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Autore: mairileni    28/02/2013    7 recensioni
Avrebbe giurato di non averlo mai visto chiedere l'elemosina; eppure quel senzatetto era sempre lì, fermo, concentratissimo a osservare il palazzo che gli stava di fronte, senza dare fastidio a nessuno; e Matthew non sapeva perché.
Però iniziava a provare la forte brama di scoprirlo.
E quella sera glielo chiese.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Christopher Wolstenholme, Matthew Bellamy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Oh, da quanto tempo! ^^
Zan-zan-zaaaaan! Il mostro è ancora tra voi! *le lettrici liberano i cani contro pwo_*
 
Disclaimer ~ I muse non sono miei, non mi pagano per scrivere queste cose e non li conosco (ç_ç).
 
Ebbene sì, non vi lascio proprio tregua! *ride* 
 
Ecco qua una cosina leggerappfffhahahaha ma chi prendo in giro? 
Ma sì, insomma, potrebbe esserci dell'angst qua e là, non ne scrivo mai *faccia colpevole*!
 
Ok, basta, ho la cretinera, come si dice da me, quindi meglio star zitti ._. *EFP al gran completo ringrazia*.
 
Questa storia è stata scritta di getto qualche tempo fa e spero tanto vi susciti qualcosa, io ci sono molto attaccata, per vari motivi. c:
 
Ci vediamo giù! ^^ 
 
Grazie, E., (sei la cosa più bella che ho! <3) e grazie a tutte coloro che mi sostengono sempre per tutte le mie storie, siete dolcissime!
 
Buona lettura *v*
 
pwo_
 
*** *** ***
 
The bystander 
 
 
 
«E questo che cazzo è?» ruggì Matthew, isterico, sbattendo con forza a terra le cuffie che si era portato intorno al collo pochi secondi prima. Esse incontrarono il suolo con un rumore fastidiosamente acuto, subito seguito da quello scoppiettante e turbato delle casse.
«Che cazzo è, ho chiesto!» gridò ancora, facendo scattare gli occhi da un tecnico all'altro, imbestialendosi ancora di più nel notare che nessuno di loro riusciva a sostenere il suo sguardo.
Barry, il responsabile ormai non più giovane del team di fonici, parlò: «Sono spiacente, Mr. Bellamy, ma è così che risulta l'effetto che vuole--»
«Cazzate! È il vostro lavoro, dannazione, voi dovete fare in modo che questo effetto sia una figata! Perché è quello che voglio!»
«Mr. Bellamy, l'effetto che ha scelto, in questo punto della canzone, non crea un grande sound, ma ho già un'idea alternativ--»
«Non me ne frega un cazzo! Se non siete capaci neanche di creare un cazzo di effetto, allora cosa siete qui a fare?»
«...» 
Dallo sgabello in fondo alla sala, un cigolio timido attirò Matthew, inducendolo a sollevare il volto per incontrare gli occhi di un Chris fin troppo tranquillo, che, alle spalle dei tecnici, lo stava ammonendo – così può bastare, mimava con l'espressione.
Matthew ignorò volutamente quel silenzioso, spassionato, avvertimento, che premeva fastidioso sulla sua coscienza impedendogli di pensare lucidamente – perché sì, Christopher aveva ragione – e più per dimostrare a se stesso di non aver bisogno di nessun consiglio da parte di quel piccolo pubblico che per altro, proseguì con la sua sfuriata.
«Siete tutti licenziati! Tutti!»
Qualcosa fece scattare la molla schiacciata tra il mento e il petto di tutti i tecnici, inducendoli a sollevare il viso in un movimento fulmineo, il coraggio improvviso di guardare il loro capo negli occhi, per comprendere fino a che punto quella frase fosse solo dettata dalla furia.
«Avete capito bene! Fuori! Ho detto fuori, non voglio più vedervi!»
«Mr. Bellamy, possiamo risolvere il problema, io ho già un'idea s--»
«Vaffanculo, Barry, ho detto fuori di qui! E sì, andate pure a dire ai giornali che Matthew Bellamy è uno schizzato, non me ne frega un cazzo! Fuori
La voce di Matt toccava picchi così alti da venire a mancare, di tanto in tanto, producendo un suono strozzato, roco, mentre la sua mano destra indicava l'uscita della stanza con un dito, il braccio teso.
 
I tecnici si allontanarono titubanti, abbandonando quell'uomo così fuori di sé solo insieme al suo bassista, che aveva assistito all'intera scena con il volto contrito, ma non aveva avuto l'ardire di contraddire Matthew neanche una volta – perché non contraddici un capo davanti ai suoi dipendenti.
«Dov'è il vino?» chiese nervosamente a se stesso Bellamy, cominciando a percorrere la stanza a lunghe falcate, da una parte all'altra «Dove cazzo è? Ce l'avevo in mano mezz'ora fa, cazzo!-- Ah, eccolo.» 
Incollò le labbra alla bottiglia e bevve un lungo sorso, ribaltando la testa all'indietro, come se avesse dovuto ingoiare una pastiglia.
«Matt.»
Questo deglutì rumorosamente e si voltò verso l'amico, senza dire nulla.
«Matt, ma-- che ti prende, eh?»
Ancora nessuna risposta.
«Hai licenziato in tronco il team di tecnici che lavora con te da due anni, Matt. Due anni! E Barry! Barry sta con noi dai tempi di Showbiz!»
«Incapaci.» biascicò Bellamy, tracannando un altro po' di vino.
Christopher era sbigottito, tanto da non riuscire neanche a trovare la formula giusta, l'atteggiamento giusto per rimproverarlo, le braccia inermi lungo i fianchi, le labbra tremanti sotto la vaga sensazione di disgusto nel vedere il suo migliore amico finire una bottiglia intera di vino rosso in cinque o sei sorsi – proprio davanti a lui. Scosse la testa, Matthew evitò il suo sguardo nell'appoggiare quella maledetta bottiglia sul ripiano e stettero entrambi in silenzio per qualche attimo, il respiro pesante di Bellamy in sottofondo.
«Matt, devi darti una calmata, cazzo!» sbottò infine Chris «Non puoi mandare tutto a puttane, non sei l'unico della band, ci siamo anche io e Dom, e le decisioni dobbiamo prenderle insieme
«Cristo, Wolsten, ma li hai visti? Un cazzo di effetto! Non sanno mettere un cazzo di effetto!»
«Matt, senti, fatti un giro e vedi di recuperare il senno, perché qui non abbiamo bisogno di un despota del cazzo, abbiamo bisogno di un professionista!»
«Ma vaffanculo, va'!» borbottò Matthew, fiondandosi contro la porta dello studio e facendola sbattere violentemente contro il muro, i passi pensanti.
Chris sospirò, si passò una mano sul volto e raccolse da terra le cuffie che il suo amico aveva distrutto pochi minuti prima nell'ennesimo scatto di rabbia.
 
Matthew percorreva le strade di Londra a passo di carica, sfrecciando veloce tra macchine, vetrine, locali, asfalto, profumi, smog, ancora asfalto. Da lì a poco sarebbe stato natale, e già la città era costellata di luci, decorazioni, luminarie, ritardatari che si affrettavano per comprare gli ultimi regali.
Il clima frenetico, euforico, di quella festa impregnava l'aria, e a Matthew fece mancare il respiro. Era sempre stato così. Si è fatto buio, realizzò, stringendosi nel cappotto fino a sentire un brivido di freddo corrergli per la schiena. Il nervosismo era svanito, così il senso di colpa era quasi riuscito ad insinuarsi nella sua testa – ma lui ci fece attenzione, e non permise che ciò accadesse.
Svoltò un primo angolo, ne svoltò in secondo, fino a ritrovarsi nel tratto principale del quartiere cinese. Adorava quella zona di Londra; quei colori sgargianti, quel profumo esotico talvolta fin troppo pungente, quella lingua incomprensibile, e il senso di calma e di rilassatezza che lasciava sulla pelle, quando la sera le strade si svuotavano e aleggiava, delicato, un tintinnio lontano – le posate delle decine di ristoranti orientali presenti in quel quartiere.
Non c'era nessuno; solo qualche passante e un bambino, laggiù, che trainava un giocattolo di plastica attaccato a uno spago giallo.
Matthew aveva inconsciamente rallentato il passo, e camminava pacato, con il naso rivolto all'insù per contemplare la bellezza delle lanterne rosse appese ai fili che passavano da un palazzo all'altro, le nappe dorate sincronizzate in una lenta danza dettata dal vento. Si tolse gli occhiali da sole, inforcati ore prima per non farsi riconoscere –  gli sembrarono inutili, in quel momento – e scostò dal capo il cappuccio dell'impermeabile, prendendo un lungo respiro.
Quella zona riusciva sempre a sorprenderlo, vi era sempre qualcosa di nuovo, di mai visto o mai notato prima da scoprire; ma quando Matthew abbassò gli occhi per posarli nuovamente sulla strada notò l'unica cosa che, nonostante tutto, non era mai cambiata, da che ne aveva memoria.
 
Quel senzatetto si trovava in piedi contro il muro del palazzo di cemento armato che faceva angolo con Faulkner Street. 
Nonostante si trovasse proprio lì non era cinese, sembrava europeo. Era immerso fino al naso nel suo enorme giaccone arancione, i pantaloni verde militare erano fin troppo larghi per lui, sgualciti e scoloriti sull'orlo, gli scarponcini marroni erano aperti sul davanti. Dal groviglio spettinato di barba e capelli castani spuntavano due occhi azzurri, luminosi e attenti, nascosti parzialmente dalle grosse sopracciglia aggrottate in un assorto cipiglio.
Dopo le numerose volte in cui si era ritrovato a passare per quella via, Matthew si era quasi abituato a quella figura costante; quel barbone in piedi, immobile, la schiena attaccata all'edificio, le mani tra il suo corpo e il muro, il viso sempre concentrato a fissare il palazzo davanti a sé, sempre, sempre, sempre.
Quell'aspetto sbattuto lo faceva sembrare più vecchio di quanto non fosse – gli dava almeno dieci anni meno di lui. Avrebbe giurato di non averlo mai visto chiedere l'elemosina; eppure quel senzatetto era sempre lì, fermo, concentratissimo a osservare il palazzo che gli stava di fronte, senza dare fastidio a nessuno; e Matthew non sapeva perché.
Però iniziava a provare la forte brama di scoprirlo.
E quella sera glielo chiese.
 
Sulle prime altro non fece che avvicinarsi di qualche passo, senza dire effettivamente nulla. Si schiarì la voce, si guardò intorno con aria imbarazzata, aprì e chiuse la bocca qualche volta, provò a seguire lo sguardo di quell'uomo ma nulla, trovò solo un anonimo palazzo giallognolo. Si ritrovò perfino a sperare che fosse l'altro, a prendere la parola e quasi si spazientì nel vedere che ciò non accadeva.
«Scusa!» sbottò infine, pentendosi subito di quell'esordio improbabile.
L'uomo – o meglio, il ragazzo – si voltò piano, come intontito da una lunga dormita, ma ancora non disse nulla.
«Cosa guardi?» continuò Matthew, senza ottenere risposta «Sei inglese?»
«Sì.»
Aveva una voce limpida – la voce di un giovane qualunque –, che non c'entrava nulla con l'immagine sporca e trasandata a cui si accompagnava.
«Ah. Parli allora.»
«Sì.»
La situazione era fin troppo surreale, e per un attimo Bellamy pensò che forse sarebbe stato più opportuno girare i tacchi ed andarsene, prima di restare invischiati in quello scomodo dialogo. 
Però non lo fece.
«Perché tutto questo interesse a fissare quel palazzo?»
Il senzatetto parve rimanere insieme sconcertato e profondamente offeso da quella domanda, l'espressione incupita e le labbra socchiuse: «Perché tutto questo interesse a parlare con un barbone?» ritorse, inaspettatamente sarcastico.
«Perché mi interessa sapere qualcosa di te.» rispose l'altro, stupendosi di quanto quelle parole fossero genuine «Quanti anni hai?»
Il ragazzo voltò per un secondo lo sguardo, infastidito da quella persona così invadente, ma rispose – chissà da quanto non parla con qualcuno, pensò Matthew.
«Ventuno.» sfiatò infine, seccato.
 
Ventuno. Dio, com'è giovane.
 
Rimasero lì in silenzio per un po', in piedi, ognuno immerso nei propri pensieri, il frontman di una band ormai famosa in tutto il mondo e un barbone, due perfetti sconosciuti provenienti dai vertici opposti della società.
Stettero zitti, per un tempo che parve interminabile.
«Non è il palazzo.» mormorò dopo qualche minuto il senzatetto, rompendo quel silenzio.
«C-come?»
«Non è il palazzo, che guardo. È la finestra.»
Matthew annuì, come per metabolizzare quella notizia che no, non avrebbe cambiato nulla, ma stranamente gli interessava.
«Perché?»
Il ragazzo soffiò dal naso, riempiendo l'aria di fronte a sé con una nuvoletta bianca e-- quello era un sorriso amaro?
«Mi piace guardare le persone che abitano in quell'appartamento. Ogni tanto passano.»
E non staccava mai gli occhi da lì, mentre parlava, così come Matthew non staccava mai gli occhi da lui mentre lo ascoltava. 
«Li conosci?»
Un altro sorriso amaro.
«Oh, no. Affatto. Ogni tanto mi piace solo illudermi di conoscerli. Sono una famiglia.»
«Perché li osservi?»
«Hanno avuto un altro bambino, recentemente, un maschio, e lo hanno chiamato Steve. Il fiocco ha campeggiato sul portone per un po'.»
«...»
«Sono in quattro, in tutto. Una coppia e due bambini.»
«Ma...tu passi le giornate a fissare quella finestra. Non-- non fai nient'altro.» 
Bellamy si sarebbe trafitto con la penna che teneva in una delle tasche dell'impermeabile, da quanto si sentì sciocco e arrogante a fare una considerazione del genere. Con uno sconosciuto, poi. Ma l'altro non parve curarsene.
«Ho paura. Se smettessi di fissare il vetro anche solo per un attimo, rischierei di perdermi un pezzo della loro storia.» fece il ragazzo, gli occhi come persi in un ricordo lontano. 
«Della loro...storia?»
«Io sono un barbone. So di esserlo, non sono uno stupido; non avrò una famiglia, non ce l'avrò mai, e questo l'ho già accettato da tempo. Però, se non posso avere una famiglia mia, beh, allora voglio avere un posto speciale nella loro.»
Sì, è certamente pazzo, pensò Matthew, completamente.
«Non pensi mai al tuo futuro?»
«Oh, quello; se mi soffermassi a pensare al mio futuro credo che impazzirei sul serio. Io sono solo uno spettatore. Il mio mondo è squallido, ma ho una piccola finestra sul mondo di qualcun altro. Tutto ciò che faccio è rubare un po' della loro vita, senza che loro se ne accorgano.»
«E-e i soldi?»
«...I soldi sono l'ultima cosa. Mangio in chiesa e lì mi danno anche qualche coperta, nessun bisogno di soldi.»
«...»
«Quell'albero di natale, a me, basta.»
Matthew si voltò finalmente verso quella finestra. Nella luce calda che la illuminava scorse distintamente la rassicurante figura di un albero addobbato da lucine gialle, fiocchi e palline rosse.
Si sentì improvvisamente la persona peggiore del mondo.
Aveva tutto: degli amici fantastici, una fidanzata bellissima, un bambino stupendo, soldi, migliaia di fan e poi feste, alcol, privilegi, lusso sfrenato, fama...ma comunque voleva di più, anche l'impossibile, anche a costo di impazzire, anche a costo di prendere le decisioni da solo, anche a costo di licenziare Barry – perfino lui –, anche a costo di licenziare il team.
Quel ragazzo invece aveva solo i vestiti che indossava, una coperta di lana e i frammenti della vita di altre persone. Però era riuscito a legare quei frammenti uno all'altro, con la colla della sua immaginazione, per cercare di rimanere comunque aggrappato al sogno di diventare, un giorno, qualcosa per qualcuno.
 
Matthew realizzò tutto questo in meno di un secondo. 
Non avrebbe offerto soldi a quel ragazzo, lui non ne aveva bisogno.
Non gli chiese il suo nome, né da quanto fosse ridotto così, né perché. 
Quando avesse voluto, del resto, avrebbe potuto ripercorrere quella via e l'avrebbe sempre trovato lì, in piedi contro al muro, a fissare l'edificio davanti a sé.
 
Non disse nulla; girò i tacchi e ripercorse la via a ritroso, dirigendosi verso casa. 
Lungo il tragitto estrasse dalla tasca l'iPhone e compose velocemente un numero di telefono, un sorriso sereno stampato in volto.
«Pronto? B-Barry? Io-- mi piacerebbe sentire la tua idea su quell'effetto.»
 
 
 
*** *** ***
 
 
 
 
 
...
Spero davvero vi sia piaciuta e di aver trattato l'argomento nel modo giusto! Ditemelo, se ne avete voglia! :)
 
Grazie a chi è arrivato qui, io non smetto di scrivere (purtroppo per voi) e dovrei tornare presto con una breve storia a capitoli! ^^ *felice*
 
Ciao a tutti, grazie di cuore! *v*
 
pwo_
   
 
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