6 – The final countdown
Misero
piede nel vecchio edificio cadente una
ventina di minuti dopo aver lasciato l’affollata strada del
mercato; secondo
quanto gli aveva spiegato Lupin per telefono, l’area
circostante era stata un
tempo il luogo ove la famiglia Lenher aveva costruito la sua
abitazione, secoli
e secoli prima. L’avevano difesa a spada tratta, generazione
dopo generazione
e, dopo così tanto tempo, era ancora di loro
proprietà; la grigia palazzina che
sorgeva su quel terreno l’aveva fatta costruire il padre di
Erika anni prima,
una semplice succursale del suo smisurato impero.
<
Che meraviglia!>
Jigen
questa volta non poteva che concordare con
Fujiko: da un taglio perfettamente geometrico sul muro –
opera di Goemon, non
c’erano dubbi – s’intravedeva uno
spettacolo incredibile e scintillante di oro,
diamanti e pietre preziose.
<
Oh, Lupin! Sei un genio!> cinguettò la donna
gettandosi tra le braccia del ladro per cinque secondi esatti, passati
i quali
sfuggì subito alla sua presa per buttarsi a pesce sul tesoro.
Solo
in quel momento Jigen si accorse di Erika, poco
dietro al ladro gentiluomo; si chiese se non provasse qualcosa nel
vedere la
ricchezza dei suoi avi depredata senza alcun pudore, ma dal suo viso
non
trapelava alcuna emozione.
L’uomo
scrollò le spalle e si preparò ad aiutare
Goemon a riempire i tanti sacchi di refurtiva, quando però
la voce di Lupin,
più seria del solito, li bloccò tutti quanti.
<
Fujiko… ti dispiacerebbe venire qui, per favore?>
*
Si
sentiva un idiota per non averlo previsto, eppure
c’era cascato; un trucco elementare, vecchia scuola, ma
sempre e comunque
valido. Si fissarono tutti l’un l’altro mentre il
ladro più famoso del mondo
teneva fra le dita quell’oggettino microscopico. Fino a che
Erika Lenher non si
schiarì la voce.
<
Cos’è, esattamente?>
L’uomo
sorrise, uno scintillio particolare negli
occhi; Jigen conosceva fin troppo bene quello sguardo: era lo sguardo
della
sfida.
<
Questa, piccola mia, è una cimice. Il che significa
che presto avremo visite.>
*
Al
loro arrivo l’edificio pareva completamente
deserto, ma tutti e tre sapevano che era tale solo in apparenza. La
cimice non
puntava proprio lì e per quanto provassero a nascondersi, li
avrebbero trovati.
<
Aniki, che facciamo?>
Gin
in tutta risposta si accese una sigaretta, lo
sguardo perso nel vuoto. Gli era sempre più difficile
concentrarsi su quel
lavoro, ora che sapeva che Shiho era in città; poco
importava che gli fosse
scivolata via tra le dita, l’avrebbe ripresa, lo sapeva. E
anche lei lo sapeva.
<
Con un edificio così vasto sarebbe meglio
dividerci o trovare la ragazzina sarà un problema.
– s’intromise Vermouth dal
sedile posteriore della Porsche – Allora, Gin?>
<
Dividiamoci.> acconsentì lui. Sperava solo
di concludere l’affare il più in fretta possibile.
*
<
Eccoli lì.>
Erika
non li aveva mai visti in faccia, ma quando
posò gli occhi su quei volti così indecifrabili,
così strani, non provò niente:
né rabbia né paura né qualche altro
bizzarro sentimento di rivalsa. L’unico
pensiero che le passava per la testa era però
inequivocabile: “devono morire”.
Era una verità semplicissima: se sperava di continuare a
sopravvivere, loro
dovevano sparire.
Lanciò
un’occhiata ai suoi attuali compagni: a
vederli così non sembravano neanche lontanamente pericolosi
come gli uomini in
nero. Ce l’avrebbero fatta? Sarebbe riuscita a continuare a
vivere? Aveva paura
di scoprire la risposta.
<
Il piano?> fece il samurai senza scomporsi
più di tanto.
<
Direi che è meglio dividersi. –
bisbigliò Lupin
senza perdere d’occhio il trio – Da soli sono
certamente meno pericolosi che
assieme.>
<
Voi fate quello che volete. – s’intromise
Fujiko, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio
– Ma io ho un
conto in sospeso con quella sgualdrina.>
Jigen
e il ladro si fissarono.
<
Porta in salvo la ragazzina, Lupin. Gin è affar
mio.>
*
Gin
arrivò prima del previsto e arrivò solo. Jigen
lo aspettava al varco, sigaretta in bocca e cappello calato sugli
occhi, pronto
a prendere la mira: questa volta non avrebbe sbagliato. Dietro di lui
Lupin ed
Erika li osservavano pieni d’apprensione.
Lo
sguardo del biondo si fissò subito sulla
ragazzina, che impallidì vistosamente, ma non
lasciò trapelare altro. Poi,
lentamente, prestò un poco d’attenzione al ladro
gentiluomo.
<
I tuoi standard si stanno visibilmente
abbassando, Jigen. Ha davvero una faccia da scimmia.>
Daisuke
poteva sentire il suo compagno che si
gonfiava e pestava i piedi come un bambino mentre cominciava ad inveire
contro
il killer; in circostanze normali non avrebbe avuto nulla da ridire, ma
in quel
caso la situazione era diversa.
<
Porta via la ragazza, Lupin. Qui ci penso
io.>
Per
una volta tanto, e Jigen non sapeva neanche
quali dei ringraziare, il suo compagno obbedì senza fare
storie; li seguì con
la coda dell’occhio mentre si allontanavano, senza perdere di
vista però il suo
avversario. Era perfettamente consapevole di giocare col fuoco.
<
L’hai notato anche tu, Jigen?>
<
Che cosa?>
<
Che ha i suoi stessi occhi. Lo stesso sguardo
di Ariadne. Ma di certo l’avrai notato.>
Sapeva
che sarebbero arrivati a toccare
quell’argomento, se l’aspettava, ma questo non
rendeva le cose più facili. Si
morse appena il labbro mentre il suo autocontrollo riprendeva piede.
<
Sì, l’ho notato.>
Il
sorriso di Gin era quanto di più disturbante
Jigen avesse visto da tempo; gli faceva venir voglia di sparare, di
colpirlo
per fargli male. Lui aveva sempre saputo, ne era certo. Si aspettava
che Mash
li tradisse, che ordisse alle loro spalle; per questo era sparito,
giusto prima
che tutto colasse a picco. Li aveva lasciati annegare entrambi, solo
che Jigen
aveva avuto la sfortuna di sopravvivere.
<
Direi di chiudere la faccenda qui, Daisuke. Non
ho nulla contro di te, per cui lasciami andare a recuperare la
ragazzina e sarà
come se niente fosse accaduto.>
Le
parole di Shiho gli tornarono in mente,
prepotenti come non mai: “dà loro le spalle e sei
un uomo morto”. Sorrise.
<
Mi spiace, Gin, ma ho commesso già una volta
questo errore. Non credo che lo ripeterò.>
Stava
per sparare, lo sentiva nelle ossa. Stava per
muovere la mano, afferrare la pistola e ficcargli un proiettile in
fronte; ma
qualcosa, qualcosa che Jigen non riuscì a cogliere, lo
bloccò. Lo vide fissare
un punto in alto, alla sua sinistra, con l’aria stupita di un
animale che
s’accorge d’un tratto del pericolo imminente. Poi,
prima che l’uomo riuscisse a
capire cosa stava effettivamente guardando il suo avversario, una
pioggia di
proiettili proveniente dalla parte opposta lo colse alla sprovvista.
<
Porc..!>
Prima
che la scarica lo raggiungesse rotolò di lato,
infilandosi in un corridoio qualsiasi e cominciando a correre, il suono
degli
spari che lo inseguiva senza sosta. Si fermò solo quando
attorno a lui ci fu il
più completo silenzio, interrotto unicamente dal suo
fiatone. Non capiva che
diamine stava succedendo, ma al momento quel che importava era
ritrovare Gin e
pareggiare i conti una volta per tutte.
Mano
alla pistola, avanzò facendo attenzione a dove
metteva i piedi: se il biondo o quel pazzo che aveva cominciato a
sparare a
caso lo stavano cercando, di certo non avrebbe semplificato loro il
lavoro.
Non
seppe per quanto tempo si aggirò per quei
corridoi in penombra – tutti dannatamente uguali…
gli architetti non avevano un
minimo di fantasia – ma quando sentì il suono
distinto di passi che si
avvicinavano alla sua posizione strinse con forza il calcio della
pistola. Era
pronto.
Inspirò,
pronto a premere il grilletto. Lo sentiva
avvicinarsi sempre di più, era lì, dietro
l’angolo. Ma quando la figura sbucò
di lato Jigen non sparò, anzi, per poco il mozzicone di
sigaretta non gli
sfuggì dalle labbra. Davanti a lui c’era Shiho
Miyano.
*
C’era
voluto tutto il suo coraggio per tornare
indietro, in quella che aveva chiamato casa fino a poche ore prima.
L’aveva
fatto con il cuore in gola, aspettandosi di veder sbucare da ogni
angolo, da
ogni ombra, la mano di Gin, pronta a riportarla da quei mostri.
Ma
quando aveva finalmente rimesso piede in quel
posto, era rimasta stupita nel notare che niente era cambiato: la porta
spalancata,
la pistola abbandonata sul tavolino, il cellulare per
terra, sul tappeto. L’anziana signora era
ancora riversa sul pavimento.
Shiho
le si era avvicinata cautamente e, tranquillizzata
nello scoprire che era solo priva di sensi, aveva fatto la cosa
più logica che
le era venuta in mente: aveva chiamato l’ambulanza e, prima
che questa potesse
arrivare, si era cambiata d’abito e, cellulare e pistola in
borsa, si era
allontanata in tutta fretta. Tanto quello non era più un
luogo sicuro per lei.
Si
stava dirigendo verso la stazione, pronta a
prendere il primo treno che la portasse il più lontano
possibile da Gin, quando
aveva visto Jigen in macchina, con una donna che non conosceva al suo
fianco.
Aveva provato a fargli un cenno, ma lui non l’aveva notata.
L’unica cosa che
era riuscita a fare prima che la vettura si allontanasse troppo era
stata
lanciare un rilevatore di posizione sulla targa;
quell’aggeggio – una delle
diavolerie del repertorio di Shinichi – era quanto di
più utile potesse avere
con sé.
Si
era sentita un po’ subdola nell’agire in quel
modo, ma in fin dei conti non sapeva quando l’avrebbe rivisto
e se voleva
davvero sparire dalla circolazione per un po’, doveva prima
salutarlo in
maniera appropriata. In fondo gli era debitrice.
Ci
aveva messo un po’, ma alla fine era riuscita a
raggiungere il posto dov’era segnata la macchina; peccato che
a pochi metri di
distanza fosse parcheggiata anche una Porsche 356. Nera. Ci aveva messo
un po’
per decidere sul da farsi, poi, ignorando la vocina di buon senso che
le diceva
di fuggire, era entrata nell’edificio.
Non
si era minimamente accorta dell’ombra che
l’aveva seguita fin lì.
Quel
che le era apparso davanti agli occhi aveva
l’aria di essere una vera e propria resa dei conti; aveva
osservato i due contendenti
dalla rampa di scale alla sinistra di Gin: dalla sua posizione non
riusciva a
vedere bene Jigen, ma sarebbe bastato molto poco, che il biondo girasse
appena
la testa, perché si accorgesse di lei.
Si
era mossa con tutte le cautele del caso, in fin
dei conti si era preparata anche a quell’evenienza; aveva
estratto la pistola
dalla borsa facendo ben attenzione a non fare rumore e
l’aveva puntata dritta
dritta in direzione di Gin. Un colpo e sarebbe tutto finito. Bastava
premere
quel grilletto, un grilletto che non le era mai parso così
pesante. Un
movimento minimo e basta.
Poi
lui si era voltato.
Si
era aspettata che reagisse, che cercasse di
afferrare in tempo la sua amata beretta e che le sparasse, e invece non
aveva
mosso dito. Era rimasto lì, fermo e immobile, ad aspettare
che lei facesse la
sua scelta.
Snervante.
Avrebbe voluto premere quel dannato
grilletto, far partire quello stupido proiettile e chiudere un capitolo
della
sua insensata esistenza, ma il suo dito si era rifiutato di muoversi. E
alla
fine lei aveva abbassato la pistola.
Non
aveva fatto in tempo a notare il cambio di
espressione sul volto di Gin, quel sorriso beffardo che urlava ai
quattro venti
“lo sapevo”, perché una scarica di colpi
era scesa all’improvviso e tutto
quello che lei era riuscita a fare era stato fuggire e perdersi in quel
dedalo
di corridoi.
Aveva
temuto di non trovare più l’uscita, almeno
fino a che non si era trovata Jigen di fronte.
*
Aveva
pensato di avere la situazione sotto controllo
fino a quel momento, ma, evidentemente, era successo qualcosa di cui
non era al
corrente.
<
Che diamine ci fai tu qui?>
Man
mano che Shiho gli raccontava cos’era accaduto,
Jigen cominciava a rimettere assieme i pezzi: con Shiho lì
la situazione
peggiorava ulteriormente. Gin sapeva che lei era lì ed era
bene che se ne
andasse al più presto, prima che lo scoprisse anche Vermouth.
<
Io devo andarmene, Jigen, il prima possibile.
Volevo solo ringraziarti, prima di partire.>
L’uomo
la fissò e, in cuor suo, ringraziò che il suo
cappello gli coprisse gli occhi: avrebbe preferito salutarla in
condizioni più
tranquille. Le posò una mano sulla spalla.
<
Usciamo di qua intanto. E’ pericoloso restare
fermi.>
*
Erano
ritornati al punto di partenza, dove lui e Gin
si erano quasi trivellati a vicenda; stavano per avanzare verso le
macchine,
quando una risata stridula li congelò sul posto. Jigen
sentì il malumore
tornare a crescergli in petto: questo era troppo anche per lui.
<
Ti sono mancato, Jigen? Oh, ti prego, non
scappare di nuovo come un coniglietto, vorrei scambiare due parole con
te, ti
va?>
Uscì
dall’ombra lentamente, come un predatore che
studia la preda; i suoi canini eccessivamente sviluppati scintillavano
in
maniera preoccupante. In mano teneva la mitraglietta a cui era tanto
affezionato. Shiho lanciò un’occhiata
d’intesa al suo compagno, che le fece
cenno di sì con la testa: era meglio che se ne andasse.
Crazy
Mash non batté ciglio quando la ragazza si
allontanò in fretta, uscendo da una porta secondaria; non
era lei che voleva.
No, l’unico obbiettivo che veramente gli interessava era
l’uomo che aveva di
fronte.
<
Quanto tempo, no? L’ultima volta che ci siamo
incrociati sei strisciato via, ventre a terra. Spero che tu riesca ad
elaborare
una fuga più in grande stile, questa volta.>
Jigen
sputò per terra il mozzicone di sigaretta. Non
aveva alcuna intenzione di farsi prendere in giro.
<
Non ho intenzione di scappare, Mash. Piuttosto,
dimmi che vuoi.>
Se
pensava che il volto di quel folle non potesse
sembrare più disturbante, ebbene, non l’aveva
ancora visto con
quell’espressione: era pura cattiveria e, quel che era
peggio, derisione.
<
Solo darti l’estremo saluto, mio caro Jigen. In
fin dei conti, secondo i miei calcoli, abbiamo solo due minuti e
trentasette
secondi prima che questo posticino salti in aria; sai, non sapevo se
avrei
avuto l’occasione di rincontrarti,
visto
quanto sei bravo nel nasconderti, così ho preferito
tappezzare questo posto di
regalini per te. Anche se, ovviamente, mi farebbe molto più
piacere ucciderti
faccia a faccia.>
Ci
volle qualche secondo – qualche preziosissimo
secondo – prima che l’uomo capisse cosa gli stava
esattamente dicendo:
esplosivi. C’era da aspettarselo, da quel pazzoide. Peccato
che non l’avesse
minimamente sospettato.
<
Ancora un minuto e quaranta secondi… non so te,
mio vecchio amico, ma io avrei di meglio da fare che saltare in aria
con te.
Per cui ti saluto.>
Non
fece neanche in tempo a finire la frase, perché
Jigen se l’aspettava. Conosceva dannatamente
quell’uomo e aveva imparato a
leggere attraverso le sue parole, i suoi sguardi, la sua follia: aveva
percepito che la sua mano stava per sfiorare l’arma prima
ancora che questo
accadesse sul serio. Ma lui era più veloce, era sempre stato
il più veloce.
Il
rumore dello sparo riecheggiò nell’aria mentre
Jigen rotolava di lato per evitare i proiettili di Mash; lo
sentì grugnire di
dolore, lo vide tenersi il braccio sanguinante. Poi quel pazzo sorrise
e il
primo carico esplose sull’altro lato dell’edificio.
Sentì
il pavimento sotto i suoi piedi tremare, dei
calcinacci crollarono dal soffitto. Mentre si riparava il viso dalla
polvere
vide Crazy Mash infilare la porta, quello stupido sorrisetto stampato
in volto.
Un
altro boato, un’altra esplosione, questa volta
più vicina. Prima che la situazione degenerasse, Jigen si
decise e uscì dalla
porta d’emergenza più vicina.
*
Non
ne erano usciti tutti indenni, a quanto pareva.
Jigen aveva assistito impotente al crollo, mentre cemento e calcinacci
si
accasciavano a terra, trascinando con loro il tesoro e tutti coloro che
non
erano riusciti a fuggire in tempo.
Aveva
visto Fujiko e Goemon, illesi, allontanarsi
dall’edificio; Vodka e Vermouth li aveva seguiti di
lì a poco, anche loro
salvi. Di Lupin ed Erika neanche l’ombra.
Sferrò
un calcio ad un sasso, mentre l’angoscia
tornava ad attanagliargli il petto. Una parte di lui si rifiutava di
credere
che Lupin fosse morto – quante volte l’aveva visto
rispuntare dal nulla, come
un fantasma? Troppe ormai, troppe per crederci sul serio – ma
l’altro lato,
molto più pessimista, gl’insinuava il dubbio, gli
dava preoccupazioni.
Anche
con Ariadne non aveva mai pensato che potesse
finire, eppure, quando meno se l’era aspettato, era accaduto.
Tutta colpa di
Mash. Era sempre tutta colpa di Mash.
<
E’ inutile che tu stia lì ad aspettare. I morti
non tornano.>
Jigen
lanciò un’occhiata di sbieco a Gin, che si
stava rassettando il cappello in testa.
<
Era destino che la ragazzina ci rimanesse in
un’esplosione. Quanto al tuo amico, aveva l’aria
troppo stupida per poter
vivere a lungo.>
Il
moro si lasciò andare ad un sorriso sarcastico.
<
Su questo non hai tutti i torti.>
<
Te l’ho già detto, Jigen: smettila di
affezionarti alle persone. E’ solo una complicazione in
più.>
Un
gran fiatone e dei passi pesanti e poco saldi
annunciarono l’arrivo di Vodka, la giacca nera ormai
diventata grigia a causa
dell’esplosione.
<
Abbiamo controllato ovunque, aniki, ma della
ragazzina nessuna traccia.>
Gin
scrollò le spalle: evidentemente la notizia non
gli faceva né caldo né freddo.
<
Direi che il nostro compito qui è terminato. –
osservò impassibile, avviandosi verso la sua amata Porsche
– Alla prossima,
Jigen.>
L’uomo
li osservò mentre si allontanavano in
silenzio, uno accanto all’altro. Rimase lì ancora
un po’: presto sarebbero
arrivate le sirene della polizia, sempre in ritardo. Non voleva restare
abbastanza per sentirle, ma non aveva neanche voglia di andarsene. Si
fermò ad
aspettare.
Ci
volle qualche minuto perché accadesse quello che
si era aspettato fin da subito. Sentì prima un leggero
scricchiolio, poi un
movimento minimo in un punto imprecisato alla sua destra. Poi dal
cumulo di
macerie una pietra rotolò giù con gran fracasso;
un’altra la seguì a ruota e
dopo una terza e via dicendo. Jigen osservò la scena,
profondamente divertito,
mentre dal terreno sbucava prima un braccio, poi una testa con un
caschetto da
minatore addosso, poi un corpo intero, anzi due.
<
Sorpresa!>
Mai
un morto vivente era apparso più vitale. Sorrise,
sistemandosi meglio il cappello sul capo, mentre Lupin si scuoteva la
polvere
di dosso e aiutava un’Erika un po’ stralunata a
rimettersi in piedi.
<
Sai, Jigen, questi caschetti sono miracolosi.
Dovresti prendertene uno anche tu, al posto di quel vecchio
cappello!>
Il
diretto interessato scosse la testa e si avviò
verso la macchina: per quel giorno ne aveva viste abbastanza. Con la
coda
dell’occhio vide Lupin posare una mano sulla spalla di Erika
e dirle che il
peggio era passato. Per una buona volta sentiva che aveva ragione.