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Autore: E n d l e s s l y    02/03/2013    4 recensioni
Non è difficile essere uno sfigato, dopo un po' ti ci abitui.
Genere: Angst, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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(anche se sono un disastro con le dediche e tutto, questa storia è per la mia amica pwo_ <3, ciao, ti voglio tanto bene! ^^ *io no, per niente*)

note: i muse non sono miei, né mi appartengono
titolo della storia preso da "sleeping with ghosts" dei placebo ^^


S
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Non è difficile essere uno sfigato, dopo un po' ti ci abitui.

Gli spintoni in corridoio, i fogli di carta che ti attaccano con una cicca sul dietro della felpa con la scritta "mezzasega", il vuoto che si crea intorno a te quando entri in una stanza, dopo un po' non ti fanno più così male.
Ci passi su. Ignori.
Distogli lo sguardo dai tipi tosti, quelli che con una sola spinta ti ridurrebbero in polvere gli organi interni. Esci da scuola quando ormai se ne sono andati già tutti, guardingo. Tiri un sospiro di sollievo quando arrivi a casa.
È facile essere uno sfigato, il difficile è smettere. Far capire agli altri che vali. Non dover continuamente sganciare soldi al tipo massiccio dell'ultimo anno, spalle ben piantate e mani robuste; sedersi a mensa con qualcuno, per una volta. Avere una persona con cui fare le ricerche di scienze.
"Uscire da quel buco di camera", direbbe mamma.
Avere per una volta un livido causato veramente da una brutta caduta. O paura di andare a scuola per quel test di storia, e solo per quello.
Ad essere sfigati ci si abitua, ma poi come si fa a smettere?



*


Oggi piove, piove così tanto che non si vede ad un palmo dal naso. Fuori da scuola tutti hanno gli ombrelli aperti e rendono difficoltoso il passaggio.
Tiro su il cappuccio perché io l'ombrello non ce l'ho -l'ho dimenticato, ancora- e infilandomi le mani in tasca cammino verso casa, riuscendo a rubare brevi tratti di asciutto sostando brevemente sotto gli ombrelli degli altri, di nascosto. Volto l'angolo e davanti a me non c'è più nessun gruppo di adolescenti che discute di sciocchezze, ma solo io e i dieci minuti di strada che mi separano da casa. E la pioggia che mi picchietta in testa e mi incolla i capelli alla fronte.
Sfilo una mano dalla tasca e con il dorso me li sposto, per evitare che mi sgocciolino negli occhi.


Ho appena attraversato la strada che sento uno «scusa!» in lontananza.
Istintivamente tutti i muscoli mi si tendono e accelero, cercando con gli occhi una qualche persona nelle vicinanze dalla quale potrei correre se le cose si mettessero troppo male. Chissà perché, ma la prospettiva di finire con la testa nel fango non mi stuzzica parecchio.
«Dico a te col cappuccio!»
Ormai sto camminando nervosamente, continuando a ripetermi come un mantra che dopo l'angolo c'è un tabaccaio nel quale potrei rifugiarmi. Dopo l'angolo. Dopo l'angolo. Dopo l'angolo.
Sento uno scatto dietro di me e comincio a correre anch'io.
Se solo il professor Proge mi vedesse ora, si pentirebbe di avermi definito "scarso nella corsa", relegandomi a soffiare nel fischietto accanto a lui e poi a segnare il tempo degli altri ragazzi, considerando uno spreco di fiato far correre anche me. "Tanto lo sappiamo come andrebbe a finire, no?" aveva ammiccato, e la storia era finita lì.
Quando mi sento strattonare per la felpa, capisco che forse Proge non aveva del tutto torto.
Il tabaccaio è così vicino e insieme lontano che mi sembra un gigantesco scherzo. Mancava solo un altro centinaio di metri...


«Sei sordo, per caso?»
Sento tutti i muscoli dolorosamente tesi.
Quanto sarebbe da perdenti se aspettassi il pugno con gli occhi chiusi?
«Ehi?» mi muove leggermente. «Ma sei fuori? Apri gli occhi»
Li apro, e deglutisco.
Non è nessuno dei soliti, li conosco bene, così come conosco bene ogni loro nocca o punta delle scarpe che mi ha sferrato un calcio in pancia. Questo qui è alto almeno una spanna più di me, con capelli lunghi e biondi e occhi di colore indecifrabile -di solito non fisso mai troppo a lungo le persone.
Il ragazzo sembra innocuo, ma chi si fida? L'ultimo di cui mi sono fidato mi ha chiuso nel bagno dei maschi del terzo piano.
Che tremendo clichè.


«Cosa avevi da correre come un pazzo?» continua.
Lo fisso diffidente, cercando di non mostrare troppo quanto io abbia voglia di urlare a squarciagola affinché qualcuno venga a salvarmi.
«Vabbè», alza le spalle, «problemi tuoi. Volevo solo dirti che hai perso questo, dietro scuola.»
Si ficca la mano che non regge l'ombrello -lui ce l'ha, ma ha pensato bene di non coprire anche me- in tasca e tira fuori un sottile braccialetto argentato, che giusto stamattina avevo preso di soppiatto da Paul, ma che poi avevo deciso di non indossare per paura che sarei stato costretto a consegnarlo a loro.
Deve essermi uscito di tasca quando ho tirato fuori la mano per spostarmi i capelli dalla fronte.
Allungo la mano per prenderlo ma la ritiro subito, certo che da un momento all'altro il ragazzo me lo toglierà dalle mani e mi tirerà un bel pugno, con tanto di soliti cori di "senza palle sfigato".
Mi fissa confuso.
«Allora? Lo prendi o no?» domanda. «Senti, non ho fatto tutta questa strada per nulla, okay? Prendilo e basta, così me ne vado»
Guardo nuovamente i suoi occhi, veloce, come se fissandolo troppo a lungo potrei risvegliare in lui chissà quale istinto animalesco.
Sbuffa.
«Abito dall'altra parte della città», sbotta, «non posso perdere il pomeriggio qui, capisci?, mi sono appena trasferito e ancora non mi oriento bene. Ci metterò un'infinità ad arrivare, okay? Quindi prendilo e finiamola qui».
Si è appena trasferito, ecco perché non l'ho mai visto.
Vorrei dirgli "anch'io", e magari suggerirgli una scorciatoia per casa sua -sa il cielo quante cose si imparano quando hai fretta di tornare a casa perché hai dietro di te il solito gruppo-, invece allungo la mano e quando lui ci lascia cadere il bracciale, la chiudo e la rimetto in tasca.
Indietreggio, aspettandomi da un momento all'altro qualche epiteto o qualche spinta.
Lui si sistema meglio la cartella, e guardandomi poco convinto si volta e se ne va.
Rimango ad osservare la sua schiena farsi più piccola in lontananza giusto per assicurarmi che se ne sia andato sul serio, poi brucio gli ultimi metri che mi separano da casa a passo veloce.


***


Quando il professor Collins distribuisce i fogli del test di scienze e do una prima occhiata al testo, mi accorgo che so tutte le risposte.
«Ritiro fra un'ora, non voglio sentire scuse» ricorda, e si lascia cadere con un tonfo sulla sedia.
Rispondo velocemente alle prime tre domande. La quarta mi sembra così facile che ci dev'essere per forza qualcosa sotto, perciò la rileggo più volte, soffermandomi sulle parole.
«Bellamy» un bisbiglio alle mie spalle.
Mi giro nervosamente.
Mark Heller, un metro e ottanta di pura forza -come ama definirsi- è appoggiato sui gomiti, proteso verso di me.
Sanno tutti che Collins è cieco come una talpa, ma fargliela così sotto il naso mi sembra anche troppo.
«Lo sai cosa devi fare, vero?» mi sibila ad un orecchio.
Annuisco velocemente, mesto, e mi rigiro.
Rileggo la domanda sulla quale avevo dubbi e poi capisco. Segno la risposta corretta e passo alla successiva.
La sei e la sette le segno a caso, nonostante io sappia rispondere correttamente: come sempre vorrei sembrare solo un alunno come tanti, e per questo devo cacciare qualche errore qui e là.
Finisco venti minuti prima che suoni la campanella, e, come da copione, mi giro velocemente per sfilare il compito dal banco di Heller, sorriso soddisfatto sul suo viso pieno.
Per un secondo, per un solo secondo, sono tentato di segnare tutte le risposte sbagliate, poi l'immagine di me -soprattutto del mio petto- pieno di lividi mi fanno cambiare idea.
«Dieci minuti alla consegna» ricorda il professore in tono monotono.
Mi rigiro per ridare velocemente a Heller il test, e solo allora tiro un sospiro di sollievo.
Mi è andata bene anche questa volta. La campana suona, il professore si alza e passa per i banchi ritirando il  test.
Distrattamente mi domando se il mio intervallo andrà bene come il compito.
Ovviamente no.


*


«Guarda chi abbiamo», uno spintone contro il muro ruvido, che mi riga i palmi.
Ci risiamo.
Una volta, quando ero un po' più piccolo, Paul mi portò sulle tazzine rotanti che spesso si trovavano alle giostre. Ovviamente lì per lì mi sembrava un'idea grandiosa, però poi, quando cominciarono a ruotare, mi pentii amaramente della scelta e volli scendere immediatamente.
Com'è logico non potei, e vomitai sulle scarpe di Paul tutto il gelato che avevo mangiato l'ora prima. Non mi portò più a nessuna giostra.
Ora mi sembra di essere tornato a quel giorno: spintonato da una parte all'altra aspetto passivamente che il loro gioco finisca.
«Dimmi Bellamy, com'é vestirsi con gli abiti di terza mano perché tua madre è così povera da non potersi permettere di comprare uno straccio per te?» domanda Gordon. «Povero, piccolo Malcom Bellamy» continua, fingendosi preoccupato.
«Matthew» sputo fra i denti.
Me ne pento subito.
«E chissenefrega?» sbotta quello facendosi serio e spingendomi nuovamente contro il muro. «Cosa credi che me ne importi del tuo nome, eh? Sfigato rottinculo»
Mark Heller ridacchia stupidamente al suo fianco, troppo codardo per immischiarsi, ma alza la mano verso l'altro per dargli il cinque.
Mi sistemo la maglia con l'intento di tornare in classe, ma com'è ovvio Mark mi stringe una mano contro il braccio, bloccandomi.
«Ehi, ma noi non abbiamo finito» mi ricorda Gordon Orians, mentre un sorriso si fa strada sul suo volto. «Mica si lasciano così gli amici» mi spiega serio. «Oh, ma che sbadato. Tu non ce li hai, gli amici»
Ridacchiano.
«Che succede qui?» domanda una voce alle loro spalle.
Un professore che non conosco sbuca dietro Mark e Gordon, sospettoso.
«Niente» gli assicura Mark, lasciando andare il mio braccio. «Discutevo con un vecchio...amico»
Il professore ci fissa tutti e tre per un attimo che sembra infinito.
«Tornate in classe» abbaia secco, prima di andarsene.
«Tornate in classe» lo scimmiotta Gordon. Scuote la testa divertito. «Professori...feccia»  commenta disgustato, e mi sputa addosso.


***


«Matt, se ti dai una mossa la cena sarà calda anche per te».
«Non ho fame» urlo dalla mia camera.
«Scendi a mangiare» replica mia madre in tono deciso.
«Davvero ma', non ne ho voglia».
Silenzio, poi un rumore di passi su per le scale. Sospiro.
Bussano alla porta.
«Matt? Posso entrare?»
Non rispondo, ma lei apre la porta lo stesso e ficca la testa in stanza.
«C'è la pasta che ti piace tanto» mi informa con un sorriso.
Nascondo la testa sotto il braccio.
«Scendi?»
«...»
Accetto più per non deluderla che per altro. Scendo stancamente le scale e mi siedo al mio posto. Paul è già a metà del suo piatto.
«Ti stavo dicendo, ma', che questa volta è diverso» replica a bocca piena. «Questa Eveline mi piace sul serio»
«...esattamente come hai detto, un mese fa, di Rossane» commenta la signora Bellamy con un sorriso ironico, sedendosi a tavola.
«E due mesi fa di...come si chiamava? Patricia» aggiungo mentre anch'io prendo posto.
Forse questa cena non sará poi così male.
«Sì ma è diverso» ripete lui accalorato. «Mamma, dovresti vederla, è bellissima»
«Mh mh» annuisce lei, servendosi della pasta. «Matt, tesoro, ne vuoi un altro po'?»
«--la vedo tutte le mattine sul bus--» continua Paul.
«No mamma, basta così»
«--e lei ogni mattina mi guarda. Mi guarda! Per interi minuti!»
«Penserà che tu abbia la faccia da idiota» commento.
«No ti dico!» replica lui, ignorando la provocazione. «Le piaccio», e sorride.
«Vedremo questa...Eveline... cosa combinerà» conclude mamma. «Com'é andata oggi a scuola, Matt? Bene?» domanda poi.
«E io chi sono, il figlio del vicino?» ribatte Paul, fingendosi offeso.
Mamma gli riserva un'occhiata in tralice. «Paul, so benissimo che oggi non sei andato a scuola. La signora Merry ti ha visto nel parco con i tuoi amici».
Paul arrossisce, e abbassando la testa dice qualcosa che assomiglia molto a "vecchia impicciona".
Rido.
«Allora? Tutto a posto?» mi incalza lei, sorridendo.
Sono stato di nuovo malmenato.
Ho passato il test di scienze ad Heller.
Mi hanno insultato e sputato addosso, tanto per cambiare.
«Bene!» esclamo frettolosamente, cercando di apparire convincente e sfoderando un sorriso. «Mi passi il sale?» domando a Paul subito dopo, per cambiare discorso.
«Dove dovresti mettere il sale, Matt? La tua pasta è finita» mi fa notare mamma, e il tono che usa è lo stesso che adoperava quando avevo cinque anni e tentavo di mentire spudoratamente per nascondere i miei disastri, quando lei in realtà sapeva già tutto.
«--l'acqua, intendevo l'acqua» mi correggo.
Sollevo lo sguardo e mi accorgo che l'acqua è esattamente davanti al mio piatto. Sento lo sguardo di mamma sulla mia nuca, e quello allibito di Paul.
«Mi sa che quello idiota sei tu» ridacchia.
«Basta così, Paul» taglia corto mamma.
Mi guarda ancora un'ultima volta, le labbra stirate in una linea dritta e la fronte corrucciata, e capisco che sospetta qualcosa.

______

allora, eccoci qua ^^ *i lettori tirano pomodori in testa ad alessia* se vi avessi annoiato/disgustato, credetemi, non l'ho fatto apposta D:
dato che questa fic era nata con l'intento di non essere pubblicata, vorrei sapere se vale la pena che io la continui o se é meglio che io mi dia all'ippica *la seconda che hai detto*

aawh, non so più che dire! T_T
nulla, vediamo come va.

cheers, 
E.



   
 
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