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Autore: BrokenArrow    25/02/2013    8 recensioni
Questa one shot si riferisce a un flashback appena accennato e rievocato da Clary in CoLS, quando entra nella camera di Jace e trova una loro foto, appesa al muro con il suo pugnale. Ho provato un desiderio pazzesco di raccontarla perché si tratta di un semplice gesto, quotidiano, ma carico di significato come può esserlo scattare una fotografia con la persona che si ama.
Il titolo è ispirato a un pezzo di una canzone di Leonard Cohen, Anthem, che è appunto citata in CoLS.
"There's a crack in everything, that's how the light gets in."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clarissa, Izzy Lightwood, Jace Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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 Era una bella giornata d’autunno, una di quelle in cui l’aria era impregnata dell’odore delle foglie secche, misto a quello inconfondibile di New York.
Clary ormai conosceva quella città come il palmo della sua mano, le strade principali di Manhattan gremite di turisti, l’odore acre e salato che aleggiava persistente sul lungo fiume, a Brooklyn, e l’aria tutto sommato fresca che si respirava a Central Park; quella città era un crocevia di odori e colori sempre più vari. Eppure c’era sempre stato un posto nascosto, di cui Clary aveva sempre ignorato l’esistenza, o almeno fino a qualche settimana prima.
Riconobbe gli alti cancelli dell’Istituto non appena li vide: le maestose guglie protese verso il cielo di quella che, un tempo, doveva essere stata una chiesa sfarzosa, ma che ormai, agli occhi dei mondani, non era altro che un rudere senza nome e ormai dimenticato. Indugiò per qualche secondo, di fronte ad esso.
C’era qualcosa di terribilmente familiare in quell’edificio, qualcosa che le ricordava un rifugio sicuro e protetto dai pericoli esterni, qualcosa che le era sempre appartenuto e a cui sentiva di appartenere a sua volta. Casa.
Clary si era ritrovata innumerevoli volte a pensare a quella sera, al Pandemonium Club, in cui tutto era cambiato, chiedendosi come sarebbe stata la sua vita se non fosse mai venuta a conoscenza degli Shadowhunters, di quel mondo che fino a quel momento era sempre rimasto intrappolato nelle storie immaginarie che prendevano forma nei suoi disegni, e nulla di più.
Conosceva la risposta. Sarebbe successo comunque, ne era certa. In un modo o nell’altro si sarebbe pian piano resa conto di appartenere a un altro mondo, come si era sempre sentita fino a quel momento e almeno ora sapeva il perché di quella strana sensazione. In un modo o nell’altro avrebbe conosciuto quel ragazzo, armato della sua corazza protettiva fatta di sarcasmo e arroganza, ma che al suo interno celava una vulnerabilità e una bontà come pochi. Quello stesso ragazzo che aveva sempre cercato di proteggerla dalla sua impulsività e testardaggine. Jace. Doveva ammetterlo anche a se stessa: senza di lui non sarebbe sopravvissuta a lungo.
Erano appena tornati da Idris, la Guerra Mortale si era conclusa, Valentine era morto e, cosa più importante di tutte, Clary aveva scoperto che Jace non era suo fratello.
Ciò che pensava sarebbe stato impossibile e sbagliato per tutte quelle caotiche settimane, ora non era più un sogno lontano ma una realtà possibile. Una realtà che avrebbero potuto condividere per il resto dei loro giorni. E Clary lo voleva davvero, così tanto che certe volte il pensiero di poter perdere Jace, ancora una volta, dopo che era morto, pugnalato al cuore da Valentine, e lei lo aveva strappato alla morte, la faceva morire dentro. Si sentiva come fosse stato sottratto loro del tempo, quello che avevano passato nella prospettiva che non ci sarebbe stato un futuro insieme per entrambi, e ora voleva recuperarlo a ogni costo.
Una folata di vento improvvisa fece rabbrividire Clary, che tirò su in fretta la lampo della giacca verde scuro, interrompendo i suoi pensieri. Oltrepassò i cancelli di ferro battuto e si fece strada tra le siepi ornamentali che costeggiavano il breve sentiero di selciato, diretta verso l’entrata della chiesa.
E poi lo vide, seduto sui gradini di marmo levigato, proprio di fronte all’ingresso, con un libro aperto sulle ginocchia. Gli occhi che guizzavano da una riga all'altra, come ipnotizzati. Clary sentì cedere le gambe, in preda a uno smarrimento totale. Il passo sicuro che l’aveva portata fin lì ora era svanito. Si sentiva sempre così ogni volta che lo vedeva, come se una parte essenziale del suo essere le fosse stata strappata via e avesse vagato nel nulla fino a quel momento, in attesa di ricongiungersi ad essa.
Non si sarebbe mai abituata a quella sensazione, come mai le sarebbero stati del tutto noti i suoi capelli del colore dell’oro, capaci di catturare ogni tipo di luce e di trasformarsi con essa, le sue labbra carnose e morbide al tocco, le mani affusolate da pianista che sfogliavano lentamente le pagine e la cui superficie era interrotta qua e là da cicatrici, segni di violente battaglie, che lo rendevano ciò che era.
Sarebbe potuta rimanere là per sempre, in muta contemplazione, qualche metro di distanza a separarli, con la certezza che mai ne sarebbe stata stanca.
Jace, completamente assorto nella lettura, non si era accorto della sua presenza e Clary sarebbe dispiaciuto risvegliarlo da quella realtà sicura che lei trovava sempre nei libri. Ebbe un’idea. Tirò fuori lo stilo dalla tasca dei jeans e tracciò rapidamente sul polso una runa che le avrebbe conferito il movimento silenzioso di un gatto. Ancora qualche secondo e il bruciore familiare del marchio, sulla propria pelle, sarebbe svanito completamente. Dopodiché, ricacciò in fretta lo stilo in tasca e iniziò ad avvicinarsi di soppiatto. Il silenzio dei suoi passi le davano l’illusione di una tale leggerezza che avrebbe potuto librarsi in aria e spiccare il volo, se solo lo avesse voluto.
Ormai era quasi arrivata. Appoggiò una mano alla fredda colonna che sorreggeva un lato dell’edificio e ci si appiattì contro. Jace le stava di fianco, ancora totalmente ignaro della sua presenza. Il movimento quasi impercettibile delle sue labbra, che si muovevano al passo con le parole racchiuse nel libro, la fece sorridere. Aveva l’abitudine di farlo, mentre leggeva. Una lunga ciocca di capelli gli ricadeva sul viso, coprendogli in parte l’occhio sinistro. Senza indugiare oltre, Clary si staccò dalla colonna e indietreggiò lentamente di qualche passo. Ora si trovava esattamente dietro di lui, abbastanza vicino da poter sentire il suo respiro forte e regolare. Si avvicinò sempre di più, a piccoli passi, in modo da stargli sopra. Stava per appoggiargli di colpo le mani sulle spalle, con l’intenzione di fargli prendere un bello spavento, quando lui alzò di scatto la testa, incontrando i suoi occhi. Oro ambrato contro verde smeraldo. “Buh!”
Clary, colta di sorpresa, fece un debole urletto e indietreggiò barcollando, ma lui fu più veloce. L’afferrò per i polsi, attirandola a sé.
  “Non è giusto, mi hai scoperta proprio sul più bello!”, sbuffò Clary, appoggiando le mani, ancora nella stretta di lui, sulle sue spalle, la camicia di flanella bianca morbida al tocco.
Clary notò che raramente indossava qualcosa di quel colore. Aveva imparato che il bianco era il colore del lutto, secondo l’antica tradizione dei Cacciatori. E pochi giorni prima Max, il piccolo dei Lightwood, era morto. Per Jace, era sempre stato come un fratello minore da proteggere e prendersi cura, sebbene i Lightwood fossero la sua famiglia adottiva e lui per Max, era sempre stato un eroe, come quelli dei suoi fumetti preferiti. Clary attribuì la scelta di quella camicia al suo stato d'animo, ancora in lutto per la perdita di Max.
Jace, interrompendo i suoi pensieri, le fece un sorrisetto di trionfo, scrutandola dal basso.
“Pensavi che non me ne sarei accorto? Tu, Fray, sottovaluti il sottoscritto! Hai davanti a te, o meglio, sotto, Jace Lightwood, il più grande Cacciatore che sia mai esistito sulla faccia della terra.”
  “E tu dimentichi chi hai sopra di te: Clary Fray, colei che fermò la guerra, o più semplicemente la ragazza più cocciuta e testarda di questo mondo.”
  “Amo entrambe le versioni, per tua fortuna.” Le disse lui compiaciuto, appoggiandole la testa sul ventre. Chiuse gli occhi, lasciando che il sole si insinuasse tra i suoi capelli. Era una giornata insolitamente calda che portava ancora con sé l’illusione dell’estate, ormai giunta al termine.
Clary accennò un sorriso misto a lieve imbarazzo. Non era mai stata abituata a nessun genere di complimento e men che meno ci aveva mai creduto. Ma quando era Jace a farglieli, le veniva spontaneo crederci, come se fosse stata la cosa più naturale al mondo. Perché aveva imparato a conoscerlo e sapeva che non diceva mai niente, senza crederci davvero. Come la prima volta che le aveva detto che era bella, la notte in cui l’aveva portata nella serra dell’Istituto e le aveva mostrato quei fiori, i medianox, illuminati dalla debole luce della luna e che sarebbero sbocciati unicamente a mezzanotte. La notte del loro primo bacio.
Clary rabbrividì di piacere al solo ricordo, di come quel bacio sembrava essere accaduto accidentalmente, per una sua solita sbadataggine, di come lei era indietreggiata bruscamente, alla vista del coltello che Jace aveva dimenticato per terra, ed era andata a sbattere contro il suo petto, di come si era voltata con l’intenzione di scusarsi e lui le aveva preso il viso tra le mani, come fosse stato qualcosa di terribilmente fragile e l’aveva baciata, senza pensarci due volte, come solo lui sapeva fare: come se ogni volta sarebbe potuta essere l’ultima, come se volesse disperatamente trattenerla tra le sue labbra, in modo da non lasciarla scivolare via e farle assaporare tutto se stesso.
E adesso Jace era lì, la sua nuca abbandonata contro di lei, la stretta salda, ma delicata, sulle sue mani, deciso ancora una volta a non lasciarla andare via. Clary gli accarezzò dolcemente i capelli, intrecciando le dita ai riccioli morbidi e ispirando a fondo l’odore delicato che emanavano. Si sporse in avanti per osservare il libro che giaceva ancora aperto sulle sue gambe. Le pagine erano state mosse dal vento e in quel momento era possibile scorgere una frase, forse una dedica, scritta a mano in una calligrafia frettolosa e pressoché illeggibile. Si sporse un po’ di più, per cercare di capire cosa ci fosse scritto, ma colse solo un nome di sfuggita che iniziava per “w”.
  “Che cosa stavi leggendo?” Gli chiese, incuriosita più che mai. I libri sconosciuti le facevano sempre quell’effetto.
Jace aprì gli occhi di scatto, guardò il libro e poi Clary, rivolgendole un sorriso malizioso. “Niente che sia più interessante di te.” I suoi occhi ambrati riflettevano le guglie spigolose della chiesa sopra di loro. Erano così vivi che a Clary venne voglia di immergercisi dentro, fino a perdersi completamente.
  “Allora, in questo caso, potresti anche metterlo da parte e dedicarti a ciò che tu reputi ‘più interessante’.” Non sapeva da dove le venisse un’audacia tanto ardita. Non era mai stata così schietta con dei ragazzi, non che ci fosse stato mai qualcuno che le piacesse veramente, fino a quel momento. Non sapeva dire esattamente perché, ma con Jace era diverso. Doveva ammetterlo: con Jace tutto era sempre stato diverso.
  “Accetto più che volentieri il tuo suggerimento…” le disse lui in un sussurro e Clary capì cosa stava per fare nel momento in cui si protese lentamente verso l’alto, facendo leva sulle mani appoggiate alle sue spalle. Avvicinò le sue labbra a quelle di lei, coprendo sempre di più la distanza che le separava. Clary chiuse gli occhi e si avvicinò a sua volta, percependo sul viso il suo respiro, ora corto e spezzato, e sentendo su di sé l’agitazione di lui come fosse la propria.
  “Hey! Guardate qua, piccioncini.” Clary e Jace alzarono contemporaneamente lo sguardo in direzione della voce squillante che aveva spezzato il silenzio, sapendo già chi avrebbero trovato di fronte a loro.
Una Isabelle tutta pimpante e allegra, in tenuta da Cacciatrice, si era magicamente materializzata sul sentiero terroso, poco più indietro rispetto a loro. Stava guardando dentro l’obiettivo di una macchina fotografica d’epoca, una polaroid, probabilmente presa in prestito dalla biblioteca dell’Istituto, dove erano conservati oggetti antichi e ormai dimenticati tra la polvere. Clary e Jace avevano probabilmente il disappunto dipinto in faccia, perché Isabelle abbassò la macchina e li guardò.
  “Eddai, non fate quelle facce! Per quello ci sono sempre le stanze dell’Istituto, no? Avete l’imbarazzo della scelta!”
  “Izzy!”, la rimproverò Clary, per la sua tipica sfrontatezza con cui diceva le cose. Jace guardò Clary con aria divertita.
  “Detesto ammetterlo, ma ha ragione, Clary. Mi sa che dovremo rimandare a più tardi la nostra interessante conversazione…” Lasciò intendere il resto della frase e le fece l’occhiolino. Isabelle sbuffò spazientita.
  “Io mi sarei offerta gentilmente per scattarvi una foto, per cui mi ringrazierete nei prossimi cent’anni a venire. Perciò, se non vi dispiace, potreste almeno guardare un secondo l’obbiettivo, invece di mangiarvi con gli occhi come foste due bignè al cioccolato.” La calma, non era certo una delle sue doti migliori.
  “In questo caso non li avresti fatti tu, Iz.” Le rispose prontamente Jace, con una delle sue solite frecciatine sui modi parecchio discutibili di cucinare di Isabelle, e Clary dovette ammettere che aveva ragione.
Isabelle lo fulminò con uno sguardo glaciale, degno di una Cacciatrice combattiva come lei.
  “Sta zitto e sorridi. Anche tu, Clary.” Entrambi si misero in posa come aveva ordinato e si prepararono allo scatto, guardando dritto verso l’obiettivo. Isabelle iniziò il conto alla rovescia.
  “Tre…”
La stretta delle mani di Jace, intrecciate a quelle di Clary, si fece più salda e la fecero sorridere ancora di più. Avvertì un piacevole formicolio attraversarle tutto quanto il corpo. Era quella sensazione che aveva iniziato a provare da quando la sua vita era cambiata, quell’emozione inattesa, che provava in momenti brevi come il battito d’ali di un uccello, fuggenti e rari come quell’attimo e che, man mano che si accumulavano, sarebbero andati a formare, come le tessere di un puzzle, un disegno definito e chiaro come poteva esserlo solo la felicità. Ora lo sentiva. Finalmente sentiva di appartenere a qualcosa di veramente suo, in quel piccolo universo della sua vita, di cui facevano parte tutte le persone che amava, primo tra tutti colui che stava tenendo stretto tra le braccia e che mai avrebbe permesso a qualcuno di portargli via.
  “Due…”
Jace, come percependo i suoi pensieri alzò lo sguardo verso di lei ma Clary non se ne accorse, impegnata com’era a non deludere le aspettative di Isabelle. Ma a Jace non importava. Tutto ciò che voleva in quel momento era guardare Clary, in quel prezioso attimo in cui lei non si sarebbe accorta di nulla. Desiderava imprimersi bene nella mente quel viso, in modo da non dimenticarne neppure il minimo particolare. Il suo sguardo scivolò sulle sue guance rosse e lentigginose, poi sulla fiamma di capelli rossi, che le contornavano il viso, come volessero prendere vita propria… e infine sui suoi occhi.
Ciò che, in Clary, lo aveva affascinato di più, sin dalla prima volta che l’aveva vista, erano stati gli occhi. Erano del colore più bello che avesse mai visto: un verde così intenso e luminoso da sembrare vivo. Più verde delle foreste di Idris in cui era cresciuto e che aveva amato, più verde di qualunque luogo sulla terra gli era mai capitato di vedere.
  “Uno… Magnus!”
Magnus?!, pensò Clary sorpresa. Dalla macchina fotografica partì un sonoro click.
  “Ho sentito bene? Hai detto “Magnus”?” Jace scrutò Isabelle perplesso, come per valutare se fosse diventata improvvisamente pazza. Isabelle abbassò la macchina fotografico e li guardò.
  “Sì, avete sentito bene. “Formaggio” ormai è passato di moda, ci voleva qualcosa di più originale e dato che Magnus è il nostro stregone di fiducia che ci tira sempre fuori dai guai, ogni benedetta volta, mi sembrava carino fargli questo piccolo omaggio!” Sembrava davvero convinta di quello che aveva appena detto.
  “Oh, Izzy, sei sempre la solita!” Proruppe Clary, non potendo fare a meno di ridere.
Jace si trattenne a stento. Aveva imparato che era meglio non contraddire Isabelle troppo spesso, soprattutto ora che Max era morto da poco. Da quando era successo sentiva la fragilità di Isabelle come fosse la proria, nonostante lei indossasse come sempre la sua maschera d’amazzone, apparentemente inscalfibile. Jace aveva sempre pensato che era questo a renderli così simili. Avrebbero potuto davvero essere fratelli naturali.
  “Già! E visto che sono sempre la solita e visto che è quasi ora di pranzo, che ne dite di entrare e assaggiare uno dei miei piatti migliori? Vi assicuro che questa volta rimarrete a bocca aperta!”
  “Su questo non c’è dubbio.” Borbottò Jace, schiarendosi la gola. Dopodiché sciolse, a malincuore, le mani da quelle di Clary e si alzò, con la sua solita grazia, mettendo il libro che stava leggendo sottobraccio.
  “Che cosa hai detto?” Un fulmine schioccò dagli occhi di Isabelle.
  “Ho detto che saremo felicissimi e più che onorati di avere l’opportunità di gustare i tuoi unici piatti. La tua arte culinaria non ha prezzo, Izzy!” Le rispose pronto Jace, e concluse con un inchino. Clary non poté fare a meno di pensare a quanto quel gesto le ricordasse le movenze di un angelo.
  “Sarà meglio per te.” Lo avvertì Isabelle, sapendo chiaramente che quello di Jace era il suo tipico sarcasmo pronto all’uso. “Su, entriamo, non voglio starmene qui a morire di fame!” Dopodiché, estrasse dalla polaroid la fotografia appena scattata e, sventolandola nervosamente, passò in mezzo a Clary e Jace, senza degnarli di uno sguardo e svanì dietro il maestoso portone d’ingresso.
Clary si voltò verso Jace, sorprendendolo a guardarla con uno sguardo pieno d’amore, capace di dire più di quanto le parole potessero fare. Lui tese fiducioso una mano verso di lei.
  “Vogliamo andare?” Due fossette, appena accennate, spuntarono agli angoli della sua bocca e a Clary le si strinse il cuore. Non lo aveva mai visto così sereno da quando erano tornati a casa e, considerato tutto quello che avevano appena passato, ne fu immensamente felice.
  “Sì.” Clary allungò la propria mano verso quella di lui e insieme si incamminarono dentro l’edificio, lasciando che le sue dita si incastrassero alla perfezione con quelle di Jace, perché, tra le poche certezze che costellavano la sua vita, ce n’era sempre stata una, celata dentro di lei, nell’attesa di essere scoperta: in quelle mani, lo sapeva, era racchiuso il suo futuro.
  
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