola. Lupin ha puntato gli occhi sul tesoro di quella famiglia e non ha intenzione di farselo soffiare. Jigen è inevitabilmente tirato dentro allo scontro, mentre Shiho Miyano è inquieta per la presenza di Gin e Crazy Mash, dopo anni di silenzio, torna a tormentare il suo vecchio collega.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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6 – The final countdown

Misero piede nel vecchio edificio cadente una ventina di minuti dopo aver lasciato l’affollata strada del mercato; secondo quanto gli aveva spiegato Lupin per telefono, l’area circostante era stata un tempo il luogo ove la famiglia Lenher aveva costruito la sua abitazione, secoli e secoli prima. L’avevano difesa a spada tratta, generazione dopo generazione e, dopo così tanto tempo, era ancora di loro proprietà; la grigia palazzina che sorgeva su quel terreno l’aveva fatta costruire il padre di Erika anni prima, una semplice succursale del suo smisurato impero.

< Che meraviglia!>

Jigen questa volta non poteva che concordare con Fujiko: da un taglio perfettamente geometrico sul muro – opera di Goemon, non c’erano dubbi – s’intravedeva uno spettacolo incredibile e scintillante di oro, diamanti e pietre preziose.

< Oh, Lupin! Sei un genio!> cinguettò la donna gettandosi tra le braccia del ladro per cinque secondi esatti, passati i quali sfuggì subito alla sua presa per buttarsi a pesce sul tesoro.

Solo in quel momento Jigen si accorse di Erika, poco dietro al ladro gentiluomo; si chiese se non provasse qualcosa nel vedere la ricchezza dei suoi avi depredata senza alcun pudore, ma dal suo viso non trapelava alcuna emozione.

L’uomo scrollò le spalle e si preparò ad aiutare Goemon a riempire i tanti sacchi di refurtiva, quando però la voce di Lupin, più seria del solito, li bloccò tutti quanti.

< Fujiko… ti dispiacerebbe venire qui, per favore?>

*

Si sentiva un idiota per non averlo previsto, eppure c’era cascato; un trucco elementare, vecchia scuola, ma sempre e comunque valido. Si fissarono tutti l’un l’altro mentre il ladro più famoso del mondo teneva fra le dita quell’oggettino microscopico. Fino a che Erika Lenher non si schiarì la voce.

< Cos’è, esattamente?>

L’uomo sorrise, uno scintillio particolare negli occhi; Jigen conosceva fin troppo bene quello sguardo: era lo sguardo della sfida.

< Questa, piccola mia, è una cimice. Il che significa che presto avremo visite.>

*

Al loro arrivo l’edificio pareva completamente deserto, ma tutti e tre sapevano che era tale solo in apparenza. La cimice non puntava proprio lì e per quanto provassero a nascondersi, li avrebbero trovati.

< Aniki, che facciamo?>

Gin in tutta risposta si accese una sigaretta, lo sguardo perso nel vuoto. Gli era sempre più difficile concentrarsi su quel lavoro, ora che sapeva che Shiho era in città; poco importava che gli fosse scivolata via tra le dita, l’avrebbe ripresa, lo sapeva. E anche lei lo sapeva.

< Con un edificio così vasto sarebbe meglio dividerci o trovare la ragazzina sarà un problema. – s’intromise Vermouth dal sedile posteriore della Porsche – Allora, Gin?>

< Dividiamoci.> acconsentì lui. Sperava solo di concludere l’affare il più in fretta possibile.

*

< Eccoli lì.>

Erika non li aveva mai visti in faccia, ma quando posò gli occhi su quei volti così indecifrabili, così strani, non provò niente: né rabbia né paura né qualche altro bizzarro sentimento di rivalsa. L’unico pensiero che le passava per la testa era però inequivocabile: “devono morire”. Era una verità semplicissima: se sperava di continuare a sopravvivere, loro dovevano sparire.

Lanciò un’occhiata ai suoi attuali compagni: a vederli così non sembravano neanche lontanamente pericolosi come gli uomini in nero. Ce l’avrebbero fatta? Sarebbe riuscita a continuare a vivere? Aveva paura di scoprire la risposta.

< Il piano?> fece il samurai senza scomporsi più di tanto.

< Direi che è meglio dividersi. – bisbigliò Lupin senza perdere d’occhio il trio – Da soli sono certamente meno pericolosi che assieme.>

< Voi fate quello che volete. – s’intromise Fujiko, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio – Ma io ho un conto in sospeso con quella sgualdrina.>

Jigen e il ladro si fissarono.

< Porta in salvo la ragazzina, Lupin. Gin è affar mio.>

*

Gin arrivò prima del previsto e arrivò solo. Jigen lo aspettava al varco, sigaretta in bocca e cappello calato sugli occhi, pronto a prendere la mira: questa volta non avrebbe sbagliato. Dietro di lui Lupin ed Erika li osservavano pieni d’apprensione.

Lo sguardo del biondo si fissò subito sulla ragazzina, che impallidì vistosamente, ma non lasciò trapelare altro. Poi, lentamente, prestò un poco d’attenzione al ladro gentiluomo.

< I tuoi standard si stanno visibilmente abbassando, Jigen. Ha davvero una faccia da scimmia.>

Daisuke poteva sentire il suo compagno che si gonfiava e pestava i piedi come un bambino mentre cominciava ad inveire contro il killer; in circostanze normali non avrebbe avuto nulla da ridire, ma in quel caso la situazione era diversa.

< Porta via la ragazza, Lupin. Qui ci penso io.>

Per una volta tanto, e Jigen non sapeva neanche quali dei ringraziare, il suo compagno obbedì senza fare storie; li seguì con la coda dell’occhio mentre si allontanavano, senza perdere di vista però il suo avversario. Era perfettamente consapevole di giocare col fuoco.

< L’hai notato anche tu, Jigen?>

< Che cosa?>

< Che ha i suoi stessi occhi. Lo stesso sguardo di Ariadne. Ma di certo l’avrai notato.>

Sapeva che sarebbero arrivati a toccare quell’argomento, se l’aspettava, ma questo non rendeva le cose più facili. Si morse appena il labbro mentre il suo autocontrollo riprendeva piede.

< Sì, l’ho notato.>

Il sorriso di Gin era quanto di più disturbante Jigen avesse visto da tempo; gli faceva venir voglia di sparare, di colpirlo per fargli male. Lui aveva sempre saputo, ne era certo. Si aspettava che Mash li tradisse, che ordisse alle loro spalle; per questo era sparito, giusto prima che tutto colasse a picco. Li aveva lasciati annegare entrambi, solo che Jigen aveva avuto la sfortuna di sopravvivere.

< Direi di chiudere la faccenda qui, Daisuke. Non ho nulla contro di te, per cui lasciami andare a recuperare la ragazzina e sarà come se niente fosse accaduto.>

Le parole di Shiho gli tornarono in mente, prepotenti come non mai: “dà loro le spalle e sei un uomo morto”. Sorrise.

< Mi spiace, Gin, ma ho commesso già una volta questo errore. Non credo che lo ripeterò.>

Stava per sparare, lo sentiva nelle ossa. Stava per muovere la mano, afferrare la pistola e ficcargli un proiettile in fronte; ma qualcosa, qualcosa che Jigen non riuscì a cogliere, lo bloccò. Lo vide fissare un punto in alto, alla sua sinistra, con l’aria stupita di un animale che s’accorge d’un tratto del pericolo imminente. Poi, prima che l’uomo riuscisse a capire cosa stava effettivamente guardando il suo avversario, una pioggia di proiettili proveniente dalla parte opposta lo colse alla sprovvista.

< Porc..!>

Prima che la scarica lo raggiungesse rotolò di lato, infilandosi in un corridoio qualsiasi e cominciando a correre, il suono degli spari che lo inseguiva senza sosta. Si fermò solo quando attorno a lui ci fu il più completo silenzio, interrotto unicamente dal suo fiatone. Non capiva che diamine stava succedendo, ma al momento quel che importava era ritrovare Gin e pareggiare i conti una volta per tutte.

Mano alla pistola, avanzò facendo attenzione a dove metteva i piedi: se il biondo o quel pazzo che aveva cominciato a sparare a caso lo stavano cercando, di certo non avrebbe semplificato loro il lavoro.

Non seppe per quanto tempo si aggirò per quei corridoi in penombra – tutti dannatamente uguali… gli architetti non avevano un minimo di fantasia – ma quando sentì il suono distinto di passi che si avvicinavano alla sua posizione strinse con forza il calcio della pistola. Era pronto.

Inspirò, pronto a premere il grilletto. Lo sentiva avvicinarsi sempre di più, era lì, dietro l’angolo. Ma quando la figura sbucò di lato Jigen non sparò, anzi, per poco il mozzicone di sigaretta non gli sfuggì dalle labbra. Davanti a lui c’era Shiho Miyano.

*

C’era voluto tutto il suo coraggio per tornare indietro, in quella che aveva chiamato casa fino a poche ore prima. L’aveva fatto con il cuore in gola, aspettandosi di veder sbucare da ogni angolo, da ogni ombra, la mano di Gin, pronta a riportarla da quei mostri.

Ma quando aveva finalmente rimesso piede in quel posto, era rimasta stupita nel notare che niente era cambiato: la porta spalancata, la pistola abbandonata sul tavolino, il cellulare per  terra, sul tappeto. L’anziana signora era ancora riversa sul pavimento.

Shiho le si era avvicinata cautamente e, tranquillizzata nello scoprire che era solo priva di sensi, aveva fatto la cosa più logica che le era venuta in mente: aveva chiamato l’ambulanza e, prima che questa potesse arrivare, si era cambiata d’abito e, cellulare e pistola in borsa, si era allontanata in tutta fretta. Tanto quello non era più un luogo sicuro per lei.

Si stava dirigendo verso la stazione, pronta a prendere il primo treno che la portasse il più lontano possibile da Gin, quando aveva visto Jigen in macchina, con una donna che non conosceva al suo fianco. Aveva provato a fargli un cenno, ma lui non l’aveva notata. L’unica cosa che era riuscita a fare prima che la vettura si allontanasse troppo era stata lanciare un rilevatore di posizione sulla targa; quell’aggeggio – una delle diavolerie del repertorio di Shinichi – era quanto di più utile potesse avere con sé.

Si era sentita un po’ subdola nell’agire in quel modo, ma in fin dei conti non sapeva quando l’avrebbe rivisto e se voleva davvero sparire dalla circolazione per un po’, doveva prima salutarlo in maniera appropriata. In fondo gli era debitrice.

Ci aveva messo un po’, ma alla fine era riuscita a raggiungere il posto dov’era segnata la macchina; peccato che a pochi metri di distanza fosse parcheggiata anche una Porsche 356. Nera. Ci aveva messo un po’ per decidere sul da farsi, poi, ignorando la vocina di buon senso che le diceva di fuggire, era entrata nell’edificio.

Non si era minimamente accorta dell’ombra che l’aveva seguita fin lì.

Quel che le era apparso davanti agli occhi aveva l’aria di essere una vera e propria resa dei conti; aveva osservato i due contendenti dalla rampa di scale alla sinistra di Gin: dalla sua posizione non riusciva a vedere bene Jigen, ma sarebbe bastato molto poco, che il biondo girasse appena la testa, perché si accorgesse di lei.

Si era mossa con tutte le cautele del caso, in fin dei conti si era preparata anche a quell’evenienza; aveva estratto la pistola dalla borsa facendo ben attenzione a non fare rumore e l’aveva puntata dritta dritta in direzione di Gin. Un colpo e sarebbe tutto finito. Bastava premere quel grilletto, un grilletto che non le era mai parso così pesante. Un movimento minimo e basta.

Poi lui si era voltato.

Si era aspettata che reagisse, che cercasse di afferrare in tempo la sua amata beretta e che le sparasse, e invece non aveva mosso dito. Era rimasto lì, fermo e immobile, ad aspettare che lei facesse la sua scelta.

Snervante. Avrebbe voluto premere quel dannato grilletto, far partire quello stupido proiettile e chiudere un capitolo della sua insensata esistenza, ma il suo dito si era rifiutato di muoversi. E alla fine lei aveva abbassato la pistola.

Non aveva fatto in tempo a notare il cambio di espressione sul volto di Gin, quel sorriso beffardo che urlava ai quattro venti “lo sapevo”, perché una scarica di colpi era scesa all’improvviso e tutto quello che lei era riuscita a fare era stato fuggire e perdersi in quel dedalo di corridoi.

Aveva temuto di non trovare più l’uscita, almeno fino a che non si era trovata Jigen di fronte.

*

Aveva pensato di avere la situazione sotto controllo fino a quel momento, ma, evidentemente, era successo qualcosa di cui non era al corrente.

< Che diamine ci fai tu qui?>

Man mano che Shiho gli raccontava cos’era accaduto, Jigen cominciava a rimettere assieme i pezzi: con Shiho lì la situazione peggiorava ulteriormente. Gin sapeva che lei era lì ed era bene che se ne andasse al più presto, prima che lo scoprisse anche Vermouth.

< Io devo andarmene, Jigen, il prima possibile. Volevo solo ringraziarti, prima di partire.>

L’uomo la fissò e, in cuor suo, ringraziò che il suo cappello gli coprisse gli occhi: avrebbe preferito salutarla in condizioni più tranquille. Le posò una mano sulla spalla.

< Usciamo di qua intanto. E’ pericoloso restare fermi.>

*

Erano ritornati al punto di partenza, dove lui e Gin si erano quasi trivellati a vicenda; stavano per avanzare verso le macchine, quando una risata stridula li congelò sul posto. Jigen sentì il malumore tornare a crescergli in petto: questo era troppo anche per lui.

< Ti sono mancato, Jigen? Oh, ti prego, non scappare di nuovo come un coniglietto, vorrei scambiare due parole con te, ti va?>

Uscì dall’ombra lentamente, come un predatore che studia la preda; i suoi canini eccessivamente sviluppati scintillavano in maniera preoccupante. In mano teneva la mitraglietta a cui era tanto affezionato. Shiho lanciò un’occhiata d’intesa al suo compagno, che le fece cenno di sì con la testa: era meglio che se ne andasse.

Crazy Mash non batté ciglio quando la ragazza si allontanò in fretta, uscendo da una porta secondaria; non era lei che voleva. No, l’unico obbiettivo che veramente gli interessava era l’uomo che aveva di fronte.

< Quanto tempo, no? L’ultima volta che ci siamo incrociati sei strisciato via, ventre a terra. Spero che tu riesca ad elaborare una fuga più in grande stile, questa volta.>

Jigen sputò per terra il mozzicone di sigaretta. Non aveva alcuna intenzione di farsi prendere in giro.

< Non ho intenzione di scappare, Mash. Piuttosto, dimmi che vuoi.>

Se pensava che il volto di quel folle non potesse sembrare più disturbante, ebbene, non l’aveva ancora visto con quell’espressione: era pura cattiveria e, quel che era peggio, derisione.

< Solo darti l’estremo saluto, mio caro Jigen. In fin dei conti, secondo i miei calcoli, abbiamo solo due minuti e trentasette secondi prima che questo posticino salti in aria; sai, non sapevo se avrei avuto l’occasione di rincontrarti,  visto quanto sei bravo nel nasconderti, così ho preferito tappezzare questo posto di regalini per te. Anche se, ovviamente, mi farebbe molto più piacere ucciderti faccia a faccia.>

Ci volle qualche secondo – qualche preziosissimo secondo – prima che l’uomo capisse cosa gli stava esattamente dicendo: esplosivi. C’era da aspettarselo, da quel pazzoide. Peccato che non l’avesse minimamente sospettato.

< Ancora un minuto e quaranta secondi… non so te, mio vecchio amico, ma io avrei di meglio da fare che saltare in aria con te. Per cui ti saluto.>

Non fece neanche in tempo a finire la frase, perché Jigen se l’aspettava. Conosceva dannatamente quell’uomo e aveva imparato a leggere attraverso le sue parole, i suoi sguardi, la sua follia: aveva percepito che la sua mano stava per sfiorare l’arma prima ancora che questo accadesse sul serio. Ma lui era più veloce, era sempre stato il più veloce.

Il rumore dello sparo riecheggiò nell’aria mentre Jigen rotolava di lato per evitare i proiettili di Mash; lo sentì grugnire di dolore, lo vide tenersi il braccio sanguinante. Poi quel pazzo sorrise e il primo carico esplose sull’altro lato dell’edificio.

Sentì il pavimento sotto i suoi piedi tremare, dei calcinacci crollarono dal soffitto. Mentre si riparava il viso dalla polvere vide Crazy Mash infilare la porta, quello stupido sorrisetto stampato in volto.

Un altro boato, un’altra esplosione, questa volta più vicina. Prima che la situazione degenerasse, Jigen si decise e uscì dalla porta d’emergenza più vicina.

*

Non ne erano usciti tutti indenni, a quanto pareva. Jigen aveva assistito impotente al crollo, mentre cemento e calcinacci si accasciavano a terra, trascinando con loro il tesoro e tutti coloro che non erano riusciti a fuggire in tempo.

Aveva visto Fujiko e Goemon, illesi, allontanarsi dall’edificio; Vodka e Vermouth li aveva seguiti di lì a poco, anche loro salvi. Di Lupin ed Erika neanche l’ombra.

Sferrò un calcio ad un sasso, mentre l’angoscia tornava ad attanagliargli il petto. Una parte di lui si rifiutava di credere che Lupin fosse morto – quante volte l’aveva visto rispuntare dal nulla, come un fantasma? Troppe ormai, troppe per crederci sul serio – ma l’altro lato, molto più pessimista, gl’insinuava il dubbio, gli dava preoccupazioni.

Anche con Ariadne non aveva mai pensato che potesse finire, eppure, quando meno se l’era aspettato, era accaduto. Tutta colpa di Mash. Era sempre tutta colpa di Mash.

< E’ inutile che tu stia lì ad aspettare. I morti non tornano.>

Jigen lanciò un’occhiata di sbieco a Gin, che si stava rassettando il cappello in testa.

< Era destino che la ragazzina ci rimanesse in un’esplosione. Quanto al tuo amico, aveva l’aria troppo stupida per poter vivere a lungo.>

Il moro si lasciò andare ad un sorriso sarcastico.

< Su questo non hai tutti i torti.>

< Te l’ho già detto, Jigen: smettila di affezionarti alle persone. E’ solo una complicazione in più.>

Un gran fiatone e dei passi pesanti e poco saldi annunciarono l’arrivo di Vodka, la giacca nera ormai diventata grigia a causa dell’esplosione.

< Abbiamo controllato ovunque, aniki, ma della ragazzina nessuna traccia.>

Gin scrollò le spalle: evidentemente la notizia non gli faceva né caldo né freddo.

< Direi che il nostro compito qui è terminato. – osservò impassibile, avviandosi verso la sua amata Porsche – Alla prossima, Jigen.>

L’uomo li osservò mentre si allontanavano in silenzio, uno accanto all’altro. Rimase lì ancora un po’: presto sarebbero arrivate le sirene della polizia, sempre in ritardo. Non voleva restare abbastanza per sentirle, ma non aveva neanche voglia di andarsene. Si fermò ad aspettare.

Ci volle qualche minuto perché accadesse quello che si era aspettato fin da subito. Sentì prima un leggero scricchiolio, poi un movimento minimo in un punto imprecisato alla sua destra. Poi dal cumulo di macerie una pietra rotolò giù con gran fracasso; un’altra la seguì a ruota e dopo una terza e via dicendo. Jigen osservò la scena, profondamente divertito, mentre dal terreno sbucava prima un braccio, poi una testa con un caschetto da minatore addosso, poi un corpo intero, anzi due.

< Sorpresa!>

Mai un morto vivente era apparso più vitale. Sorrise, sistemandosi meglio il cappello sul capo, mentre Lupin si scuoteva la polvere di dosso e aiutava un’Erika un po’ stralunata a rimettersi in piedi.

< Sai, Jigen, questi caschetti sono miracolosi. Dovresti prendertene uno anche tu, al posto di quel vecchio cappello!>

Il diretto interessato scosse la testa e si avviò verso la macchina: per quel giorno ne aveva viste abbastanza. Con la coda dell’occhio vide Lupin posare una mano sulla spalla di Erika e dirle che il peggio era passato. Per una buona volta sentiva che aveva ragione.

   
 
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